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Categoria: Libri
Creato Lunedì, 07 Marzo 2005

Fabio Viti, Guerra e violenza in Africa occidentale, recensione di Luciano Nicolini (n°53)

E’ stata recentemente pubblicata, dalla casa editrice Franco Angeli, la raccolta di saggi dal titolo "Guerra e violenza in Africa Occidentale", curata da Fabio Viti nell’ambito della collana "Antropologia culturale e sociale".

Non si parla, questa volta, di "società senza stato", almeno nel senso inteso da Clastres (vedi Cenerentola numeri 39 e 41). Quelle presentate nel volume – ci ricorda Viti – "sono per la maggior parte società statuali (...) che si sono trovate a un momento o a un altro della loro esistenza a dover affrontare guerre, provocate o subite, a mettere in campo la forza, al loro interno o contro un nemico esterno, soverchiante o impotente. Ma sono anche società che hanno fatto della violenza una normale modalità di governo, di amministrazione della giustizia (pene corporali e capitali) o di relazione con l’al di là (il sacrificio umano)".

I saggi, appositamente redatti per questo volume, sono sei:

- "Parlare della guerra in antropologia" di Michel Izard;

- "Keledenyasira. L’arte della guerra. Pratica delle armi e identità Kignan (Mali)" di Giuseppina Russo;

- "La violenza del potere nello Nzema e nel mondo akan (Ghana – Costa d’Avorio) di Pierluigi Valsecchi;

- "Guerra e violenza nel Baule fino alla conquista coloniale" di Fabio Viti;

- "Creatività della forza, fecondità dell’ordine. Guerra e società nell’Anno precoloniale" di Armando Cutolo;

- "Dipendenza, violenza, integrazione: l’utilizzo liminare della forza e il suo superamento tra i Sefwi (Ghana)" di Stefano Boni.

Sarebbe impossibile, in questa sede, analizzarli uno ad uno, data la ricchezza del materiale documentario presentato e la varietà delle considerazioni che possono stimolare nel lettore. Mi limiterò pertanto, senza nulla togliere al valore degli altri scritti, ad accennare a quelli che più mi hanno interessato: il saggio di Valsecchi sulla violenza del potere nel mondo akan e quello di Viti su guerra e violenza nel Baule.

Valsecchi tratta un fenomeno caratteristico dell’Africa Occidentale: le "manifestazioni di violenza che coinvolgono individui e gruppi nel contesto (a) di pratiche di culto personale e comunitario, ovvero (b) di rituali sociali o individuali, legati ad affermazioni di status, funzione istituzionale, potere: sacrifici alle divinità, uccisioni in occasione di intronizzazioni, funerali, feste pubbliche". Dopo essersi soffermato sulla descrizione dei sacrifici umani che, in epoca precoloniale, accompagnavano la morte di personaggi importanti, osserva che, "se volessimo delineare una sorta di astratta geografia della violenza all’interno delle società akan (...), ne riscontreremmo una concentrazione particolarmente alta in proporzione diretta a quanto più ci si avvicina alle sedi fisiche del potere: andare alla capitale, alla sede del sovrano, al palazzo, significa approssimarsi ai punti maggiormente rischiosi in termini di possibilità di perdere la vita in determinate circostanze rituali, giudiziarie o di conflitto.

Per altro verso è vero anche che proprio il processo di concentrazione del potere e di costruzione dello Stato ha l’effetto di diminuire drasticamente il grado di libero esercizio di violenza da parte dei capi subordinati e dei capi-famiglia".

Ne conclude che "se è vero che le uccisioni a scopi rituali sono presenti anche in comunità politiche di dimensioni esigue – un villaggio o poco più – la costruzione di poteri che si esplicano su entità più consistenti, ovvero la comparsa dello Stato, comportano significative evoluzioni in questa fenomenologia". (...) "Con l’affermazione di regni e Stati si assiste (...) ad un radicale mutamento di scala nell’esplicazione della violenza rituale". (...) "Lo Stato ne riduce le manifestazioni private, ma di contro magnifica il proprio esercizio della violenza: dalla vittima umana sporadica che può ‘accompagnare’ un capo-lignaggio o un maggiorente di villaggio, oppure dal malcapitato che può fungere da offerta a una divinità, si giunge alle soppressioni frequenti e in alcuni casi alle vere e proprie ecatombi che caratterizzano la vita di compagini statali e imperiali di dimensioni più o meno grandi".

Fabio Viti, invece, si occupa di una regione in cui "lo Stato non si è manifestato sotto una forma unica e centralizzata, ma piuttosto sotto quella di un reticolo denso di unità locali (gli nvle), ognuna delle quali è dotata di un territorio autonomo e di un proprio apparato dirigente, guidato da un sovrano (il famien)". E se ne occupa con riferimento a un’epoca in cui "la presenza commerciale europea su tutta la costa del Golfo di Guinea" ebbe "un impatto decisivo sull’armamento delle popolazioni dell’entroterra, ben prima della conquista successiva".

Se "la macchina da guerra baule" non prevedeva "un esercito stabile"- osserva – "vi era però un capo della guerra riconosciuto, il safunyeren o ale kpengben, una carica tenuta sempre distinta da quella di famien". Il capo della guerra comandava i guerrieri, armati soprattutto con i fucili acquistati dagli Europei.

Viti indaga attentamente sull’efficacia di tali armi, concludendo che "se il fucile non scoppiava in faccia al tiratore, vista la cattiva qualità del materiale impiegato, vi erano poche possibilità che il colpo raggiungesse il suo obiettivo", ma che "malgrado la loro imprecisione, i fucili di tratta erano (...) ritenuti pericolosi per il numero elevato di schegge e frammenti di proiettili di ferro, piombo o rame con cui erano caricati e che permettevano di sparare a mitraglia".

Né, ovviamente, si ferma a questo. Nel saggio, anzi, la guerra è analizzata sotto tutti i possibili aspetti: politico, economico, strategico, rituale, diplomatico, simbolico.

"Lo Stato, l’apparato politico centralizzato, anche nella forma sui generis propria del reticolo degli nvle baule, – conclude – costituisce senza dubbio una macchina da guerra, nel senso che lo Stato organizza e centralizza l’uso della forza, se ne assume il compito in prima persona, se ne attribuisce il monopolio. Per questo, le situazioni di guerra esaltano la natura dello Stato, ma al tempo stesso ne saggiano l’efficienza, ne verificano la tenuta; di più, ne mettono a repentaglio l’esistenza stessa, ancor più forse di quanto non accada con le società segmentarie.

L’esistenza di un legame così intimo tra lo Stato e la violenza significa anche che lo Stato contiene la violenza, nel doppio senso del termine: la contiene al suo interno, ne è costituito; ma al tempo stesso la limita, la contiene appunto".

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