Stampa
Categoria: Ambiente
Creato Lunedì, 05 Aprile 2021

VentoLe Georgiche: il vento, di Rino Ermini (n°242)

Il vento. Come si può non scrivere del vento? Il vento nella gola di un camino una sera d’inverno. Il vento Tramontano in un bosco di faggi subito sotto il crinale dei monti, con la sua voce imponente, solo molto più in basso, sulle colline, un poco mitigata nei boschi di castagni e fra gli olivi. E che cosa ha in sé e che cosa porta quel leggero vento di maestrale che accarezza il viso a una ragazza, seduti in un prato a primavera, mentre le fai la tua dichiarazione d’amore? Avete mai visto poi un bicchiere di vino guardato in controluce col vento Marino, un giorno di maggio, seduti al tavolo di un’osteria, tu e quella ragazza?

“...parturit almus ager Zephyrique tepentibus auris / laxant arva sinus; superat tener omnibus umor, / inque novos soles audent se germina tuto / credere, nec metuit surgentis pampinus Austros / aut actum caelo magnis Aquilonibus imbrem, / sed trudit gemmas et frondes explicat omnis. / Non alios prima crescentis origine mundi /  inluxisse dies aliumve habuisse tenorem / crediderim; ver illud erat, ver magnus agebat / orbis et hibernis parcebant flatibus Euri, / cum primae lucem pecudes haussere virumque / terrea progenies duris caput extulit  arvis / immissaeque ferae silvis et sidera caelo.” 

Libro II, vv. 330-342

“... il campo benigno germoglia e alle tiepide brezze di Zefiro / la terra apre il seno; sovrabbonda su tutto un tenero / umore; i germi si affidano sicuri ai nuovi raggi / del sole, il tralcio non teme il levarsi dell’Austro / e la pioggia sospinta pel cielo dal forte Aquilone, / ma sporge le gemme e dispiega tutte le sue fronde. / Crederei che non diversi splendessero  i giorni all’origine / del mondo crescente, e non avessero diversa condizione: / quella fu primavera, il grande universo viveva / la primavera, gli Euri si astenevano dalle raffiche dell’inverno, / quando i primi animali bevvero la luce e gli uomini, / terrestre progenie, sollevarono il capo dai duri campi, / e le belve furono assegnate alle foreste e le stelle al cielo.”

I venti da noi erano tre: il Tramontano, l’Acquaio e il Marino. Sulla direzione da cui venivano non c’era bisogno della bussola o della Rosa dei venti. Si vedeva a occhio, bastava mettere il viso all’aria o guardare le fronde degli alberi. O anche no. Potevi stare anche a occhi chiusi. Lo capivi lo stesso e subito da dove venivano i venti.

Il Tramontano. È bello ascoltarne la voce di notte prima di prendere sonno. Non si può confondere la voce del Tramontano con quella di altri venti. E da dove  viene,  lo sanno tutti: viene dal Nord. Da noi, nord o non nord, veniva dalla Montagna. Che stava alle nostre spalle. Si chiamava e si chiama, perché le montagne sono eterne, Pratomagno. Una catena del preappennino, montagne basse, il punto più alto milleseicento metri, completamente boscate se si escludono le “pratine” sommitali. Stava un po’ a Nord e un po’ a Est. Ma stesse come stesse, il Tramontano veniva da lì. Saliva dalla Romagna, scavalcava la giogaia dell’Appennino fra il passo del Muraglione e quello dei Mandrioli, schiaffeggiava il Falterona, Camaldoli e il Casentino. Poi veniva di qua per andare a perdersi sfinito nel Chianti e più lontano ancora verso l’Amiata e la Maremma, dove moriva. Durava tre giorni, dicevano. Era un disastro se il Tramontano arrivava fra novembre e dicembre, con le olive già mature e ancora da raccogliere che andavano in buona parte in terra; e si dovevano raccattare poi, una per una, a mano, con le mani per un paio di mesi nella terra ghiacciata o nel fango, a seconda che la temperatura fosse sotto o un po’ sopra allo zero. Il Tramontano, se era in ottobre, era utile per far cadere i marroni o le castagne. I marroni in genere si aspettavano in terra, tre oggi e quattro domani, o si “battevano” con una lunga pertica salendo sulla pianta (cosa assai pericolosa di cui, se si poteva, si faceva volentieri a meno). Se andava bene, ci  pensava una “ventata” di una sola notte a metterli giù e risparmiarci rischi e fatica.

