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Categoria: Cinema
Creato Lunedì, 01 Luglio 2013

La quinta stagione, recensione di Luca Baroncini (n°159)

di Peter Brosens e Jessica Woodworth

con Peter Van den Begin, Bruno Georis, Nathalie Laroche, Véronique Tappert

Ci sono immagini che da sole sono capaci di porre interrogativi, LA CINQUIEME SAISONscavare nell’inconscio, rapire lo sguardo, lasciarsi ammirare per la ricerca del bello a cui tendono. Sono quelle che compongono l’opera del belga Peter Brosens e dell’americana Jessica Woodworth, suddivisa in capitoli che coincidono con le stagioni.

Siamo in Belgio, in un piccolo paese, e l’approccio tende all’antropologico nel ripercorre una quotidianità scandita dal ritmo della natura, in cui gli attori per lo più improvvisano. Un microcosmo dedito al lavoro della terra, all’allevamento degli animali, ai riti perpetuati dalla tradizione che si interrompono quando in una festa paesana il grande falò, apice del momento comunitario ed emblema dell’arrivo della primavera, non riesce ad accendersi. Le stranezze continuano quando le api scompaiono, gli animali si ammalano e la terra smette di essere produttiva. Di fatto scompaiono le stagioni. La conseguente privazione porta a una sorta di arretramento sociale, un imbarbarimento che sfocia nell’attribuzione di colpe e nella perdita di civiltà, fondamentale per la reciproca convivenza.

Più che il soggetto e la sceneggiatura, però, ciò che maggiormente conta e permette al film di essere apprezzato è la bellezza delle immagini. Sorta di quadri in movimento (la pittura fiamminga pare un’eviden-te ispirazione) in cui ogni minimo dettaglio è ricercato, studiato e calcolato per immergere nello stupore. La luce diventa così la vera protagonista dell’opera. In questo senso la parte narrativa appare come un di più, un appesantimento, che impedisce al film di essere ciò che forse avrebbe potuto essere, sostanzialmente un’installazione di video-arte, e finisce per obbligarlo alla ricerca di contenuti tutto sommato piuttosto banali. Quelle maschere tutte uguali, dietro cui si nascondono gli abitanti alla fine del film, portano a pensare a una sorta di omologazione, di spersonalizzazione dell’individuo, che sceglie la soluzione più facile, quella dell’accusa allo straniero, vittima sacrificale su cui ricadono tutte le colpe. Probabilmente una metafora della società attuale che anziché tentare di risolvere i problemi semina la paura verso tutto ciò che è esterno, non massificato. Una diversità non vista come opportunità ma come pericolo.

Le possibili interpretazioni accontenteranno chi non può fare a meno di un messaggio, ma gravano su un film che sfrondato di simbologie, parole e gesti avrebbe potuto tradursi in incanto.