Le Georgiche: lavorare quando piove e nel giorno di festa; lavaggio delle pecore, i trogoli e altre cose, Rino Ermini (n°230)
“Frigidus agricolam si quando continet imber, / multa, forent quae mox caelo properanda sereno, / maturare datur: durum procudit arator / vomeri obtunsi dentem, cavat arbore lyntres / aut pecori signum aut numerus impressit acervis. / Exacuunt alii vallos furcasque bicornis / atque Amerina parant lentae retinacula viti. / …....... / … etiam festis quaedam exercere diebus / fas et iura sinunt: rivos deducere nulla / religio vetuit, segeti praetendere saepem, / insidias avibus moliri, incendere vepres / balantunque gregem fluvio mersare salubri” (Libro I, versi 259-272).
“Qualora la fredda pioggia tenga chiuso il contadino, / è dato approntare molte cose, che poi con il sereno / dovrebbero affrettarsi. L’aratore tempra il duro / dente dell’ottuso vomere, scava tinozze nei tronchi / e imprime il marchio al bestiame, il numero ai moggi. / Altri aguzzano pali e forche bicorni / e preparano i legami di Ameria per le lente viti /........./ … anche nelle feste è lecito qualche lavoro: / le leggi umane e divine lo consentono; nessun vincolo / vieta di derivare ruscelli, addossare alle messi una siepe / tendere insidie agli uccelli, bruciare pruneti, / tuffare il gregge dei belanti in una salutare corrente”.
Quando piove
Virgilio canta delle attività del contadino quando piove, e quali lavori sia lecito fare nei giorni di festa. I suoi non erano ancora i tempi del capitalismo, né di quello nascente che fin dal basso medioevo comincia a portare a casa del contadino lana da filare perché siano sfruttati i tempi morti dei giorni di pioggia o dell’inverno, né di quello più avanzato dei tempi moderni quando con l’inurbamento e la fabbrica, il contadino divenuto operaio se lo sognava di stare a letto quando pioveva o nel dì festivo.
Io ho avuto modo di vedere ancora qualcosa di quel “capitalismo” suaccennato. Il proprietario del nostro podere aveva anche una decina di telai sui quali alcune ragazze del paese facevano maglieria e guanti di cotone per conto di una grande tessitura che stava altrove. La rifinitura di questi guanti veniva fatta a mano con ago e filo dalle donne dei contadini, compresa mia madre. Quando? Quando pioveva, appunto, o quando dopo cena stavamo un’ora seduti davanti al focolare prima di andare a letto, o la domenica quando tacevano i lavori pesanti nel campo. Paga misera per queste donne, ma “tanto era un sovrappiù” al quasi niente che si guadagnava nel lavoro dei campi.
Per tornare a Virgilio, nel podere dove un tempo ho vissuto, quando pioveva ci si limitava a far lavori al coperto: nella stalla o in cucina davanti al focolare, se era inverno; sotto la loggia dalla primavera al primo autunno, cioè nei mesi di clima più caldo. La loggia era un edificio su sei colonne in mattoni, pareti su tre lati in grosse assi di legno, e tetto a capanna in travetti, tegole e docci, (cioè coppi).
Per me studente tuttavia non sempre c’era del lavoro nei giorni di pioggia e festivi, anzi. Quando pioveva avevo modo di fare le “lezioni”, cioè i compiti, in tutta calma, e non la sera, a buio, dopo aver lavorato nei campi o portato le pecore al pascolo; e di dedicarmi alla lettura o occuparmi di cose le più svariate e tutte mie. Il mio “studio” era il granaio, fra mucchi di cereali e sacchi di fagioli, frutta riposta per l’inverno, uva ad appassire per il vinsanto e formaggio a stagionare: per la merenda non avevo bisogno di scendere in cucina.
Il lavaggio delle pecore
Avevamo come altri contadini un piccolo gregge. Si tosavano le pecore all’inizio della primavera, per alleggerirle in vista del caldo e per aver lana per calzini e maglie. La lana la portavamo a filare da uno che girava al mercato grosso settimanale giù in valle, che la raccoglieva e riportava il filato la settimana dopo. Non so se a pagamento o in cambio di un fiasco d’olio o di una certa quantità di lana. A proposito delle maglie (che faceva mia madre) io e mio fratello le odiavamo. Ai primi freddi ce le infilava addosso e non c’erano lamenti o preghiere che tenessero: era per la salute. Via la canottiera estiva di cotone e dentro la maglia di lana di pecora. Pizzicava da bestemmiare. Il fastidio passava dopo qualche giorno, ma la domenica si faceva il cambio, per l’igiene, tassativo: bagno nella tinozza e cambio della biancheria intima, e si ricominciava con le madonne. A primavera, che noi avremmo fatto cominciare volentieri dopo natale, ma che per le madri non cominciava mai prima di Pasqua, via le maglie di lana e sotto con le canottiere: era una liberazione.
