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Categoria: Dibattiti e opinioni
Creato Martedì, 01 Ottobre 2013

Il giocattolo della rappresentanza e il diritto di sciopero,

Unione Sindacale Italiana (USI-AIT) Sezione di Firenze (n°161)

Manifestazione (foto USI-AIT)Premessa

Il recente accordo del 31 maggio tra Cgil-Cisl-Uil e Confindustria (che riguarda il solo settore privato) ha riportato all’attenzione del mondo sindacale il tema della cosiddetta rappresentanza e della democrazia nei luoghi di lavoro.

 

L’accordo ha suscitato grande attenzione perché ha segnato una sorta di prima ricomposizione tra i sindacati concertatativi, dopo le tensioni degli scorsi anni.

Alle spalle di questo accordo stanno le recenti vicende alla Fiat, là dove Marchionne ha inaugurato una nuova fase della aggressività padronale tesa a cancellare l’agibilità sindacale per chiunque non sia incondizionatamente complice della volontà aziendale: non più solo le minoranze radicali del sindacalismo alternativo, ma anche la non certo estremista Fiom -Cgil.

La filosofia contrattuale di Marchionne è sintetizzabile nella formula: “se non firmi tutto quello che dico io stai fuori dalla fabbrica indipendentemente da quanti lavoratori organizzi”.

Niente di particolarmente originale ma certo chiaro e limpido.

La vicende della Fiat hanno avuto poi un approdo giudiziario rilevante con la sentenza n. 231 del 3 luglio 2013 della Corte Costituzionale.

Questa sentenza, risultato dell’azione legale della Fiom-Cgil, ha infatti dichiarato la illegittimità costituzionale dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori così come uscì modificato dal referendum del 1995.

Per chi non lo ricordasse, l’articolo 19, nella sua forma originaria, dava la possibilità legale di costituire rappresentanze sindacali aziendali: a) nell’ambito delle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b) nell’ambito di quei sindacati non affiliati a tali confederazioni ma che fossero firmatari di contratti applicati all’unità produttiva in questione.

Nel ’95 si svolsero due referendum nazionali che, da punti di vista diversi, contestavano il cosiddetto monopolio della rappresentanza da parte di Cgil, Cisl e Uil.

Il primo, quello più radicale, chiedeva l’abolizione totale dell’articolo 19 ed il rinvio ad una cosiddetta legge democratica sulla rappresentanza. Questo referendum non riuscì a raggiungere il quorum.

Il secondo referendum, promosso da forze di contestazione interna alla Cgil, chiedeva l’abolizione della sola parte che riguardava il criterio delle “confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”, lasciando invece in piedi il criterio dei “firmatari di contratto applicato all’unità produttiva”.

Questo secondo referendum riuscì a vincere e determinò uno dei più rocamboleschi autogol che la storia sindacale ricordi. Molti lavoratori ed anche militanti attenti andarono in buona fede a votare Sì ad entrambi i referendum pensando di contribuire comunque ad una maggiore libertà sindacale, inconsapevoli delle nefaste potenzialità che il secondo referendum portava con sé.

E’ evidente che se per avere i diritti sindacali in azienda, devi per forza firmare i contratti, il padrone alla bisogna ti ricatta: “o firmi o sei fuori anche se hai tanti iscritti”.

Naturalmente i padroni questo lo facevano già, anche senza la sanzione legale, tutte le volte che i rapporti di forza glielo permettevano. Ma la sanzione legale peggiora, e di molto, le cose.

Ci sono voluti 18 anni perchè molti, tra cui la Fiom, comprendessero questa semplice realtà.

C’è voluta la tracotanza di Marchionne per portare pienamente alla luce il potenziale fascismo sindacale uscito da un referendum che voleva affermare una maggiore “democrazia sindacale”.

Quando Marchionne affermava di agire a norma di legge, diceva il vero.

D’altra parte, anche nel pubblico impiego, il tentativo di allargare gli spazi per i sindacati conflittuali, ha avuto, già negli anni ’90 pessimi effetti pratici (leggi al terzo paragrafo).

