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Categoria: Dibattiti e opinioni
Creato Lunedì, 01 Marzo 2004

Ancora su: “Democrazia. Un orizzonte insuperabile?” (n°32)

Una ridefinizione delle possibilità socialiste

Il libro di Dario Renzi, Democrazia: un orizzonte insuperabile?, è un ulteriore e fondamentale tassello dell’opera di ricerca teorica e costruttiva dell’autore impegnato in una complessiva ridefinizione delle possibilità socialiste e libertarie della specie che passa attraverso una critica radicale e rivoluzionaria della politica, delle sue categorie e delle sue manifestazioni storiche concrete. E’ un libro che nella sua linearità e brillantezza espositiva avanza ipotesi e delinea scenari che danno i brividi a molti interlocutori perché mette in discussione la struttura fondante della forma mentis del pensiero progressista, di sinistra e marxista.

Non si tratta di cosa di poco conto: la critica della democrazia che Renzi svolge nel suo volume non è affatto una critica "politica", una delle tante di cui è costellata la galassia confusa dei cercatori di certezze e di solidità che finiscono per approdare nelle sabbie mobili di un qualche ultimo e solitario "padre dei popoli", debitamente armato e difeso dalla musa ispiratrice di tutti i dittatori seri e in sedicesimo che la specie ha incontrato sul suo cammino: quella della "necessità storica", quella del "fine che giustifica i mezzi", quella della politica di dominio sempre e comunque, in nome di una facoltà di illuminazione che non appartiene a tutti, ma solo ad una minoranza debitamente destinata a governare le "magnifiche sorti e progressive" di tutti noi. Quello che il libro di Renzi postula con chiarezza è che la democrazia è la forma più raffinata e di maggior successo di espropriazione e di alienazione delle facoltà migliori della specie che trova le sue basi all’interno del pensiero rivoluzionario borghese occidentale.

Andando alla radice della democrazia sempre si arriva ad un punto che è determinante: il suo simbolo è la ghigliottina ed il suo anno mirabile è il 1793. La quintessenza della democrazia, la sua quidditasè l’idea dell’impossibilità dell’autodeterminazione individuale e collettiva, vista come vera e propria utopia, e la conseguente necessità della delega, una delega che non è soltanto amministrativa e politica, ma anche, soprattutto, ideologica, culturale, filosofica, artistica, educativa. Questo vero e proprio esproprio, per essere efficace, deve apparire come un gesto volontario e libero. Ed è in questa quadratura del cerchio che essa fonda la sua presunzione di essere la tappa più alta della civiltà umana, quella che maggiormente risponde alle necessità di ogni essere vivente e che non può essere respinta se non in nome di una "barbarie" che può essere declinata in vari modi. In una parola nel DNA della democrazia è contenuta la sua volontà di potenza, la sua ansia annichilatrice nei confronti di chi è fuori dal suo recinto dorato delimitato dal progresso tecnico e dalle frontiere nazionali. Perché la democrazia si coniuga con Stato e non può essere altrimenti, si coniuga con potere,si materializza nel controllo, nella difesa di sé come ultimo baluardo di uno "stadio superiore" dello sviluppo storico che gli altri sono invitati a seguire, con le buone o con le cattive. Detto in forma brutale la democrazia ha il bisogno vitale di sempre nuove Vandee da riportare all’ordine e questo bisogno assume le forme più varie, economiche, ideologiche, politiche, militari. La forza delle sue argomentazioni è direttamente proporzionale alla profondità e alla vastità dell’esproprio ideale e spirituale affettuato in ognuno di noi, un esproprio che deve indurci a vedere nelle carrette che conducevano alla ghigliottina un segno terribile, ma inevitabile, della lenta, ma necessaria affermazione della democrazia contro tutti i riottosi e gli increduli che si ostinano nella loro arretratezza morale e politica.

Per sopportare tutto questo, l’esproprio prevede, tuttavia, una forma di ricompensa: è quella della storia, della convinzione di partecipare alla marcia degli avvenimenti concepiti come mossi e agiti da una forza superiore a quella di ognuno di noi, una forza che è volta in avanti e che lascia dietro di sé soltanto scorie e detriti. La democrazia è la raffigurazione compiuta di questo movimento che avvolge psicologicamente come un narcotico le facoltà propositive e affermative della specie lasciando campo aperto alla realizzazione negativa di sé. La democrazia è il compimento della storia, il suo inveramento, la sua giustificazione. E che ad essa si aggiungano varie aggettivazioni ("borghese", "rivoluzionaria", "proletaria") non cambia la sostanza, ma anzi la oscura mostrando quale sia la vera difficoltà da affrontare. In base a cosa si stabilisce la superiorità e l’universalità della democrazia? Lo si può fare soltanto se si assume una concezione della storia che unificando Illuminismo, Idealismo hegeliano e Positivismo stabilisce una gradualità ascensionale delle tappe da attraversare per giungere alla piena e compiuta realizzazione di sé e di tutti. Ora, l’evidenza dei fatti ci mostra uno scenario affatto differente e, almeno, le guerre del XX secolo che sono giunte vicine alla distruzione totale, dovrebbero far riflettere su questo schema che poggia sulla sabbia e che esclude, di fatto, la stragrande maggioranza della specie, relegandola in una qualche "pattumiera della storia".

E torniamo al nodo centrale: a quella dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che fonda la democrazia politica moderna supponendo l’universalità di uno specifico risultato congiunturale.

