Stampa
Categoria principale: Esteri Categoria: Centro America e America Latina
Creato Martedì, 01 Giugno 2010

America Latina: stati, governi, lotte, di Nerio Casoni (n°125)

L’analisi della situazione socio-politica dell’America Latina viene fatta cercando di enucleare i fenomeni che socialmente possono essere considerati un’evoluzione delle popolazioni meno abbienti, lavoratrici, operaie, contadine e native del continente.

Sembra che una progressiva presa di coscienza si stia sempre più evidenziando: lotte a volte durissime, in altri casi più soft, potremmo dire, in altri casi solo in nuce ma importantissime, in altri ancora rappresentabili come una metaforica lotta tra Davide e Golia.

Generalmente si dice che l’asse degli equilibri nel continente sudamericano, dal Messico alla Terra del fuoco, si è tendenzialmente spostato a sinistra, dopo anni di governi autoritari, dittatoriali, golpisti e difensori delle èlite naziste, nascoste in quei luoghi per decenni con il beneplacito dei governanti e sempre pronte a riemergere. Avanza una sinistra che indubbiamente nasce da un percorso lungo e difficile, in cui molti esponenti dei governi hanno alle spalle una più che dignitosa vita di lotte: Lula, Mujica, Morales, Chávez, Ortega, Correa.

E’ il caso del Brasile di Lula, esponente sindacale operaio che oggi guida uno degli stati emergenti a livello mondiale facente parte del gruppo BRIC, dei tupamaros, gloriosa formazione guerrigliera e rivoluzionaria oggi al governo in Uruguay, di Evo Morales cocalero e sindacalista in Bolivia, e dell’Equador con Rafael Correa, ex missionario seminarista che si definisce cristiano di sinistra e fautore di un “socialismo del XXI secolo”… Governi affiancati, a sinistra, da Chávez e Raul Castro e, a destra, da Kirchner in Argentina. Fa parte dell’internazionale socialista anche il partito al governo in Perù, con Alan García, che sta svendendo il paese alle multinazionali europee e americane. Arriva a definire “cittadini di serie B” i partecipanti alla manifestazione contro la svendita della selva peruana alle multinazionali statunitensi ed europee; azione che fu repressa, nel giugno 2009, con attacchi aerei e terrrestri che provocarono decine di morti. Un doveroso rispetto degli accordi del TLC, concordato con gli Usa, lo stesso accordo che ha portato alla fame i contadini messicani che hanno visto prodotti simili ai loro importati a prezzi più convenienti grazie ai sussidi elargiti dallo stato nordamericano ai propri coltivatori. Un altro esempio: il rivoluzionario Ortega che di nuovo è presidente del Nicaragua, nuovamente dà voce al pensiero di Sandino, e riconosce il governo hondureno di Lobo, burattino in mano ai golpisti, mentre il popolo reclama il rientro di Zelaya, democraticamente eletto.

Il ruolo che sta assumendo questo continente è sempre più costitutivo nel risiko mondiale. Se, come sembra oramai acclarato, la Cina sta facendo un succulento boccone dell’Africa, il Sudamerica è pervaso da fenomeni in cui le tendenze neocolonialiste e neoliberiste, e i poteri economici che ne guidano l’azione, hanno ancora la possibilità di prendere a poco prezzo le immense risorse presenti. Ma questo rosario di intenti si confronta con una realtà che appare conflittuale e controversa.

Come si è detto, governi tendenzialmente di sinistra, in prospettiva “addomesticabili”, e fiancheggiatori del capitalismo, tendono a fare la stessa politica.

Che differenza vi è nella loro politica economica? Risultano portatori degli stessi valori, con un poco più di welfare, in alcuni casi. La lunga tradizione socialdemocratica ha affascinato proprio per questo: rendere più digeribile il rospo neoliberista, del quale condivide valori e finalità, in quanto lo descrive come unica fonte da cui può sgorgare il benessere.

Quello che disturba i manovratori sono le lotte, presenti in tutti i paesi con contenuti che sempre più appaiono ricchi di stimoli apparentemente innovativi, e per questo guardate con estremo interesse. Le lotte dei popoli nativi a difesa dei territori di appartenenza, le istanze che tramite le diverse associazioni nazionali e continentali vengono realizzate, dall’Honduras golpista al Venezuela chavista, le lotte secolari del popolo Mapuche in Cile e Argentina, il coordinamento che unifica i popoli di lingua Tupi-Guaranì, attraverso Paraguay, Brasile, Uruguay, Bolivia, stanno dando vita da tempo a interessanti fenomeni di pressione politica e di lotta sociale per nulla riconducibili al tradizionale panorama di derivazione occidentale. Fenomeni innovativi, ma espressione della atavica esperienza di lotta e di vita delle comunità e delle classi, delle tribù e dei popoli.

Una forma identitaria che è di classe e rivoluzionaria, anticapitalista e tendenzialmente antiautoritaria, legata al concetto di patria e nazione ma anche radicata nella madre terra e proiettata nella cosmogonia andina.