Ciò nonostante quasi tutto il sindacalismo alternativo (praticamente tutti tranne noi dell’Usi-Ait) ha continuato a perseguire l’obbiettivo di una legge che regolamenti nel dettaglio la vita sindacale. Nel perseguire questo obbiettivo i leader alternativi sono stati costantemente protesi alla ricerca di improbabili “sponde” e “spondine” parlamentari.

Ieri come oggi misuriamo una distanza notevole tra quello che dovrebbero essere le naturali propensioni di un sindacalismo di base e come viene concretamente affrontato il tema della rappresentanza sindacale.

Quando sentiamo esponenti di rilievo del sindacalismo alternativo affermare che sul tema della rappresentanza sindacale “il Parlamento deve riappropriarsi delle sue prerogative” (sic!) o “che va verificato il Movimento 5 Stelle come possibile sponda parlamentare sul tema della democrazia sindacale” (arisic!), ci cascano letteralmente le braccia.

Per altro l’obbiettivo di una legge sulla rappresentanza è oggi sostenuto da un ventaglio di forze ampio e paradossale: da Usb, Cobas e Cub fino a Marchionne, passando per la Fiom e la Cgil.

E’ indicativo che Marchionne, registrata la sentenza della Corte Costituzionale sulla (ovvia) incostituzionalità dell’articolo 19, ha chiesto a gran voce una legge che regoli la vita sindacale e che permetta di “investire in Italia”.

A noi sembra abbastanza semplice prevedere quale sarà la direzione in cui il Parlamento regolamenterà la materia sindacale, ammesso e non concesso che effettivamente mai lo faccia.

Difficile pensare che il Parlamento sia più sensibile alle istanze dell’Usb o dei Cobas, piuttosto che a quelle di Marchionne o di Cgil-Cisl-Uil.

Considerazioni generali e di lungo respiro

Noi sindacalisti libertari ed autogestionari siamo per la massima autonomia dei lavoratori dalle controparti padronali e dallo Stato.

Essere per l’autonomia dei lavoratori non può che comportare la contrarietà a qualsiasi intromissione dello Stato e del Parlamento nelle forme di organizzazione e di democrazia dei lavoratori.

Di quale autonomia si può parlare se sono i parlamentari a decidere le forme della democrazia operaia? Si pensa davvero possibile che lo Stato, cioè l’organo preposto alla dominazione di classe, possa difenderci dalla prepotenza delle burocrazie confederali o dei Marchionne di turno?

In generale quando si parla di rappresentanza o di democrazia sindacale il problema nostro è assai di più quello di difendersi “dalla legislazione”, piuttosto che quello di difendersi “con la legislazione”.

Sempre in generale si dovrebbe diffidare dei tavoli di trattativa non conquistati con la lotta ma imposti per legge. Ci riferiamo a quelle iniziative legislative che si illudono di imporre alle parti padronali l’accettazione ai tavoli di questo o quel sindacato, o per altri versi il riconoscimento della prassi referendaria.

I tavoli di trattativa, così come una effettiva democrazia diretta dei lavoratori, si possono conquistare solo nell’effettivo esercizio del conflitto e dell’autorganizzazione.

Quando invece queste cose vengono “offerte” dalla legislazione c’è quasi sempre “il trucco”, cioè in cambio si chiede assai più di quanto si concede. Ad esempio si chiede il restringimento del diritto di sciopero oppure di firmare accordi capestro.

Noi non ci tiriamo certo indietro rispetto ai tavoli di trattativa, là dove vi sono le condizioni per praticarli, né escludiamo la possibilità di firmare accordi là dove i contenuti rappresentino un avanzamento reale.

Ma a noi interessano soprattutto i diritti che consentono l’opposizione fattiva sui luoghi di lavoro e nella società. Quindi essenzialmente diritto di sciopero, di propaganda, di assemblea in orario di lavoro, permessi sindacali e poi certo anche possibilità di eleggere delegati sui luoghi di lavoro, nonché la possibilità di revocarli o di smentirli da parte della massa dei lavoratori.

E’ certamente utile che questi diritti siano sanciti negli accordi e nella legislazione, ma è negativa una regolamentazione legislativa che entri nel dettaglio delle forme di rappresentanza e che metta dei vincoli all’autorganizzazione dei lavoratori.

