La dipendenza in Africa Occidentale, di Luciano Nicolini (n°58)
Continua, presso il Laboratorio di Etnologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, il seminario su "Dipendenza, lavoro e diritti" (vedi Cenerentola n. 54, 55 e 57). Il 2 maggio è stata la volta della relazione di Stefano Boni, che ha parlato del concetto di dipendenza con riferimento all’Africa Occidentale.
Boni ha svolto ricerche sul campo in Ghana, negli anni ’90, in un territorio abitato prevalentemente da popolazioni di etnia Sefwi, mentre era in corso (o così si diceva) la diffusione dell’"economia di mercato" e della "conseguente" valorizzazione dell’individuo all’interno di un contesto caratterizzato dall’esistenza di forti legami d’appartenenza familiare. Si è interessato, principalmente, di verificare cosa stava accadendo nelle aree rurali, studiando in maniera approfondita il fenomeno della "dipendenza" personale, da lui definita una relazione:
- duale (che cioè si stabilisce tra due individui);
- asimmetrica (in cui uno dei due si trova in posizione di forza);
- intransitiva (il dipendente può avere, a sua volta, dipendenti che, tuttavia, non divengono, almeno in prima approssimazione, automaticamente dipendenti dal proprio "superiore").
Nel corso della relazione, Boni ha ragionato a partire da tre differenti scenari.
Nel primo troviamo un agricoltore africano, non originario dell’area studiata, che, grazie a un contratto col proprietario del terreno, ottiene il diritto a parte del prodotto agricolo, instaurando però, con il proprietario, una relazione asimmetrica e diventandone, simbolicamente, "figlio". Più che di un contratto d’affitto, si tratta, ancora una volta, di una relazione di dipendenza. Di fronte alla richiesta, da parte degli immigrati, di avere diritti certi sulla terra, avanzata al governo tramite il sindacato, si sono verificati soprusi da parte dei proprietari, quali assassini e stupri; in un contesto nel quale le donne, come del resto i giovani, sono considerate "dipendenti" dei maschi adulti.
Nel secondo scenario troviamo invece un salariato annuale, anch’esso non originario dell’area. E’ una figura che esiste almeno dalla fine dell’Ottocento, ma che non è mai stata maggioritaria: gran parte del lavoro agricolo infatti risulta, a tutt’oggi, costituita da lavoro non pagato.
Tra datore di lavoro e salariato avviene, in questo caso, uno scambio monetario, ma questo è comunque compreso in un rapporto di dipendenza più generale, spesso accettata dal dipendente, convinto di una propria "naturale" inferiorità rispetto al primo. I lavoratori salariati annuali, a differenza dei "coloni" dei quali si è detto, raramente si organizzano in sindacato: casomai, talvolta, si ribellano attraverso atti di violenza individuale contro membri di quella che, nel periodo di dipendenza, rappresenta, in qualche modo, la loro famiglia d’appartenenza.
Il terzo scenario preso in considerazione dal relatore è costituito dal "Dipartimento del benessere sociale", un ufficio che si occupa soprattutto del pagamento degli "alimenti" ai figli delle divorziate e della divisione delle eredità (che nell’area studiata si trasmette per via matrilineare). In questa sede, rileva Boni, si può notare come lo stato (le cui strutture derivano dalla precedente amministrazione coloniale britannica) tenda a diminuire l’importanza dei meccanismi dell’eredità matrilineare per tutelare, secondo l’uso europeo, i figli e la moglie del defunto. Qui si ha, dunque, effettivamente, una valorizzazione dei diritti acquisiti dall’individuo, nei confronti di quelli tradizionalmente attribuiti alla famiglia d’appartenenza. Il processo, tuttavia, è ben lontano dall’essere completato, e le sentenze risultano spesso un delicato compromesso tra modernità e tradizione.
E’ utile – si domanda Boni – utilizzare la parola "dipendenza" per tutti i tipi di rapporto che esistono fra gli individui? No: non ha senso, ad esempio, affermare che, come i servi dipendono dal padrone, il padrone "dipende" (per le proprie necessità) dai suoi servi; né ha senso affermare che due amici "dipendono" l’uno dall’altro. Lo si può fare, ma si finisce con il generare confusione, chiamando con lo stesso nome cose molto diverse fra loro, sia da un punto di vista pratico che da un punto di vista concettuale. Da un punto di vista pratico perchè, ovviamente, una cosa è essere schiavi e altra cosa essere padroni; da un punto di vista concettuale perchè, mentre i dipendenti si considerano tali, chi è in posizione di "superiore" non si considera, in alcun modo, dipendente da essi.
La dipendenza, definita come relazione duale, intransitiva, asimmetrica, non sparisce con lo sviluppo del capitalismo, e neppure, in maniera automatica, cambia forma. Può anche, come è stato evidenziato attraverso gli esempi citati, convivere con esso in forme assai simili a quelle tradizionali.
All’apprezzata relazione è seguito un vivace dibattito, nel corso del quale Boni ha avuto modo di chiarire perchè ha preferito utilizzare la parola "dipendenza" piuttosto che la parola "dominio": la prima gli sembra più adatta a descrivere una situazione nel quale il dipendente è, almeno in parte, ideologicamente convinto della necessità della propria dipendenza. E’ intervenuto poi Fabio Viti, direttore del Laboratorio, per sottolineare l’importanza dei rapporti di lavoro basati sull’amicizia (e quindi, in prima approssimazione, sull’eguaglianza) nello scardinare quelli basati sulla dipendenza. Relazioni di questo genere sono sempre più presenti, in Africa occidentale, soprattutto nelle città, tra i giovani che desiderano sfuggire dall’asfissiante sistema di dipendenze che la diffusione di un’economia basata sullo scambio monetario non sembra, di per sè, sufficiente a mettere in crisi.