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Categoria: Economia e finanza
Creato Martedì, 01 Giugno 2010

Metti una sera a cena,di Toni Iero (n°125)

Si dice che l’8 febbraio di quest’anno, alcuni importanti finanzieri americani si siano trovati a discutere amabilmente, intorno ad un bel tavolo imbandito, su come fare altri soldi. Ne è scaturita l’idea di attaccare l’euro, intravedendo la possibilità di farlo scendere al livello di parità con il dollaro.

L’anello debole del sistema monetario europeo è stato individuato nella Grecia. Che era addirittura ricorsa a trucchi contabili per nascondere la voragine in cui stava precipitando il suo deficit pubblico. Trucchi che Bruxelles ha scoperto recentemente, ma che le banche d’affari Usa conoscevano alla perfezione, dato che avevano contribuito a metterli in piedi. La Grecia è un paese con un’economia fragile, basata essenzialmente sul turismo e sui noli marittimi. Contraddistinta da elevata corruzione, alto debito pubblico e accentuato deficit negli scambi con l’estero. Un candidato ideale come oggetto di un attacco finanziario.

Davanti all’offensiva guidata da hedge fund e banche d’affari americane, la risposta europea è apparsa debole e balbettante, principalmente a causa delle esitazioni tedesche. Ciò, in pratica, ha gettato benzina sul fuoco della speculazione che, per mesi, non ha trovato alcun ostacolo alla sua azione. Così il contagio si è esteso anche agli altri paesi periferici dell’Unione: Portogallo, Irlanda, Spagna e Italia.

Al solito, gli speculatori hanno agito di concerto con le agenzie di rating, che hanno proceduto a diramare comunicati di declassamento del merito creditizio di alcuni Stati o, peggio ancora, a lasciare circolare voci di probabile declassamento, in orari di apertura dei mercati finanziari. L’esito è stato devastante, con crolli dei valori azionari e, quel che è più grave, con l’abbattimento anche delle quotazioni dei titoli di Stato dei PIIGS (= Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna). Quest’ultimo fenomeno, comportando un aumento dei tassi di interesse pagati dai governi, rende più oneroso il servizio del debito e aumenta i deficit statali.

Davanti all’insipienza europea, anche il presidente degli Stati Uniti ha perso la pazienza. Obama ha chiamato il cancelliere tedesco, signora Merkel, sollecitandola ad intervenire in difesa dei paesi sotto attacco. Inoltre, il governo Usa ha avviato indagini federali contro Goldman Sachs, Morgan Stanley, Jp Morgan, Deutsche Bank, Ubs, sospettati di frode nei confronti dei loro clienti a proposito della vendita di derivati creditizi. Infine, per rimarcare il messaggio, negli Usa sono state proposte diverse class action contro le agenzie di rating, accusate di aver indotto i risparmiatori ad acquistare titoli proclamati sicuri, quando invece conoscevano benissimo la loro scarsa qualità.

Grazie anche alle pressioni del governo Usa, domenica 9 maggio l’Unione Europea, in accordo con il Fondo Monetario Internazionale, si è finalmente decisa a varare una serie di provvedimenti che mettono sul piatto della bilancia 750 miliardi di euro per contrastare la speculazione. Non è detto che tale misura abbia fermato definitivamente gli attacchi speculativi contro i paesi più deboli dell’area euro. Anche perché vi è la sensazione che questo intervento rappresenti più un aiuto alle banche tedesche e francesi, esposte per 120 miliardi di euro solo sulla Grecia, che non una mano tesa ai paesi in difficoltà.