Per intenderci, il nostro ideale di articolo 19 dello Statuto dei lavoratori sarebbe una “norma non-norma”, che potrebbe ad esempio recitare così: «Sono garantite a tutti i lavoratori tutte le agibilità sindacali, compresa la possibilità di eleggere propri rappresentanti sui luoghi di lavoro, con le modalità decise dagli stessi lavoratori dell’unità produttiva. A questi rappresentanti vanno riconosciute tutte le agibilità e guarentigie sindacali».

I diritti sindacali sono per noi diritti individuali che vengono esercitati in forma collettiva e la cui titolarità spetta individualmente al lavoratore.

Ad esempio, il lavoratore non deve soltanto poter scegliere come utilizzare il proprio monte ore di assemblea (cioè a quale assemblea partecipare) ma deve poterla convocare egli stesso, da solo o con altri (ovviamente, con adeguato preavviso).

Insomma per noi i titolari delle libertà sindacali sono i lavoratori nella loro massima autonomia individuale e collettiva.

Considerazioni specifiche di fase

Detto tutto questo dobbiamo fare i conti con la fase storica in cui viviamo.

Pensare che, con gli attuali rapporti di forza nella società e con le tendenze reali presenti nel Parlamento, possa uscire un quadro legislativo sulla rappresentanza sindacale più favorevole al sindacalismo alternativo, conflittuale o di classe, è un errore che si commenta da solo.

Già una volta il sindacalismo alternativo ha sbattuto la faccia con la realtà su questo punto.

Tutto il sommovimento referendario / legislativo, seguito alla “stagione dei bulloni” dell’autunno ’92, che tentò di incrinare il cosiddetto monopolio burocratico della rappresentanza, è sfociato in un disastro.

Nei fatti, in quegli anni, la regolamentazione della democrazia sindacale è peggiorata proprio a partire dalle iniziative che invece volevano sinceramente migliorarla.

Vediamolo brevemente.

Nel settore privato

Non si è riusciti a cancellare la riserva del 33% di delegati assegnata d’ufficio a Cgil, Cisl e Uil. La riserva è stata eliminata solo in alcune realtà lavorative dove i rapporti di forza lo hanno permesso (ma questo avveniva anche prima).

Nel frattempo è cresciuta lentamente una corrente di pensiero padronale che interpretando alla lettera il nuovo articolo 19 tendeva a subordinare le agibilità sindacali alla firma dei contratti.

Da notare che già nel ’96 la stessa Corte Costituzionale, che quest’anno ha dichiarato incostituzionale l’articolo 19 così come uscito dal referendum del ’95, aveva dichiarato la piena legittimità costituzionale dello stesso articolo in risposta all’azione legale della Flmu-Cub (sentenza n. 244/96).

Marchionne non è quindi un “genio del male”, è solo un padrone risoluto che ha sfruttato i mutati rapporti di forza e gli autogol sindacali per affermare ciò che ogni padrone vorrebbe affermare: «o firmi quello che dico io o non esisti». Negando persino alla Fiom le agibilità sindacali all’interno della Fiat, il capo del Lingotto ha tentato una accelerazione agli eventi maturati in questi ultimi due decenni.

Nel settore pubblico

Altrettanto interessante è andare a vedere come, nel corso degli anni ’90, sono andate le cose nel pubblico impiego (settore di forte radicamento del sindacalismo alternativo).

Anche qui la normativa sulla democrazia sindacale è peggiorata consistentemente proprio a partire dall’azione di chi la voleva migliorare.

Al principio degli anni ’90 la normativa in vigore era relativamente “buona”. Era permesso a qualunque sindacato che avesse, a livello decentrato, il 5% dei sindacalizzati, di godere di tutte le agibilità sindacali (affissione, propaganda, convocazione di assemblee, partecipazione alle trattative decentrate, permessi retribuiti e non, eccetera). Assai più ristretti erano gli spazi per i tavoli di trattativa nazionale.

Tuttavia questa era una situazione relativamente buona per quelle realtà a cui interessava più organizzare il conflitto piuttosto che accedere ai tavoli nazionali.

Dopo il referendum del ’95 le cose cambiarono e decisamente in peggio.

