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Categoria principale: Esteri Categoria: Europa
Creato Venerdì, 01 Giugno 2012

La rivoluzione francese, di Toni Iero (n°147)

La vittoria del socialista Hollande in Francia ha determinato un cambiamento nel quadro dell'Unione Europea.

Le proposte politiche che hanno portato il candidato della sinistra alla vittoria contro il presidente uscente Sarkozy rappresentano una drastica rottura con il trend fino ad oggi dominante in Europa, che vedeva il ricorso al cosiddetto rigore nei conti pubblici a totale carico delle classi sociali meno abbienti.

Ricordiamo, tra i principali punti programmatici espressi da Hollande durante la sua campagna elettorale, il ritorno della possibilità per i lavoratori francesi di andare in pensione a 60 anni (anche se a fronte di almeno 41 anni di contributi versati); la messa in discussione del fiscal compact, camicia di forza allo sviluppo economico imposta dalla Germania della Merkel; l’aumento dell’imposizione fiscale sui grandi patrimoni e una maggiore tassazione sui redditi più elevati. Un programma che, pur nell’ambito del quadro istituzionale in cui è inserito, rappresenterebbe una salutare boccata d’ossigeno per il popolo francese. Un programma che ci piacerebbe venisse attuato anche negli altri Paesi europei, anche perché ormai i fatti dimostrano che la terapia del rigore sta ammazzando le economie continentali cui viene applicata.

Più complessa la situazione in Grecia, dove le contemporanee elezioni hanno generato un quadro politico frammentato. Il successo di formazioni contrarie alle politiche di sacrifici imposti dalla Germania (estrema sinistra, comunisti, neo nazisti) renderanno, con tutta probabilità, impossibile la formazione di un governo. Su un altro fronte, in Spagna, le banche scoprono, giorno dopo giorno, sempre nuovi buchi nei loro patrimoni. È di questi giorni la notizia del salvataggio statale di Bankia, quarto istituto di credito iberico. Ma, nelle condizioni attuali, l’impegno del governo di Madrid in soccorso del sistema creditizio nazionale non fa che aumentare i timori di un default dello Stato. Le tensioni sui debiti pubblici hanno ripreso a dominare i mercati finanziari, con il conseguente allargamento dei differenziali tra il rendimento dei titoli sovrani dei Paesi più deboli (Italia inclusa) e quelli della Germania.

Anche in Italia le elezioni locali hanno registrato importanti novità. Il dato saliente è la caduta verticale dei partiti che avevano sostenuto l’ultimo governo Berlusconi: la Lega Nord è stata travolta dalla sconcertante vicenda di corruzione familistica e di uso improprio del finanziamento pubblico (travestito da rimborso elettorale, contro la chiara volontà espressa dagli italiani in un referendum); il Popolo delle Libertà, orfano di un Berlusconi sempre più “distratto”, dimostra di non avere la necessaria solidità per continuare ad esistere. Casini e soci hanno dato prova di non essere in grado, oggi, di raccogliere i voti sufficienti per creare un vero terzo polo. Il Partito Democratico, pur con un risultato meno che mediocre, riesce a trarre vantaggio dalle disgrazie altrui anche se, spesso, elegge candidati espressi da altre forze politiche. La delusione dei cittadini per l’attuale raccapricciante condizione della vita pubblica italiana si è sostanziata nell’aumento dell’astensionismo e nel successo delle liste del Movimento 5 Stelle.

Si moltiplicano, in Italia, episodi di insofferenza nei confronti della politica economica del governo Monti. Vi sono infatti questioni aperte dai sindacati concertativi contro la riforma del mercato del lavoro voluta dal ministro Fornero, le sedi locali dell’Agenzia delle Entrate sono sempre più spesso oggetto di manifestazioni di protesta, purtroppo aumentano anche i casi di suicidi (di imprenditori e lavoratori) legati alla perdita del posto di lavoro. L’opinione pubblica, pur in un contesto di generale disorientamento, sembra essere meno disposta di qualche mese fa ad accettare la ricetta di sofferenza proposta dall’attuale esecutivo. Manca, tuttavia, un soggetto in grado di catalizzare questi elementi di disagio, trasformandoli in un’organica forma di protesta sociale su cui far crescere una seria proposta economica e politica.

Su questo argomento vale la pena di spendere qualche parola sulle forze a noi più vicine. Il movimento anarchico, pressoché scomparso nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale, poteva nutrire fondate ambizioni di ripresa a partire dagli anni coincidenti con la fine dell’Unione Sovietica. Non solo perché si apriva la possibilità di tornare ad essere presente in aree geografiche dove la pesante repressione stalinista aveva quasi del tutto cancellato la presenza libertaria, ma anche in virtù di un altro fattore: la globalizzazione. Questo fenomeno ha determinato un progressivo trasferimento di peso decisionale dagli Stati nazionali verso il settore finanziario e le grandi imprese, specialmente verso le cosiddette multinazionali. Però, al contempo, apriva la possibilità di ritornare efficacemente ad una pratica ed ad un tipo di azione sociale, l’anarcosindacalismo in senso lato, cui avremmo dovuto essere particolarmente versati. Non che l’autorità statale fosse scomparsa, ma una parte della capacità decisionale si stava spostando dai ministeri verso i consigli di amministrazione. Acquistava rilevanza lo scontro diretto con la controparte padronale. Conseguentemente, ne derivava una riduzione dell’importanza di essere seduti nei parlamenti nazionali, opzione che, per vari motivi (alcuni dei quali piuttosto discutibili), buona parte del movimento libertario ha quasi sempre rigettato. Quindi, tra la prima metà degli anni ’90 e il 2007 si era aperto uno spazio di intervento prima inimmaginabile. Come lo abbiamo sfruttato? A prima vista si direbbe non in maniera ottimale. Comunque non sono uno storico e, purtroppo, temo che la questione riguardi ormai il passato. Perciò lascio volutamente sospesa la domanda affinché persone più competenti di me in questo campo possano esprimere la loro opinione motivata.

Il problema è che, probabilmente, tale fase del capitalismo è giunta al termine. La drammatica crisi in cui sono caduti la maggior parte dei Paesi occidentali potrebbe portare a rispolverare forme di protezionismo che riporteranno al centro lo Stato come garante degli equilibri economici (e quindi sociali) nei territori da esso controllati. Se così fosse, continuando ad agire secondo consuetudine, ci troveremmo un’altra volta fuori gioco. La richiesta di settori sempre più ampi della popolazione, già oggi piuttosto chiara se facciamo mente locale agli esiti delle ultime tornate elettorali europee, si sta indirizzando verso un aumento dell’intervento pubblico. Tornerebbe centrale il peso dei parlamenti e dei governi da essi eletti nell’indirizzare le risorse verso i diversi strati sociali. È il senso del voto a favore di Hollande e dell’apparentemente contraddittorio successo contemporaneo di comunisti e nazisti in Grecia.

È opportuno essere consapevoli che il periodo le cui condizioni esterne potevano prospettarsi a noi più favorevole è passato. Abbiamo urgente bisogno di definire una nuova prospettiva strategica da perseguire su un piano almeno nazionale, anche se sarebbe ancora meglio ragionare su un orizzonte internazionale. Ne saremo capaci?