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Categoria: Cinema
Creato Lunedì, 05 Maggio 2003

Il cinema ai tempi della sars, di Luca Baroncini (n°15)

FAR EAST FILM FESTIVAL-Udine - Teatro Nuovo Giovanni da Udine, 24 aprile - 1° maggio 2003

Da cinque anni Udine ospita il Far East Film Festival, appuntamento imperdibile per chi è appassionato di cinema e di oriente.

Quest’anno, oltre a tutti i problemi logistici e tecnici che vivacizzano una grande manifestazione, un incubo nuovo di zecca: la S.A.R.S, il virus killer nato in Cina che sta catalizzando in questi oscuri tempi l’attenzione dei media. La politica del terrore continua a seminare allarmismi ingiustificati e a condizionare chi ha deciso di non porsi domande. E’ un infallibile strumento per tenere sotto controllo menti malleabili che, alle ragioni del buon senso, hanno sostituito la PAURA. Circoscritta tutto sommato, ma folle, insana e in qualche modo rassicurante. Sta di fatto che anche Udine è stata contagiata. Non tanto il gruppo di esperti e appassionati che organizza il festival, e nemmeno il caloroso pubblico, quanto la giunta di centro-destra che ha montato un caso politico sull’ equazione Festival estremo oriente = contagio. Tutto questo nonostante l’organizzazione abbia più volte dichiarato lo stop agli ospiti stranieri provenienti dai paesi esposti al virus. I giornali nazionali snobbano un po’ la manifestazione (la più ricca e importante del settore in Europa) relegando commenti ai film in angusti trafiletti nella pagina degli spettacoli, mentre la stampa locale dà ampio risalto sia al festival che alle polemiche politiche connesse. Le premesse non sono quindi delle più rosee. Si teme soprattutto un allontanamento del pubblico e una perdita di interesse nei confronti della manifestazione. I risultati, però, sono tutt’altro che sottotono, con la bella sala del teatro Nuovo Giovanni da Udine presa giornalmente d’assalto da curiosi, sia locali che forestieri.

Una delle caratteristiche più apprezzabili del festival è che il ricco programma non include solo i film cosiddetti "d’autore", quelli che circolano nei festival europei più blasonati tipo Cannes o Venezia (e ormai sovrapponibili nell’inflazionata ricetta a base di temi forti, ritmi lenti e possibili scandali), ma si propone di offrire uno sguardo a trecentosessanta gradi sul cinema dell’estremo oriente. Un occhio alla produzione globale, quindi, che tiene conto anche dei gusti del pubblico: dai drammi alle commedie, dai kolossal alle piccole produzioni. Difficilmente ciò che si vede al Far East Film Festival può perciò essere visto altrove e il confronto è importante e costruttivo al di là del giudizio critico. I film orientali che arrivano in Italia passano quasi sempre attraverso il setaccio dei festival, oppure giungono dopo avere raccolto particolari clamori. Esemplare, al riguardo, il caso di "The Ring", fenomeno di culto in Giappone, arrivato in Italia solo nel remake americano e non ancora uscito nemmeno in DVD.

Il pubblico occidentale tende a confondere l’effettiva provenienza dei film che arrivano dall’estremo oriente. Capita più volte di sentire definire come coreano un film che in realtà è giapponese e viceversa. A pensarci bene, è come se un film italiano fosse scambiato per tedesco o francese. Le differenze tra paese e paese, sia a livello di gusti che di industria cinematografica, possono essere molto grandi.

INFERNAL AFFAIRS

(Affari infernali)

Nazione: Hong Kong Anno: 2002 Durata: 100 min. Regia: Andrew Lau & Alan Mak Sceneggiatura: Alan Mak, Felix Chong Fotografia: Andrew Lau, Lai Yiu Fai Musica: Chan Kwong Wing Montaggio: Danny Pang, Pang Ching Hei Interpreti: Tony Leung Chiu-wai, Andy Lau, Anthony Wong, Eric Tsang, Chapman To, Lam Ka Tung

Trama: il poliziotto Ming è l’informatore di un potente boss della droga; ma anche il gangster Yan fa il doppio gioco e in realtà è un poliziotto. Il meccanismo però si inceppa …

RECENSIONE Un poliziotto è infiltrato in una banda criminale. Un criminale è infiltrato nella polizia. Entrambi vivono da anni una doppia vita, guardandosi costantemente alle spalle. Ogni passo falso può essere fatale. Il grande successo dell’anno di Hong Kong, che con gli strepitosi incassi ha risollevato le sorti di un’industria cinematografica in dichiarato declino, è un film solido, teso e ben fatto. Molto curato sia nella composizione delle immagini che negli sviluppi narrativi, attento a caratterizzare con energia e credibilità i contradditori profili psicologici dei protagonisti. Si respira un’atmosfera a metà strada tra "Face Off" e "Miami Vice". Nel film di Andrew Lau & Alan Mak non c’è uno scambio di faccia, ma sono i ruoli ad invertirsi, con lo stesso straniamento causato dal non sapere fino in fondo a quale identità credere. Poliziotto o criminale? Criminale o poliziotto?

Ben diretto e fotografato, montato con grande senso del ritmo, "Infernal Affairs" gioca a spiazzare continuamente lo spettatore e ci riesce, spostando con calibrata misura l’attenzione ora su uno ora sull’altro protagonista, entrambi non a senso unico. Non originale ma efficace il costante tappeto sonoro mononota, che carica di tensione gli sviluppi narrativi amplificandoli con inaspettati e potenti effetti sonori.

Perfetto esempio di film di genere che riesce a trovare un equilibrio tra le parti che lo compongono mantenendo ciò che promette.