Passato un periodo di transizione in cui o firmavi i contratti o perdevi tutto, siamo arrivati nel 1998, con la legge quadro, ad una situazione in cui l’unico spazio consentito ai sindacati alternativi è la presenza nelle Rsu (rappresentanze elettive) come componente quasi sempre di minoranza.

Evidenti sono stati i punti di peggioramento:

a) come sindacato alternativo, anche se radicato nel posto di lavoro, sei un sindacato di serie C rispetto ai sindacati firmatari di contratto;

b) come sindacato alternativo non puoi più convocare autonomamente una assemblea dei lavoratori (lo può fare solo la Rsu a maggioranza);

c) il monte ore di permessi retribuiti effettivamente goduti si è ridotto ai minimi termini e comunque solo il delegato Rsu eletto può usufruirne;

d) poiché la delegazione trattante viene eletta dalla Rsu, una maggioranza confederale può in teoria escludere dal tavolo delle trattative aziendale un sindacato alternativo anche se questo ha conseguito magari un 30 od un 40 % dei voti nelle elezioni Rsu.

Purtroppo, malgrado l’esperienza di un ventennio, ancora non si è imparata la lezione e si continua ad invocare l’intervento “salvifico” di un Parlamento che nel frattempo non è certamente migliorato né nella sua natura, né nella sua composizione.

Certamente qualcuno dirà «sì ma il problema è stato che nel ’95 passò il referendum più moderato, mentre quello più radicale non raggiunse il quorum, altrimenti le cose sarebbero andate diversamente...»

Prima contro-obiezione: la cosa era abbastanza prevedibile, anzi è un miracolo il fatto che un referendum promosso solo dal sindacalismo alternativo abbia sfiorato il quorum.

Seconda contro-obiezione: la vittoria del referendum più radicale nel ’95 avrebbe rimandato poi la palla ad una nuova legge da approvare in Parlamento cioè a D’Alema,Veltroni, Berlusconi Fini, Bossi e compagnia.

Terza contro-obiezione (variante della seconda): do you remember l’acqua pubblica? O il finanziamento alle scuole private in Emilia-Romagna? Nel nostro paese vale la regola che i referendum vinti non contano nulla, quelli persi invece contano eccome!

Quarta contro-obiezione: attenzione, il referendum che ha vinto era sì più moderato, ma non intendeva andare nella direzione opposta; esso rimandava ad un intervento legislativo che in questo caso non c’è stato perchè l’articolo 19 così come usciva dall’abrogazione del comma a) risultava pienamente funzionale ai padroni ed ai loro complici sindacali.

Probabilmente qualcun’altro dirà: «sì ma anche se non lo poniamo noi il problema delle legge sulla rappresentanza, è possibile /probabile che si arrivi comunque a tale legge per iniziativa delle forze avverse».

Unica contro-obiezione: ciò è forse vero, ma chiedere noi stessi una legge è come contribuire a spingere il pugnale che ci sta arrivando nel petto; il nostro compito dovrebbe invece essere quello di spingere il pugnale nella direzione contraria, sperando che quanto meno il pugnale, pur entrando, non arrivi a toccare il nostro cuore.

Accordo del 31 maggio e sentenza della Corte Costituzionale del 3 luglio

L’accordo del 31 maggio e la sentenza della Corte non sono in assoluta contraddizione, ma al contrario possono tendenzialmente convergere.

Questo lo si può capire analizzando i due atti e mettendoli in correlazione.tualmente vigenti nei settori pubblici.

Sono rappresentativi e possono partecipare alle trattative per i contratti nazionali i sindacati che raggiungono il 5% dei consensi come dato medio tra il numero di iscritti sul totale dei sindacalizzati e la percentuale dei voti ottenuti nelle elezioni delle Rsu.

Rispetto al pubblico impiego vi è però una differenza fondamentale: poiché contano come iscrizioni al sindacato le deleghe in busta-paga certificate dall’Inps, i sindacati alternativi partono svantaggiati perchè solo in pochi casi i padroni del settore privato riconoscono la trattenuta in busta ai sindacati scomodi.

Ma non è questo il peggio.