L’ "uomo–cittadino" diventa l’astrazione universale, l’archetipo fondante, il modello da raggiungere, la quintessenza della civiltà compiuta. Da quel momento si snoda una matassa che porta alla "guerra per la democrazia" e alla "democratica" dimensione statuale che penetra sempre più profondamente nella vita quotidiana delle persone per organizzarla e definirla.

Quando non è direttamente manu militari, la democrazia assume le forme e le dimensioni di un campo delimitato da un filo spinato invisibile che regala l’illusione della libertà.

All’interno di questo orizzonte si è venuto formando anche il marxismo: ed è questo a costituire la massima difficoltà a concepire il superamento dell’orizzonte democratico. Il marxismo, con il suo materialismo storico, con la sua accentuazione della dimensione "scientifica" della liberazione, con lo sbocco statuale (la "dittatura del proletariato" vista, nel migliore dei casi, come "democrazia proletaria", nel peggiore come nuova forma dello Stato leviatano motore della storia), con la sua sistematica denigrazione dell’utopia, dello scarto dal "corso della storia", con l’accentuazione della critica sulla affermazione fondativa, con il ruolo di delega e di supplenza affidato al "partito" visto come avanguardia illuminata consapevole degli interessi della "classe" ancora inconsapevole e incosciente, è all’interno della storia della democrazia e della sua dimensione ideologica e politica. Il fascino della risoluzione robespierrista e babouvista ha agito (e continua ad agire) nel tessuto profondo del pensiero della liberazione. Non solo nella sua variante marxista.

L’affermazione di Luciano Nicolini secondo la quale libere elezioni democratiche in un villaggio africano o sui monti tibetani segnerebbero un passo in avanti rispetto al dispotismo mostrano la permanenza di quel fascino, di quella "democrazia radicale" anche all’interno del pensiero libertario. Perché una forma nata all’ombra della Bastiglia dovrebbe sostituire ed essere migliore della libera volizione delle donne e degli uomini che vivono sotto un regime dispotico?

Il fatto è che bisogna avere davvero il coraggio dell’utopia per prefigurare l’autoemancipazione della specie attraverso la ricerca di valori che diano conto e materializzazione delle sue migliori facoltà creative e comunitarie, perché significa rompere con ogni idea di necessità, di determinismo, di annullamento della libera volontà, di piena realizzazione di sé attraverso l’armonia con gli altri. E a questo coraggio il libro di Dario Renzi fornisce alimento vitale.

Vincenzo Sommella

Istituzioni o consuetudini ?

Ho letto con molto interesse il libro di Dario Renzi Democrazia. Un orizzonte insuperabile? e l’inserto Dibattito pubblicato con il n. 31 di Lettera. In particolare una frase di Nicolini (in Cenerentola n. 28)mi ha fatto riflettere: "Tuttavia credo non si possa pensare seriamente di vivere per lunghi periodi nell’entusiasmo rivoluzionario. Anche qualora la rivoluzione libertaria trionfasse, sarebbe necessario che ciò che si è conquistato si consolidasse in consuetudini formalizzate, in qualcosa che sopravvive agli uomini che le hanno create; in altre parole: in istituzioni."

La prima cosa che voglio sottolineare è la differenza che esiste a mio parere tra le regole e le istituzioni da una parte e la consuetudine dall’altra. Secondo me regole e istituzioni sono strutture tipiche di società organizzate intorno al potere e allo "stato di diritto", per giustificare il potere sulla base del "diritto" che in realtà non è altro che il diritto di opprimere negando le esigenze degli esseri umani. Le consuetudini sono tutte quelle abitudini che una società tende ad assumere storicamente e che vengono applicate, spesso senza spirito critico sulle loro origini o sulla loro bontà (altrimenti non si spiega la longevità di certe tradizioni barbare come la vendetta barbaricina o la ballentia, cioè il "vero uomo" con tutti i significati maschilisti che si possono dare al termine "uomo"). Queste consuetudini coabitano con lo stato di diritto che le ammette o le combatte secondo i suoi interessi. L’ideologia della regola al di sopra degli esseri umani va, a mio avviso, superata perché non tiene conto della scelta. Quando m’immagino una società futura non posso immaginarla sulla base di regole scelte da una generazione di donne e uomini, anche se giuste e buone, che in seguito siano imposte alla generazione successiva. Anche perché si spera che l’esperienza e la ricerca continua ci porterà a scoprire eventuali errori. Se veramente quello che ci interessa è riflettere sulla possibilità delle donne e degli uomini di prendere in mano il loro destino e di diventare protagonisti della loro vita, la nostra priorità non può essere quella di "legiferare" sulle conquiste ma di sedimentarle dandoci l’opportunità di criticarle e superarle. In questo senso la consuetudine diventa essenziale. E’ possibile rovesciare le abitudini della specie alla sottomissione, alla violenza e alla prevaricazione in abitudini alla scelta cosciente, alla solidarietà e all’amore, abituandoci a delle consuetudini altre di quelle che conosciamo oggi? Io credo di sì, cosi come credo che il modo migliore per poter riuscire a far sopravvivere "l’entusiasmo rivoluzionario" è quello di non imporlo ma continuare a farlo vivere nelle abitudini e consuetudini di ricerca d’autoemancipazione... di vita migliore.

                                                                                      Piera Vacca

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