LIFE SHOW

(Lo spettacolo della vita)

Nazione: Cina Anno: 2002 Durata: 105 min. Regia: Huo Jianqi Sceneggiatura: Si Wu Fotografia: Sun Ming Musica: Wang Xiaofeng Interpreti: Tao Hong, Tao Zeru

TRAMA: Lai è una giovane donna che gestisce un piccolo ristorante. La sua maggiore priorità è aiutare il fratello tossicodipendente che è in prigione e risolvere antichi dissapori familiari legati alla proprietà di una casa. Un cliente la corteggia con insistenza fino a quando…

RECENSIONE Un ritratto femminile è al centro del lungometraggio di Huo Jianqi. La protagonista Lai lavora al mercato notturno della enorme città cinese di Chongqing e il film racconta un estratto della sua vita. Più della storia, un riempitivo alla lunga noiosetto e poco coinvolgente, colpisce l’assoluta padronanza del mezzo cinematografico da parte del regista che combina, con risultati di grande fascino, le luci e i colori dei luoghi, valorizzando l’intensa interpretazione della brava Tao Hong, giustamente premiata al "Shanghai International Film festival". Sono molto belle ed evocative, infatti, le immagini che impaginano il film. Sembra davvero di essere in un mercato notturno di un paese della Cina, se ne respirano gli odori, i ritmi, se ne toccano quasi le forme. La brezza che bagna costantemente di grigio la città arriva a lambire le poltrone del teatro. Il taglio della regia è quasi documentaristico, nel senso che documenta, con estrema precisione e dovizia di dettagli, il mondo in cui colloca la sua protagonista. Vediamo quindi da più punti di vista la città di Chongqing, ne percepiamo la vastità attraverso lunghe panoramiche che vanno di pari passo con l’interiorità di Lai, perduta in un mondo che non offre più risposte ma non rassegnata, volitiva ma non determinata e profondamente ambivalente. Da una parte infatti vorrebbe cedere alle lusinghe di un uomo ricco e ancora piacente, dall’altra sente di poterne fare a meno, di bastare a se stessa. I suo sogni sono la rispettabilità e l’autonomia, e si preoccupa più di essere amata che di amare, cedendo così alle radicate trappole di una società maschilista che vuole la donna come silenzioso oggetto del desiderio. La brava Tao Long si colloca nella visione malinconica ma non greve del regista con grande espressività, donando al suo personaggio fascino e sensualità. Il nuovo che avanza non dà molta fiducia, ma il film non celebra nemmeno le certezze del vecchio, collocandosi in una fragile ma consapevole instabilità del presente.

THE WAY HOME …

(La strada verso casa)

Nazione: Corea Anno: 2002 Durata: 87 min. Regia: Lee Jeong-hyang Sceneggiatura: Lee Jeong-hyang
Fotografia: Yoon Hong-shik Musica: Kim Dae-hong, Kim Yang-hui Montaggio: Kim Sang-beom, Kim Jae-beom Interpreti: Yoo Seung-ho, Kim Ul-boon, Dong Hyo-hee, Min Kyung-hoon

TRAMA Un bambino di Seoul viene spedito a vivere con la nonna muta che non ha mai conosciuto. Senza televisione, fast-food e batterie per il suo gioco elettronico si sente perduto e comincia a rendere sempre più difficile la vita alla nonna avanzando pretese irrealizzabili.

RECENSIONE Il cinema da sempre adora le strane coppie, soprattutto quelle male assortite che sembrano lontane anni luce, sia nel fisico che nella conciliabilità caratteriale. In genere sulle reciproche differenze si basano i presupposti di una prevedibile contaminazione. Il film della giovane Lee Jeong-hyang (classe 1964) rientra appieno nel cliché, ma si distingue per il talento visivo e la sensibilità con cui affronta i suoi personaggi (firma anche la sceneggiatura). Si racconta infatti dell’estate trascorsa da un bambino viziato e capriccioso presso la nonna muta e ottantenne. La città tecnologica e la campagna immobile sono i due specchi di un’evoluzione dispari che, lungi dall’estendersi a tutto il paese, ha lasciato ampie frange della popolazione ancora ferme all’inizio del secolo.

Il bambino pensa che la nonna sia una stupida e ha gusti prefabbricati di chiara derivazione pubblicitaria; è il prodotto di un marketing spietato dal vago sapore di vuoto, che promette molto più di quello che è in grado di offrire. La nonna si esprime a gesti, la vecchiaia l’ha resa grinza e curva e affronta con estrema lentezza e serenità i compiti quotidiani. Il film è scandito dal succedersi dei giorni che trascorrono senza che, almeno in apparenza, qualcosa di rilevante accada. I due mondi agli antipodi sembrano impermeabili e si teme per tutta la durata del film un avvicinamento causato dall’incontro ineluttabile con la morte o la sofferenza, scelta ricattatoria a cui spesso gli sceneggiatori attingono per sbloccare situazioni di stallo narrativo. Per fortuna la regista ci risparmia tutto questo e punta sui dettagli, sui cambiamenti impercettibili, segue con cura i gesti, le espressioni. L’affetto non urlato che ne consegue, parimenti alla commozione, ha quindi lo spessore della sincerità. Nonostante poco accada, il contrasto tra i due protagonisti genera curiosità e i tempi lenti non assumono la connotazione di un vezzo autoriale, ma diventano un’esigenza stilistica che si adatta all’interiorità dei personaggi. Indimenticabile l’interpretazione della non attrice Kim Ul-boon che nelle rughe del viso, nella fatica dei movimenti, nella forte espressività della sua presenza scenica, vale da sola la visione del film. In patria "The way home …" ha battuto negli incassi sia "Spider man" che "Il Signore degli anelli".