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Categoria: Economia e finanza
Creato Sabato, 01 Marzo 2008

2008: un difficile equilibrio, di Toni Iero (n°100)

Si sentono ancora gli echi dei brindisi con cui nei palazzi del potere si è festeggiato lo scampato pericolo. Negli ultimi mesi del 2007, quando la voragine delle insolvenze sui mutui subprime si allargava giorno dopo giorno e, in parallelo, aumentavano le perdite che le grandi banche occidentali dovevano spesare nei loro sempre più compromessi bilanci, un brivido è corso lungo le schiene dei finanzieri.

In quelle settimane, nei ministeri economici e nelle banche centrali di tutto il mondo si aggirava un’agghiacciante consapevolezza: se falliscono le grandi banche salta tutto il sistema finanziario.

Si è fatto di tutto pur di evitare la catastrofe. La Fed americana ha tagliato drasticamente i tassi di interesse, la Bce e la Bank of Japan hanno immesso sul mercato interbancario centinaia di miliardi di euro. La Bank of England è addirittura intervenuta direttamente per salvare la Northern Rock, i cui sportelli erano presi d’assalto dai risparmiatori che temevano di perdere il denaro depositato presso quella banca.

Dopo il sostanziale fallimento di questi interventi delle banche centrali, sono arrivati i fondi sovrani (in particolare arabi e cinesi). Tali entità hanno positivamente risposto all’appello lanciato dalle autorità monetarie dei paesi le cui banche erano più compromesse dalla crisi subprime. In poche settimane hanno acquistato rilevanti quote di partecipazione immettendo decine di miliardi di dollari negli istituti di credito più fragili. Così è stato esorcizzato lo spettro che turbava i sonni di governatori, ministri e banchieri: la ripetizione della crisi del ’29.

Le grandi banche sono state salvate. Il collasso del sistema finanziario mondiale è stato evitato. Tutto bene?

Il contagio

In realtà il 2008 si apre con l’orizzonte economico pieno di minacciose nubi. Lo scoppio della bolla immobiliare Usa, oltre alle insolvenze che penalizzano le banche americane (e, grazie alla finanza creativa, anche molte banche europee), ha reso più povere numerose famiglie americane, riducendo la loro capacità di continuare a consumare indebitandosi.

Una delle patologie dell’attuale sistema economico mondiale è che i consumi (a credito) degli Americani sono il motore che tiene in piedi i sistemi produttivi più dinamici, quelli delle nazioni asiatiche. Buona parte delle produzioni cinese, giapponese, indonesiana, etc. trova il suo principale mercato di sbocco proprio negli Stati Uniti. Voi capite bene che, se quelle merci non si possono più vendere negli Usa, vi sono due possibili soluzioni: o si trovano nuovi acquirenti, o si va incontro a crisi di sovrapproduzione proprio nei paesi che mostrano tassi di crescita maggiore.

Il problema è che, oggi, non si vede quale altra area economica del pianeta possa sostituirsi agli Stati Uniti come “consumatore di ultima istanza”. Insomma, un’eventuale crisi dei consumi americani avrebbe conseguenze recessive su tutti i principali paesi del mondo.

Anche se è stato evitato il collasso finanziario, la malattia potrebbe facilmente passare alla cosiddetta economia reale. Infatti, tutti gli istituti economici prevedono per il 2008 una crescita in forte rallentamento rispetto all’anno precedente.

La torta

Minore crescita significa minore ricchezza prodotta dai sistemi economici. Quando si riduce la torta si accende la lotta per stabilire chi deve accontentarsi delle fette più piccole. Non è da escludere che nuovi attacchi alle condizioni di vita dei lavoratori siano già allo studio da parte del capitale e dei suoi alleati.

Questo sembrerebbe contraddire la campagna di denuncia delle difficoltà in cui si trovano le classi meno abbienti in Italia. In realtà c’é il rischio che si tratti, ancora una volta, di uno specchietto per le allodole. Occorre notare che la soluzione, più o meno esplicita, ventilata nelle dichiarazioni dei politici, del Presidente di Confindustria e del Governatore della Banca d’Italia sia di sostenere il potere di acquisto dei lavoratori con una riduzione delle tasse. Ora, benché non sia certo spiacevole pagare meno imposte, bisogna considerare che, da un lato, le risorse messe in campo sarebbero ridicole (un paio di miliardi di euro, su 24 milioni di lavoratori, equivalgono a circa 83 euro a testa); dall’altro lato, c’é il fondato rischio di un taglio nei servizi pubblici. Se così fosse, ci riprenderebbero con una mano quello che ci danno con l’altra. In realtà, come notavo in un articolo precedente, serve un sostanzioso aumento dei salari, non una striminzita riduzione delle imposte. Anche perché le condizioni della finanza pubblica italiana, nonostante il lavoro di risanamento portato avanti dal governo Prodi, sono ben lungi dall’essere floride.

Tra gli altri fattori da segnalare c’é la ripresa dell’inflazione. Con il barile di petrolio ormai stabilmente prossimo ai cento dollari non è sorprendente registrare incrementi dei prezzi. Specialmente in un paese come l’Italia, dove decenni di criminale negligenza da parte dei governi centrali nei campi dell’energia e dei trasporti ci hanno lasciato del tutto esposti alle imprevedibili fluttuazioni del costo del greggio.

Forse sarà questo il terreno su cui si muoverà l’economia italiana nel 2008, un difficile e scivoloso percorso stretto tra rischi di recessione e fiammate inflazionistiche. Scilla e Cariddi. Senza però alcun Ulisse alla cui saggezza e consapevolezza dei pericoli affidarci.

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