I contratti oggi fanno talmente schifo che nella maggioranza dei casi il compito di un sindacato alternativo è semplicemente quello di organizzare, fuori dai tavoli, il conflitto.

Ma dire conflitto vuol dire soprattutto sciopero.

Secondo le regole sottoscritte il 31 maggio invece, per poter presentare liste per le elezioni Rsu nei singoli posti di lavoro, bisogna che un sindacato si impegni a non organizzare alcuna iniziativa di contrasto (quindi sciopero) verso i contratti firmati a maggioranza.

O rappresentanza, o sciopero, quindi!

Ora va tenuto conto di una cosa fondamentale: che questo è un accordo e non una legge e questo ne spunta molto la sua efficacia nefasta.

Infatti, non essendoci un organismo sanzionatorio legale, un sindacato molto “scaltro” che presentasse liste alle elezioni Rsu, eleggendo dei delegati in vari luoghi di lavoro, e successivamente violasse le regole sottoscritte scioperando, al massimo potrebbe vedere decadere per mano aziendale tutti i suoi delegati. Ma a quel punto, a parte il conflitto dei lavoratori che potrebbe scaturire, un eventuale contenzioso legale potrebbe finire con la dichiarazione di incostituzionalità dell’accordo del 31 maggio.

La Costituzione infatti prevede che il diritto di sciopero possa essere regolato solo dalla legge e quindi un accordo sindacale che limiti il diritto di sciopero è, formalmente parlando, illegittimo.

Ed è a questo punto che va introdotta la questione della sentenza della Corte Costizionale dello scorso luglio. Infatti nel dichiarare incostituzionale l’articolo 19 la sentenza rimanda al legislatore per una migliore definizione della materia ed è chiaro che l’accordo del 31 maggio sta oggettivamente lì a fare da possibile traccia per una nuova legge sulla rappresentanza sindacale.

Se fosse approvata una legge del genere sarebbe costruito concretamente un apparato sanzionatorio che renderebbe molto difficile lo sciopero nel settore privato, quanto e probabilmente di più di quanto oggi già lo sia nei servizi pubblici.

A questo va aggiunta l’approvazione entusiasta da parte della Fiom dell’accordo del 31 maggio (e quindi il suo “rientro nei giochi”). Peggio! Il segretario Maurizio Landini chiede a gran voce che quello stesso accordo diventi legge!

Interessanti sono poi le argomentazioni con cui la Corte sostiene l’incostituzionalità dell’articolo 19.

Qui però va richiamata preliminarmente alla memoria la già citata sentenza della Corte Costituzionale del 1996. In quel caso fu bocciato il ricorso della Flmu-Cub contro la Fiat per il mancato riconoscimento della rappresentatività in azienda e, al contrario del luglio scorso, la Corte dichiarò la piena legittimità costituzionale dell’articolo 19.

Leggendo la sentenza del ’96 si ha la netta sensazione che la Corte si arrampichi sugli specchi del diritto. In particolare si fa riferimento alla situazione sindacale nella sua concretezza (ma la legge non dovrebbe essere astratta?) e alla singolare categoria di “razionalità pratica” dell’articolo 19.

In maniera analoga ma speculare si muove il ragionamento della sentenza del luglio 2013.

Anche nella sentenza del luglio 2013 è alla concreta situazione sindacale che si fa riferimento per dimostrare, questa volta, la illegittimità costituzionale dell’articolo 19.

Infatti nel dichiarare illegittimo l’articolo 19, rispetto agli articoli 2, 3 e 39 della Costituzione, la Corte Costituzionale si sforza di non contraddire i principi enunciati dalla sentenza del ’96, ma afferma che «Nell’attuale mutato scenario delle relazioni sindacali e delle strategie imprenditoriali», ovvero la rottura tra i sindacati concertativi che tende ad escludere la Fiom e la Cgil, «si richiede, appunto, una rilettura dell’art.19, primo coma lettera b) dello Statuto dei lavoratori che ne riallinei il contenuto precettivo alla ratio che lo sottende».

Dopo tante leggi ad personam arriva la “legge ad sindacatum”.

E’ evidente infatti la “propensione” della Corte verso un rientro nei giochi della Cgil.

