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Categoria: Economia e finanza
Creato Domenica, 01 Marzo 2015

PopeLe armi spuntate di Tsipras, di Toni Iero (n°177)

Con la vittoria di Syriza alle elezioni politiche in Grecia, si è aperto uno scontro sulla politica economica tra Atene, da una parte, e la Germania dall’altra. A parte qualche pacca sulle spalle e tanti sorrisi, gli altri governi europei si sono allegramente defilati quando si è trattato di sostenere le richieste dei fratelli greci.

In questo clima si sono svolte consultazioni bilaterali, incontri, riunioni con la Commissione Europea, interviste con giornali e televisioni. Il ministro greco delle finanze, Yanis Varoufakis, è diventato una star internazionale, con il suo severo aspetto di oligarca russo appena uscito da una discoteca.

In sostanza, Tsipras vorrebbe rinnegare il piano concordato in precedenza tra la cosiddetta Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale) e il precedente esecutivo greco che prevede, in cambio di supporto finanziario, una politica fiscale restrittiva (privatizzazioni, licenziamento di un certo numero di dipendenti pubblici, aumento delle tasse, taglio della spesa pubblica…). Difficile dargli torto, poiché questo programma economico ha ridotto la Grecia alla miseria, al punto tale da non dare alcuna sicurezza neanche ai creditori internazionali.

Atene chiede di non dover più trattare con la Troika, vuole interrompere il piano di privatizzazioni, riassumere una parte dei dipendenti pubblici licenziati, fornire gratuitamente l’elettricità alle famiglie più povere. Le risorse per il bilancio pubblico, nelle intenzioni di Syriza, dovrebbero provenire dalla lotta all’evasione fiscale (molto elevata sulle sponde dell’Egeo) e da una maggiore competitività in alcuni settori economici viziati dalla presenza di forti oligopoli.

Il programma sulla base del quale gli elettori ellenici hanno votato Syriza è piuttosto chiaro: basta con le stangate fiscali indiscriminate. D’altra parte, si tratta di una richiesta che emerge con forza da molte nazioni in crisi nell’Unione Europea. In Spagna è già pronta la versione iberica di Syriza, Podemos, che gode del favore dei sondaggi per le elezioni previste in autunno.

Allo stato attuale, il governo di Atene rischia di trovarsi sostanzialmente a mani vuote davanti ai suoi sostenitori. In sede negoziale, se non si assisterà ad altri cambiamenti (cosa peraltro possibile), il governo di Atene ha ottenuto ben poco, per lo più alcune modeste modifiche lessicali (invece di Troika si parla delle “tre istituzioni”, il salvataggio diventerà un “prestito ponte” e il memorandum sarà ribattezzato “nuovo accordo”). Ma, in pratica, come sostenuto dal ministro delle Finanze tedesco, Schauble, i precedenti accordi andrebbero rispettati.

Mentre nella capitali europee si tratta, in Grecia si sta assistendo ad un corsa agli sportelli per ritirare il denaro depositato nelle banche e trasferirlo all’estero. Secondo alcune stime, da dicembre i depositi negli istituti di credito greci sarebbero scesi di circa 20 miliardi di euro (da 165 miliardi a 145 miliardi). Un quadro che lascia adito a non poche preoccupazioni.

Si vedrà come finirà questo braccio di ferro tra Atene e Bruxelles + Berlino.

Quello che è interessante analizzare è il sostanziale fallimento del ricatto del debitore. Infatti, il principale fattore su cui pensava di poter contare Tsipras, nel negoziare con i suoi interlocutori europei, era la minaccia dell’insolvenza della Grecia, usando il mancato pagamento del debito come arma per obbligare i creditori ad accettare le richieste elleniche. Oltre a ciò, la seconda carta che Atene pensava di potersi giocare sul tavolo della trattativa consisteva nella ventilata uscita dall’euro. La minaccia di porre in atto queste due azioni, si riteneva, avrebbe spaventato e indotto a più miti consigli i teutonici ed i loro alleati.