Non si può capire questa crisi senza far mente locale ad un aspetto nuovo nel panorama mondiale: la globalizzazione ha portato i principali attori della finanza a diventare talmente grossi da renderli ormai indifferenti anche alla sorte degli Stati in cui essi operano o sono localizzati. Si pensi ai due principali gruppi bancari italiani (Unicredit e Intesa): insieme controllano attivi per un importo superiore al prodotto interno lordo del nostro paese. Deutsche Bank, da sola, gestisce un volume di attività pari al Pil italiano. Insomma, i big della finanza sono ormai troppo grandi per ragionare in termini nazionali. L’attacco scatenato dai finanzieri americani, con tutta probabilità, non ha dietro di sé oscure macchinazioni geopolitiche, bensì l’elementare e disarmante volontà di fare denaro. Tanto è vero che proprio il governo Usa è intervenuto per fermare l’avanzata dei “suoi” speculatori. Il sistema finanziario è diventato una variabile indipendente nello scenario economico mondiale. Questo rappresenta un preoccupante problema che anche i governi faranno fatica a gestire.

Secondo alcuni operatori finanziari, dopo la Grecia, il prossimo obiettivo dei capitali speculativi sarà l’Italia, penalizzata dalla dimensione del suo debito pubblico. Se si riuscisse a far crollare l’Italia, la sopravvivenza dell’euro sarebbe messa in discussione. E chi ha puntato contro la moneta unica europea potrebbe allegramente passare all’incasso. Come nel 1992, quando Soros, giocando vittoriosamente contro la sterlina inglese e la lira italiana, riuscì a guadagnare oltre un miliardo di dollari. Mentre il finanziere festeggiava, noi ci siamo beccati aumenti di tasse e taglio delle pensioni.

Sul fronte interno, si preparano drastiche misure per contenere i deficit pubblici dei paesi europei. Purtroppo, la logica è quella di sempre: sacrifici per i lavoratori. Dopo aver gonfiato i debiti pubblici per salvare le banche (e le irrealistiche retribuzioni dei loro top manager), si vorrebbe far pagare il conto alle solite vittime predestinate. La reazione popolare in Grecia ha mostrato la consapevolezza dei lavoratori tanto dell’ingiustizia dei provvedimenti destinati a ripianare i buchi di bilancio attingendo dai salari, quanto dell’inutilità di tale scelta: se per risanare i conti pubblici è necessario uccidere il sistema economico e sociale di una nazione, allora è meglio che i conti pubblici vadano al diavolo.

Scioccamente, i governi cercano di abbattere i disavanzi tramite manovre che colpiscono i redditi, attraverso l’aumento delle tasse e la riduzione dei trasferimenti. In questo modo, in primo luogo, si colpiscono i ceti deboli, già duramente provati da decenni di compressione salariale e, oggi, dalla disoccupazione. Ma, come se questo non bastasse, provvedimenti di tal genere, riducendo la domanda interna, portano stimoli deflazionistici in una situazione già difficile per il sistema produttivo. Così non può funzionare. Curiosamente, non si parla dell’unica via fiscale che permetterebbe di uscire dalla crisi dei debiti pubblici: l’imposizione patrimoniale. Una tassazione sui patrimoni avrebbe il vantaggio di essere più equa (i ricchi pagherebbero di più) e, pur con aliquote ridotte, permetterebbe di raccogliere ingenti risorse da destinare sia ad incentivi economici (aziende esportatrici, energie rinnovabili), sia alla riduzione frontale del debito. La ricchezza netta delle famiglie italiane è calcolata, da Banca d’Italia1, in circa 8.300 miliardi di euro. Con un’aliquota media dell’1,5% sui patrimoni maggiori (stimabili in circa il 70% del totale) si disporrebbe, ogni anno, di quasi 90 miliardi di euro. Allocandone una trentina tra stimoli produttivi e sostegno alle fasce della popolazione in difficoltà, rimarrebbero 60 miliardi da utilizzare per rimborsare i debiti dello Stato. In cinque anni il debito pubblico scenderebbe sotto il 100% del Pil, vanificando gli sforzi degli speculatori finanziari di far naufragare i conti pubblici italiani e, fattore centrale, modernizzando la struttura economica della nazione. Giulio (Tremonti), non ci avevi pensato?

 1Banca d’Italia, “La ricchezza delle famiglie italiane”, Supplementi al Bollettino Statistico, 16 dicembre 2009.

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