L’Acquaio veniva da sinistra se guardavi verso il Valdarno e il Chianti. Da destra se guardavi la montagna. Veniva quindi, grosso modo, da Sud-est. Chi andava a scuola aveva un atteggiamento di sufficienza e di compatimento verso la maestra o i professori delle medie i quali dicevano che quel vento si chiamava Scirocco. Mah, scirocco una sega, scirocco sarà i’ tu’ nonno. Per noi era Acquaio, e ci sembrava  meglio chiamarlo col suo nome, visto oltretutto che portava l’acqua. Si accompagnava a nubi nere e dense in veloce movimento. E soprattutto, se era forte, ci potevi scommettere che avrebbe smesso di soffiare di lì a poco per lasciare il posto all’acqua a scroscio. Quindi era quasi sempre un vento amato perché difficilmente l’acqua non era benvenuta. Tranne quando, come poteva accadere nei mesi estivi,   avesse portato grandine e fatto danno alle colture in atto, grani e uve soprattutto.

Il Marino veniva dalla direzione contraria all’Acquaio. Era sostanzialmente un maestralino che puliva il cielo. Difficilmente era forte. Portava bel tempo. Era gradito in modo particolare al tempo della mietitura, della vendemmia e delle semine. Se il Marino, l’Acquaio e il Tramontano non venivano al momento giusto  e soprattutto con le “ dovute maniere”, la colpa era sempre di dio, della madonna e di tutti i santi del  calendario  che venivano chiamati in causa con bestemmie che rintronavano su tutto l’altipiano, in un modo tale che né i santi né gli dei potevano far finta di non aver sentito. Solo chi andava assiduamente in chiesa si limitava a qualche generico accidente di circostanza contro i casi della natura e nulla più.

I venti, come si sarà capito, erano fondamentali per le previsioni del tempo, per le quali avevamo un modo che era quello delle piante e degli animali, indiscutibilmente scientifico. Non c’erano nelle case né cellulari né televisioni. Come sarebbe stato il tempo lo sapevi alzandoti al mattino e dando un’occhiata in giro, sentendolo a pelle, e magari ricordandoti come era andata l’anno prima nello stesso periodo. Quindi, si potrebbe dire, nulla più che l’osservazione e la statistica. I venti, dicevo, erano importanti, e si vedeva e si sentiva come “tiravano”. Ma se due venti fratelli fossero stati troppo deboli per distinguerli, bastava guardare là, all’attacco delle “montagne di sotto”, cioè le colline del Chianti, il fumo (era una colonna di vapore) che saliva dalla centrale di Santa Barbara, la centrale elettrica che bruciava lignite delle miniere di Castelnuovo dei Sabbioni. Se la colonna era piegata verso destra era vent’Acquaio, e più era vicina a terra, più forte e vicina sarebbe stata la pioggia; se era piegata leggermente dall’altra parte, erano Marino e bel tempo. Se era diritta verso l’alto era bel tempo lo stesso, fisso, cioè stabile, e sarebbe durato molti giorni.

Con questa dissertazione sui venti, ha termine la nostra lettura delle Georgiche messe a confronto con un podere del Valdarno più o meno alla metà del secolo scorso. Credo utile segnalare, per chi fosse interessato, che un fascicoletto dattiloscritto relativo a questo podere, non esattamente quel che abbiamo scritto in queste pagine, ma nemmeno poi tanto diverso, è depositato presso l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, alta Valtiberina. Non so se sia consultabile, ma crederei di sì.