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Categoria: Lavoro e sindacato
Creato Martedì, 13 Maggio 2008

Lavorare al Porto di Ravenna, di Ilaria Leccardi (n°102)

Il 13 marzo 1987 l’Italia assisteva al più grave incidente sul lavoro del dopoguerra: la strage del cantiere Mecnavi, al porto di Ravenna. Tredici vittime, morte per aver respirato sostanze tossiche sprigionate da un incendio durante i lavori di pulizia nella stiva della nave Elisabetta Montanari. Il Paese scopriva così, incredulo, l’inferno del lavoro portuale, fatto di mansioni logoranti, contratti irregolari e subappalti. Delle tredici vittime otto lavoravano in nero, alcuni erano ragazzi ai primi giorni di servizio.

È partita proprio il 13 marzo di quest’anno, da Ravenna, la carovana contro le morti bianche. Un’idea della Rete per la sicurezza sui posti di lavoro, fondata dallo Slai Cobas di Taranto e dall’associazione 12 giugno che riunisce i familiari delle vittime dell’Ilva. La carovana fino a oggi ha toccato anche altre città, tra cui Bergamo, Palermo, Napoli, Molfetta, ma la scelta di partire da Ravenna non è casuale: luogo simbolo del lavoro assassino, è sede di uno dei maggiori porti commerciali d’Italia, dove gli incidenti colpiscono per lo più giovani senza esperienza.

«Abbiamo iniziato la nostra attività nel settembre 2006, subito dopo la morte di Luca Vertullo –, racconta Enzo Diano, dello Slai Cobas di Ravenna – e quest’anno, in occasione della carovana, abbiamo occupato la sede locale dell’agenzia interinale Intempo». Luca è morto a 22 anni al primo giorno di lavoro. Si trovava sul traghetto Ravenna-Catania, quando è rimasto schiacciato tra due rimorchi. Aveva trovato lavoro proprio tramite la Intempo, «leader in Italia nella somministrazione di lavoro in ambito portuale», come recita il suo sito internet.

Dopo la morte del giovane qualcosa sembra essersi mosso. Al porto è stata reintrodotta la “pesa” per controllare che i carichi non siano in eccesso, anche se qualcuno ha fatto notare che il rispetto dei limiti di carico avrebbe reso il porto ravennate “meno competitivo”. Nei mesi scorsi, inoltre, enti locali, sindacati confederali e Autorità Portuale, hanno firmato due importanti protocolli: il primo per favorire il miglioramento della qualità dell’aria nel porto, il secondo per la pianificazione degli interventi sulla sicurezza nell’area e che prevede la formazione di tre coordinamenti: uno dei lavoratori, uno delle imprese operanti nel porto e uno delle amministrazioni pubbliche con competenze in materia. Infine è stato firmato un contratto per realizzare un sistema di monitoraggio degli accessi al porto, che dovrebbe fornire un quadro delle presenze nell’area e vietare l’ingresso di personale non autorizzato.

Eppure tra le banchine di Ravenna decessi e infortuni non si sono fermati. Nell’ottobre del 2006 un incendio alla Polimeri Europa (ex Enichem) ha ustionato nove persone; nel luglio 2007 un dipendente della Donelli Eos è stato schiacciato dopo la rottura della catena di una gru; a settembre Marco Zanfanti, 19 anni, al secondo giorno di lavoro, è stato investito da un muletto all’Euro Docks, rimanendo gravemente ferito; a ottobre Filippo Rossano, ormeggiatore a pochi giorni dalla pensione, è morto cadendo in mare; infine a gennaio di quest’anno un operaio nigeriano è rimasto ferito a gambe e bacino, spostando del materiale.

Cos’è cambiato, quindi, dal 1987? «Nulla –, risponde Ermanno Bigi, del sindacato Federmar, una vita come gruista e tante battaglie alle spalle –. La cosa vergognosa è che ogni 13 marzo le autorità ripetono “mai più”, ma al porto si rischia sempre la pelle. Tutti i giorni avvengono cose che fanno rabbrividire. Gli incidenti piccoli o mancati sono numerosi, eppure nessuno li documenta. I lavoratori mostrano disagio ma hanno paura di parlare». Uno dei principali problemi di Ravenna è la scarsa specializzazione dei terminal, a differenza degli altri porti commerciali italiani. «Qui i terminalisti privati – continua Bigi – per aumentare i guadagni scaricano un po’ di tutto. Chi dovrebbe trattare cereali talvolta sbarca anche ferro o altri materiali. E questo aumenta confusione e rischi». Una situazione che non sembra dunque essere migliorata, anzi: «I problemi della sicurezza sono gli stessi di vent’anni fa, ma una cosa è cambiata, in peggio. Un tempo tra i lavoratori c’era la consapevolezza del rischio, di ciò che stavano facendo e che sarebbe potuto succedere. Oggi quella consapevolezza si è persa e i giovani che iniziano a fare questo lavoro spesso non sanno nemmeno a cosa vanno incontro».

 

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