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Categoria: Diario libertario
Creato Mercoledì, 01 Maggio 2013

La scoperta di Milano: omaggio a Enzo Iannacci, di Alessio Lega (n°157)

Album l'Armando di Enzo IannacciOhé, sun chì, vegni giò con la piena

vegni gio chi a Milan, mi a Milan,

mi g’avevi du an, forse tri an a pena…

Ohé sun chì. Ma quan sunt arrivà chi, mi el terun…

Arrivavo anch’io, non precisamente bambino non proprio di due tre anni, ne avevo compiuti diciotto quando sono arrivato a Milano. E non era propriamente la vita di miseria degli immigrati degli anni ’50, quella di “Rocco e i suoi fratelli”, quella dei fratelli di mio nonno. Arrivavo per studiare grafica, disegno, per diventare fumettaro, con tutto un futuro delineato nella mia testa che poi non si è avverato.

 

Caro Diario Libertario,

non so se conosci la sensazione di essere nati confinati in un universo al di là delle Colonne d’Ercole della storia, guardare il mondo come una cosa irraggiungibile, da dietro le persiane, sentirsi alla periferia della vita. Così ci sentivamo noi adolescenti leccesi degli anni ’80. Tutto ciò che ci interessava - un concerto, uno spettacolo teatrale, una mostra, una grande manifestazione - avveniva alla distanza di un giorno di viaggio. Non è proprio come la vita in una provincia del Nord (e anche un po’ del centro): da Ferrara, da Alessandria, da Verona, da Piacenza, da Viterbo, da Rimini in poco più (o poco meno) di un’ora sei a Milano, a Bologna, a Torino, a Roma. Noi, dopo quattro ore, siamo arrivati a... Foggia! Così, se si nasce a Lecce, si impara ad ambientare i propri sogni altrove.

Poeu hu vist i ca, tanti ca a ses pian

i fiulit giugà tacà dre di tram, sui respingent

dent per dent hu vurù salta su cun lur

e dai respingent, come in giostra mi hu vist vular via la gent,

l’era un grand sciopà l’era un grann scapà

de cà, de niul, de felicità…

La prima parte di una vita consiste nel sognare i propri sogni, il resto della vita ad inseguirli. Io ho fabbricato i miei sogni lontano, e questo lontano si chiamava Milano (e forse Parigi). La sostanza sonora di questi sogni fu costuita innanzi tutto dalle canzoni di Enzo Jannacci. L’estraneità, tinta d’amore, dei suoi personaggi mi aveva perduto e trovato uno spazio. Quel luogo al contempo troppo grande per tutto e abbastanza grande per tutti - operai, matti, barboni, scarpe da tennis, Vincenzine davanti alla fabbrica, Preti Liprandi condotti al giudizio di Dio - la Milano di Enzo Jannacci era il luogo dove cantare le mie canzoni, e disegnare i miei fumetti.

Dario Fo, Fiorenzo Carpi, Strehler, Gino Negri, ecc. fu la generazione che nell’immediato dopoguerra aveva cominciato a ricostruire l’anima della città, a disegnarle un nuovo abito, ancora riservato a pochi. Poi la nascita del cabaret trasformò Milano in una piccola Parigi, rigorosamente sulla rive gauche del naviglio. In tutta questa temperie sorsero i due ultimi poeti popolari di questa città e del suo dialetto: Enzo Jannacci e Ivan Della Mea. Due cantanti assurdi, vocalmente improponibili per quella e per ogni epoca, né intonati, né privi di difetti di pronuncia, ma con una verità dentro impossibile da ignorare. Ecco, se non fosse stato per questi due, io non sarei venuto a Milano, e ora che sono morti tutti e due è necessario valutare cosa ci è rimasto, dentro e fuori.

Ohé sun chi! Si, el su, lè un rebelot,

na città de far rid, l’è un casot, ma anche inscì,

la me pias anche inscì l’è perché

sta cità ghe lu denter in di occ de quan seri un fiulin

e l’ho vista dal tram, tacà sul respingent

come in giostra volar, propri inscì ve la veuri cantà…

Si, poi lo so che questa città ti mangia. Che è morto il suo centro, tutto banche e turisti, che si spegne alle sei di sera. Che il naviglio ha la sua triste movida obbligatoria, dov’è lavoro persino il divertimento. Che si corre così tanto, al lavoro la mattina, con la faccia nascosta nel bavero e gli occhi appannati, che se qualcuno cadesse a terra, chissà se i passanti sarebbero almeno attenti a non calpestarlo.

Ma questa città - dove scrivo e in cui amo - sognata nelle canzoni, ce l’ho ancora nelle orecchi, negli occhi, nel cuore. E ve la canto.

 

La scoperta di Milano

E giunsi al gran deserto di Milano /che io non ero mica ancora un uomo /lontano, fondo azzurro di bottiglia /coperto Duomo di sale e conchiglia.

Sorgeva come Ulisse dal suo male /nessuno si correva incontro e niente /e vento che pioveva in faccia e sole /illumina Milano e la sua gente

la gente al capezzale del moderno /lo popola di tanta indifferenza /che non fa differenza qui l’inverno /il vano passeggiare dell’assenza

Milano sembra proprio respingente /però serba un segreto un’illusione /l’ho vista giù dal tram che rotolava /di tante luci accese di passione

e come in giostra vedo via volare /di un mondo cosiddetto di colore / di nuvole di case e di dolore /di tante luci spente di passione

E stetti alla scoperta di Milano /che cominciavo ad essere un po’ io /ca cinca bene quai nun ‘mbe nisciunu /“rumiti senza cerca e senza diu”

mi piacque stà città o forse peggio /mi sono abituato alla sua faccia /a me concede il triste privilegio /di riconoscerla in qualsiasi traccia

di navigare questa grigia essenza /all’improvviso vico lavandare /che lavano la grigia quintessenza / di stanze che mi danno da cantare

è fatta questa mia città di pietra /ed io non so che amarla e non so cosa /vengo da Lecce a stringer piazza Vetra /le sbarre della mia prigione e sposa

e come in giostra vedo via volare /di un mondo cosidetto “di colore” /di nuvole di case di persone /di tante luci accese di passione

la nuvola che chiamano Milano /ormai mi tiene stretta a questo mondo /e mentre insieme andiamo a stare a fondo /Uè - le grido – diamoci la mano

e getto il mio sorriso poveraccio /ed agito le mani dallo scoglio /cerco il futuro uscendo dal libraccio /e guardo l’altra sponda del naviglio

guardo il futuro uscendo dal libraccio /e cerco un’altra sponda del naviglio.


 

 

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