Sembra tutto molto difficile da interpretare: presidenti illuminati, come sempre è apparso Evo Morales, hanno una polizia che spara e uccide contro manifestazioni di popolo; e il governo, per bocca del ministro Sanchez Berzaín, che ha fatto carriera difendendo i diritti umani, dice che “erano provocatori”. La stessa Cuba, baluardo inaccessibile per il neoliberismo, sta subendo un accerchiamento mediatico ma soprattutto economico. Al suo interno si stanno evidenziando dinamiche emancipatorie di indubbio interesse, sembra stia sviluppandosi un movimento caratterizzato da elementi riconducibili al desiderio di continuare la rivoluzione interrotta, paradossalmente, con l’avvento al potere di Castro; sperano di farlo in una logica libertaria e anti capitalista, con un piccolo battito di ali che, nella teoria del caos, potrebbe generare uragani.

Nella Terra del fuoco il popolo Mapuche, espropiato delle proprie terre, in lotta contro due stati, Cile e Argentina, sta conducendo una indomita lotta che, visto il numero di caduti, potremmo definire una vera e propria guerra a bassa intensità; ha ottenuto il riconoscimento della propria bandiera, con un processo emancipativo che ha nelle lotte il proprio motore.

In Argentina, la popolazione indígena reppresenta l’ 1,4%, su 40 milioni di abitanti, al quale si aggiunge un 6,5% di meticci. Non è come in Bolivia, dove il 60% della popolazione appartiene a etnie originarie e un altro 27,5%, è meticcio. Ai festeggiamenti per il bicentenario dell’indipendenza dell’Argentina, gli indigeni preferiscono la protesta. Non rifiutano le celebrazioni per la Rivoluzione del Maggio 1810, però migliaia di kollas, guaraníes, mapuches, huarpes, wichíes, mocovíes, diaguitas e qomtobas, oltre ad altri popoli, hanno iniziato in questi giorni a marciare dal nordovest, dal nordest e dal sudest dell’Argentina fino a Buenos Aires, per reclamare uno stato plurinazionale come quello che sta per portare a compimento, tra forti tensioni, la Bolivia di Evo Morales.

Da qui la solidarietà con le lotte di emancipazione di tutti gli altri popoli del continente, una sorta di coordinamento che condiziona le politiche di molti governi, da Alan García a Chávez, entrambi annichilitori delle istanze di dignità umana, sociale e ambientale in nome di un progresso comunque basato sullo sfruttamento delle risorse, senza rispetto per gli uomini, gli animali e la flora che in quelle terre esistono da sempre. Emerge la solidale partecipazione dei lavoratori che hanno dato vita alle “empresas recuperadas”. Cenerentola se ne interessò già nel 2002, segnalandole come una delle esperienze più significative nel processo generale di affrancamento dal lavoro salariato e di sviluppo dei processi cooperativistici ed autogestionari. Esperienze nate dal disastro economico del 2001, il famoso default argentino. Dopo di esso quanti ne sono successi, fino ad arrivare alla Grecia? Senza dimenticare il Messico dei tequila bond? E quali tentativi le genti hanno intrapreso, per dare risposte economicamente convincenti ai disastri che, senza paura di ideologismi, possiamo annoverare a carico del sistema neoliberale e capitalista? Riusciremmo a vivere meglio con un altro sistema? Dico di sì, convinto, senza tema di apparire presuntuoso e velleitario.

In questo senso diverse esperienze sindacali stanno evidenziando la possibilità di autoorganizzazione del lavoro e delle lotte, come la FORA argentina, che ha dato vita a un criterio organizzativo intercategoriale nuovo (ma antico) come le sociedad de resistencia, presenti anche in diverse città del Cile.

Un insieme di problematiche e prospettive che pongono alla nostra attenzione la presa in considerazione di problemi fondamentali come, per esempio, quello della gestione dei beni comuni, argomento di approfondimenti startegici per il futuro. Da sottolineare il Nobel dato al libro di Elinor Ostrom “El gobierno de los bienes comunes”, titolo originale “Governing the Commons. The Evolution of Institutions for Collective Action” (Press Sindicate The University of Cambridge, 1990), un riconoscimento dell’importanza delle problematiche autogestionarie che dimostra l’interesse suscitato dalle pratiche collettive nella gestione del patrimonio sociale e naturale.

Essendo l’idea di rivoluzione un’idea di socializzazione e redistribuzione equa delle risorse, il continente latino americano e i popoli che in esso vivono dovranno accordarsi su che tipo di futuro intendono costruire. Questa discussione mi sembra in corso almeno da quando da tre barconi sbarcarono “migranti illegali” che cominciarono a mettere a ferro e fuoco, oltre che evangelizzare, tutto ciò che incontrarono.

Dimenticavo.

Stuprarono, infettarono, rubarono e massacrarono, però non sono riusciti a farlo con lo spirito di libertà e dignità.