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Categoria: Economia e finanza
Creato Giovedì, 01 Ottobre 2015

MaoDalla Cina con terrore di Toni Iero (n°183)

Il crollo del mercato azionario cinese ha scatenato il panico

Il recente crollo del mercato azionario cinese ha innescato una spirale di panico a livello mondiale, portando pesanti ribassi anche sulle borse dei Paesi economicamente più sviluppati. Si è trattato di una specie di doccia fredda, dato che il Paese asiatico, insieme ad altri definiti “emergenti” alla luce della forte crescita economica che avevano realizzato negli anni passati, era considerato da molti come una locomotiva destinata a non fermarsi mai.

La Repubblica Popolare Cinese è la seconda economia mondiale per dimensione, dopo gli Usa. Tuttavia, in termini di Pil pro capite (espresso in PPP1) la Cina è ancora molto indietro: i 13.801 dollari di un cinese si confrontano con i 56.421 di uno statunitense (il dato per l’Italia è di 35.811 dollari). Si tratta di medie che, naturalmente, tendono a nascondere la concentrazione dei redditi, tuttavia sono indicative della differenza in termini di capacità di acquisto per una persona nei diversi Paesi. Questa differenza implica che l’economia cinese abbia bisogno di crescere a tassi maggiori di quella americana (o europea) affinché il benessere della popolazione del gigante asiatico si avvicini a quello degli abitanti degli Stati Uniti e degli altri Paesi sviluppati. Ebbene, un indizio dei problemi cinesi si coglie proprio nella riduzione del tasso di crescita economico complessivo: negli ultimi due trimestri il Pil cinese ha evidenziato un incremento del 7% rispetto allo stesso periodo del 2014, curiosamente è proprio l’obiettivo che la dirigenza del Partito Comunista si era dato... È un tasso inferiore a quelli registrati in passato. Ma l’aspetto rilevante è il fatto che numerosi osservatori nutrono ormai grossi dubbi sulla rispondenza alla realtà di questo dato pubblicato dal National Bureau of Statistics of China (d’altra parte, sia la cultura imperiale cinese, sia quella marxista non hanno mai brillato per la trasparenza delle informazioni rese al pubblico). Da più parti si fanno notare le incongruenze tra la crescita del Pil e l’andamento dei consumi energetici in Cina, che paiono disaccoppiarsi significativamente proprio negli ultimi trimestri. Questo problema è così sentito che all’inizio di settembre di quest’anno l’ente statistico cinese ha comunicato che, dal prossimo ottobre, i criteri di calcolo del prodotto interno lordo saranno rivisti e resi più simili a quelli in vigore nei Paesi occidentali. È ormai assodato che una crescita economica troppo bassa renderebbe difficile, per il governo di Pechino, tenere sotto controllo la pressione sociale dei milioni di contadini che ogni anno abbandonano le campagne alla ricerca di un lavoro meglio remunerato nelle città dell’Est.

In questo contesto, la scelta della People’s Bank of China (la banca centrale di Pechino) di lasciar deprezzare lo yuan (chiamato anche renminbi), presa in agosto, è stata interpretata dalla maggior parte degli operatori come un tentativo di dare ossigeno, attraverso le esportazioni, ad un sistema produttivo in affanno: in sostanza, è stata intesa come una conferma delle difficoltà in cui si trova l’economia cinese. Da qui la paura di una nuova guerra delle valute condotta a colpi di svalutazioni competitive e, di conseguenza, la tempesta sui mercati azionari e valutari scatenatasi in agosto. Probabilmente, non era questa la vera intenzione della dirigenza di Pechino che, lasciando più spazio al mercato nella definizione degli equilibri valutari, puntava ad inserire lo yuan nel paniere delle monete considerate dal Fondo Monetario Internazionale per il calcolo dei Diritti Speciali di Prelievo (oggi basato su euro, yen, sterlina e dollaro). Infatti, in più di una circostanza, il governo cinese ha manifestato l’intenzione di voler fare dello yuan una moneta di riserva internazionale, al pari del dollaro e dell’euro, e sperava di cogliere l’occasione di revisione del paniere del FMI, prevista entro la fine del 2015, per realizzare un primo passo in tale direzione. Inutile dire che questo terremoto finanziario, avente epicentro proprio in Cina, ha, con tutta probabilità, messo fuori questione tale ipotesi per l’immediato futuro.

Aggiungiamo che, negli ultimi vent’anni, la dirigenza di Pechino ha sistematicamente cercato di mantenere sottovalutata la propria moneta per sviluppare un sistema produttivo che fosse una poderosa macchina da esportazioni. Per giungere a questo risultato le eccedenze delle esportazioni sulle importazioni sono state sistematicamente investite in titoli quotati per lo più in dollari, specialmente in obbligazioni emesse dal governo degli Stati Uniti. Questo ha permesso di mantenere il cambio dello yuan all’interno di una stretta banda di oscillazione nei confronti del dollaro e, in parallelo, ha creato una quantità irragionevolmente elevata di riserve valutarie presso la People’s Bank of China: alla fine del 2014 erano di poco inferiori ai 4 mila miliardi di dollari.