Molto interessante è anche ciò che la Corte prescrive. Nell’immediato si invita ad estendere il riconoscimento della rappresentanza sindacale aziendale nell’ambito delle associazioni sindacali «che pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati all’unità produttiva, abbiano comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti».

In sostanza si dice ai padroni che se accettano un sindacato alle trattative poi devono riconoscergli l’agibilità e le guarentigie sindacali a prescindere dalla firma effettiva del contratto.

In altro modo ma il pallino resta nelle mani dei padroni.

Ma come abbiamo già detto la Corte poi rimanda al Parlamento, per una più precisa definizione della materia, facendo una serie di casi di possibile nuova regolazione.

Ed è a questo punto che si delinea la possibile micidiale convergenza tra accordo sindacati-Confindustria del 31 maggio e sentenza della Corte Costituzionale del 3 luglio.

L’accordo del 31 maggio, con il suo carico da 90 contro il diritto di sciopero, sembra già bello e pronto a fare da traccia di una nuova legge sulla rappresentanza sindacale, che una volta approvata per il settore privato andrebbe inevitabilmente a ricadere in qualche modo anche sul settore pubblico.

E’ da questa micidiale possibile converegenza che l’arcipelago sindacale alternativo dovrà difendersi.

Qualche indicazione di massima

Dunque secondo noi va ribaltata l’ottica con cui si sta affrontando la questione.

Innanzitutto va capito che la partita vera dei prossimi mesi o anni non è la conquista del diritto ai tavoli di trattativa, ma è la difesa del diritto di sciopero e dei rimanenti spazi formali per l’esercizio del conflitto sociale.

Quindi se va data una risposta concreta di lotta generale agli accordi e alle norme legislative che tendono e tenderanno a restringere i diritti sindacali (vedi prossima giornata di sciopero del 18 ottobre), è anche necessario cominciare ad attrezzarsi per un periodo in cui l’azione sindacale fuori dalla rappresentanza formale sarà una scelta obbligata.

Ormai bisogna decidersi: o si aspira a conquistare per via legislativa quei tavoli di trattativa che non si è riusciti a conquistare con i rapporti di forza e allora il percorso è tracciato: bisogna vendersi l’anima, non c’è altra scelta. Oppure senza rinunziare ai residui spazi di agibilità formali che siano compatibili con noi stessi, si lavora anche fuori dalle “regole”.

Sarebbe importante che là dove è possibile si creassero e fossero riconosciute dalle controparti forme anomale di rappresentanza unitaria, basate sulla democrazia diretta orizzontale e federalista.

In ogni caso anche se non riconosciuti è importante comunque costruire momenti di autorganizzazione e di coordinamento dei settori lavorativi in movimento.

Partendo dalla base, dal locale, dalle categorie. Rimanendo attaccati ai problemi concreti che i lavoratori soffrono tutti i giorni: la precarietà, l’impoverimento progressivo dei salari, le condizioni sempre più dure ed insicure di lavoro, il declino dell’assistenza sanitaria pubblica, e via dicendo.

Da questo punto di vista è un esempio concreto l’esperienza del Coordinamento dei lavoratori ospedalieri di Milano, realtà che ha coinvolto tutti i sindacati alternativi del settore sanitario e che ha prodotto nella sanità lombarda piattaforme unitarie e due scioperi categoriali riusciti.

Grande importanza ha il collegamento tra le realtà sindacali alternative (ciascuna con la sua legittima identità) e le altre realtà autogestionarie e di lotta presenti nei territori (centri sociali, cooperative autogestite, occupazioni di case, comitati vari, ecc.)

E’ innanzitutto praticando concretamente lo sciopero e le forme autonome di organizzazione che si difendono i diritti e le agibilità sindacali. Le si difende nei fatti e si rende più difficile il loro azzeramento nelle normative, sia contrattuali che legislative. E’ coordinando le forze combattive, nel rispetto delle diverse identità, che possiamo dare risposte efficaci.

Ed è alle forze vive del mondo del lavoro che va affidato il compito di regolare la democrazia sindacale, non certamente alla casta privilegiata che siede in Parlamento.

 

Unione Sindacale

Italiana (USI-AIT)

Sezione di Firenze

 

Sede: Borgo Pinti 50 rosso Firenze

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