Le cose non sono andate in questo verso. Complice anche la limitata dimensione dell’economia greca, un eventuale default riguarderebbe circa 300 miliardi di euro. Il punto è che tale cifra è detenuta per la maggior parte (si stima per l’80%) da istituzioni internazionali (BCE, FMI) o da altri Stati.

Per arrivare a capire come si è giunti a questo punto, non si può non accennare alle modalità con cui si è svolto il “salvataggio” della Grecia. All’inizio, prima della crisi, erano state le banche ad aver concesso allegri prestiti allo Stato mediterraneo: francesi (78,8 miliardi di dollari) e tedesche (45 miliardi di dollari). Per raffronto, si consideri che le banche italiane erano esposte nei confronti di Atene per appena 6,8 miliardi di dollari. Con le ”strambe” architetture escogitate per “salvare la Grecia” (EFSF, prestiti bilaterali tra governi, Fondo Monetario Internazionale, ESM, SMP della BCE, haircut del debito detenuto da privati, etc.), nel giro di quattro anni, il debito si è spostato dalle banche ai governi: 61 miliardi di esposizione per il governo tedesco, 46 per quello francese e 40,8 miliardi per l’Italia1. Come si vede, il passaggio non è stato uniforme e, per esempio, l’Italia si ritrova con una esposizione nei confronti di Atene molto più elevata di quanto fosse all’inizio della crisi: una buona parte del denaro uscito dalle tasche dei contribuenti italiani (ed europei) non è andato ad aiutare la popolazione ellenica, bensì è servita per tirare fuori dai guai gli istituti di credito francesi e tedeschi.

Ora, non si può negare che un eventuale default di Atene avrebbe importanti ripercussioni sui mercati finanziari. Però gli effetti sarebbero limitati, in quanto la maggior parte degli attuali creditori sono entità in grado di assorbire gli effetti del mancato rimborso del debito greco. La stessa uscita dall’euro da parte di un piccolo Paese come la Grecia è divenuta più gestibile in virtù delle strutture di sicurezza create in questi anni (EFSF, ESM) e dei piani di intervento predisposti dalla BCE (Outright Monetary Transaction, Unione Bancaria, Quantitative Easing). D’altra parte, i sondaggi segnalano che oltre il 70% dei greci non sarebbe favorevole all’uscita del proprio Paese dalla moneta unica europea. Insomma, default ed uscita dall’euro non spaventano più di tanto gli operatori finanziari e, quindi, si sono rivelati dei bluff piuttosto scoperti, perciò inutili.

La prima lezione che si può trarre da questa vicenda è che gli spazi democratici per una piccola nazione indebitata con l’estero si sono ulteriormente ristretti (l’opinione degli elettori vale ancor meno che in passato: i greci non sono liberi di scegliere neanche quale politica economica debba portare avanti il governo da loro scelto). Ne consegue, seconda lezione, che percorrere unicamente la via istituzionale lascia poche possibilità di realizzare un reale cambiamento nella politica economica e, in definitiva, negli equilibri sociali nazionali. Infine, ma non in ordine di importanza, bisognerebbe essere consapevoli che, mai come in questo momento in cui il capitale impone a livello sovranazionale il suo progetto, sarebbe necessario agire in un orizzonte internazionalista: immaginate l’effetto che avrebbe avuto uno sciopero degli operai tedeschi a supporto delle richieste dei loro compagni greci… Il fatto che quest’ultimo punto appaia come una fantasiosa illusione lascia intendere la posizione di estrema debolezza in cui si trova oggi il movimento dei lavoratori.

1 Morya Longo, “I due salvataggi della Grecia? Un aiuto a tedeschi e francesi”, Il Sole-24 Ore, 18 febbraio 2015. I dati sono stati desunti dalla Banca dei Regolamenti Internazionali.