A causa di queste scelte di politica economica e valutaria, negli anni passati, la crescita cinese è stata alimentata da una sorta di bolla degli investimenti, sia in impianti industriali, sia in costruzioni: nel 2014 gli investimenti rappresentavano il 46% del Pil cinese; per raffronto si consideri che, nello stesso anno, in Italia il peso degli investimenti sul Pil è stato pari al 17%! In altre parole, i cinesi hanno costruito negli anni una capacità produttiva enorme che, probabilmente, non riusciranno mai a sfruttare pienamente. Di questo i dirigenti cinesi, probabilmente la classe politica più preparata al mondo, sono ben consapevoli. È ormai da almeno un paio di anni che hanno lanciato un piano per spostare il baricentro della loro economia dagli investimenti (e dalle esportazioni) ai consumi interni. Per adesso con modesto successo: sempre nel 2014, la spesa dei privati ha pesato sul Pil cinese per appena il 38% (era il 40% nel 2005), contro il 60% in Italia. D’altra parte, una trasformazione di tale portata non appare semplice e richiede, prima di tutto, interventi diretti a creare un sistema di sicurezza sociale (sanità, pensioni, trasporti pubblici, etc.) oggi del tutto assente nella Cina “comunista”. Per realizzare questo importante cambiamento occorrono molti elementi (la volontà politica, un efficiente sistema amministrativo pubblico, la competenza in materia previdenziale ed assistenziale…) ma, soprattutto, tempo.

E il tempo potrebbe non essere sufficiente. Il rallentamento dell’economia cinese si è riflesso in un drastico ridimensionamento della domanda di materie prime (si consideri, per quanto riguarda il petrolio, che la Cina rappresenta circa l’11% dei consumi mondiali). A causa anche della minore richiesta cinese, le materie prime hanno conosciuto, negli ultimi mesi, una forte caduta delle quotazioni. Per questa via, gli impulsi recessivi si stanno trasmettendo, dalla Cina, ai principali Paesi produttori degli elementi base per l’attività industriale (petrolio, metalli, etc.). Se poi teniamo conto del fatto che l’Europa è ancora attanagliata in una crescita debole e fragile (conseguenza anche dell’austerità fiscale imposta da Bruxelles e da Berlino), gli Usa stanno solo un po’ meno peggio del Vecchio Continente e la Germania, con i suoi prodotti tecnologicamente avanzati, ha spodestato la Cina come primo esportatore mondiale, il quadro comincia ad assumere tinte fosche. Infatti, le fabbriche cinesi avranno meno opportunità di esportare, poiché l’Europa è ferma (la crescita tendenziale del Pil dell’area euro nel secondo trimestre è stata dell’1,5%) e gli Stati Uniti sono impegnati in un complesso processo di reindustrializzazione della propria economia che dovrebbe lasciare meno spazio alle importazioni. Senza contare che proprio le imprese europee ed americane contavano di vendere le loro merci in Cina, considerato un mercato in espansione! Il gioco di un’economia mondiale in cui il successo si misura solo sulla base della capacità di esportare si sta rivelando insostenibile.

Il punto è che anche in Cina, come è normale, gli investimenti sono stati fatti prendendo a prestito il denaro dalle banche (o, peggio, da finanziarie che sfuggono al controllo delle autorità monetarie di Pechino). Ma una fabbrica, messa in piedi grazie al debito bancario, che non riesce a vendere sul mercato le merci che produce porta al fallimento dell’impresa e, quindi, al mancato rimborso del finanziamento ricevuto dalla banca. Analogamente, il costruttore che non è in grado di vendere gli appartamenti edificati si ritrova con il suo palazzo vuoto e il debito verso un istituto di credito da ripagare, con gli interessi. Problemi loro, si potrebbe pensare. Ma se queste situazioni si generalizzano, saranno le banche a trovarsi sull’orlo del baratro. E a questo punto i guai diventerebbero seri, fino ad ipotizzare di arrivare, anche se in un contesto ben diverso, alla versione cinese della crisi dei mutui sub-prime.

Con tutto ciò, è bene non cantare il de profundis per l’economia cinese. Il Paese è vitale, a cominciare dal movimento dei lavoratori che continua a battersi, nella difficile situazione in cui si trova, per migliorare le condizioni di vita delle classi popolari. Quanto sta accadendo è, verosimilmente, una crisi di crescita di una nazione destinata ad aumentare il proprio peso nel mondo, non solo in ambito economico.

1 Purchasing Power Parity. Sono tassi cambio opportunamente calcolati per convertire le monete di diversi Paesi eliminando l’effetto di distorsione rappresentato dai differenti livelli dei prezzi nei vari Paesi (si consideri che, per esempio, con un dollaro, in Cina si comprano più merci che con un dollaro negli Usa). I dati sono relativi al 2014.

 

 

 

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