A bel tempo già iniziato con sicurezza (fine aprile o meglio maggio) le pecore si portavano in riva a un torrente in un punto dove facesse una pozza profonda e una cascata che consentisse un ricambio veloce dell’acqua. Si prendeva una pecora alla volta e la si tirava dentro e mentre uno la reggeva un altro le dava una lavata al vello. Finita l’operazione, l’animale si dava una scrollata e si metteva tranquillo a brucare l’erba intorno mentre si asciugava al sole. Le capre non si tosavano, quindi non c’era bisogno di lavarle, ma ci dovevi provare a mettere una capra in una pozza d’acqua. Finito lo sparuto gregge, lo si lasciava brucare finché gli animali non fossero asciutti, quindi si riportavano nella stalla. Paglia pulita come lettiera perché non si sporcassero, e il giorno dopo veniva Fonso, detto Il Botto, di mestiere pecoraio, che le tosava, con forbici identiche a quelle che si usavano addirittura da prima di Virgilio. In cambio il desinare e il solito fiasco d’olio o, meglio, di vino.
Oggi i pastori le pecore le fanno tosare con macchine elettriche da specialisti che vengono dall’Australia o dalla Nuova Zelanda. Cominciano dalla Sicilia e vanno fino al circolo polare artico. Tosano in pochi mesi centinaia di migliaia di pecore e pare guadagnino un sacco di soldi (caldamente consigliato: Stewart Chris, “Un pappagallo sull’albero del pepe”, Guanda, Parma, 2003). La lana, che io sappia, nessuno la vuole e credo che addirittura sia rifiuto speciale da smaltire.
Pali e forche
Fare pali e forche per le viti? Mah. Si facevano, ma era lavoro grosso. Tuttalpiù se i pali li avevi già tagliati nel bosco e portati a casa, un paio d’ore di domenica mattina potevi passarle a levargli la buccia o fargli la punta, lì nell’aia o sotto la loggia. Fra l’altro per gli uomini era un’ottima scusa per non andare alla messa. Poi vicino al mezzogiorno ti lavavi per andare a tavola e dopo desinare al circolo, e i pali potevano aspettare.
Trogoli
“Scavare tinozze nei tronchi”. È fare i “trogoli”, ma Virgilio non poteva chiamarli così perché pare si tratti di parola di origine longobarda. Parliamo di abbeveratoi. Ma più che per l’abbeverata noi si usavano per dare a pecore o maiali quella che si chiamava “broda”, cioè un misto di zucche e rape tritate cotte nel paiolo e cosparse di biada o di crusca. Si prendeva un tronco bello diritto di 25-30 cm di diametro e lungo dai 2 ai 3 metri, e lo si scavava per il lungo e per una profondità di 15-20 cm usando una ascia a lama ricurva e manico corto (in realtà più somigliante a una zappetta che a un’ascia). Lo si scavava ovviamente lasciando 10-15 cm di pieno per ogni lato in modo da contenere il liquido che vi si versava. Un trogolo più piccolo lo si usava per dare lupini cotti misti a biada agli agnelli in fase di svezzamento. Più piccoli ancora (tronchi di 15-20 cm di diametro e scavati per intero) si chiamavano docci, ed erano condutture per derivare l’acqua dai torrenti a pro di orti, colture irrigue e lavatoi.
La festa
Non era tanto la superstizione dell’inferno o del prete, più forte magari in alcuni e totalmente assente in altri, a indurre a non lavorare nei festivi. Era semmai una chiara consapevolezza che non si dovesse lavorare, noi e le bestie, per il sacrosanto diritto a riposare. La domenica “si va alla messa, chi ci vuole andare”, a caccia, a letto, al circolo o a far visita a un parente. Guai ad aggiogare i buoi: tutto il vicinato ti avrebbe “portato per bocca”. Certo, di domenica potevi andare a cercare i porcini, trastullarti con l’orto, raccattare le castagne se durante la notte aveva tirato vento, ovviamente governare le bestie, ecc. ma non fare lavori “seri”, pesanti. Insomma riposo assoluto, non dico come il sabato ebraico, che noi allora nemmeno sapevamo cos’era, ma quasi.
Tendere insidie
Del “tendere insidie agli uccelli” che si faceva in autunno e in inverno, adulti e ragazzi, e ci si divertiva un sacco, non parlerò perché non vorrei irritare gli animalisti; e poi si tratta di una cultura morta e sepolta. Agli uccelli che “raccoglieva” mio padre andando a caccia, si aggiungevano quelli catturati andando a “tendere”, cioè a mettere “tagliole” in metallo o lastre di pietra opportunamente disposte nei luoghi di pastura; e la domenica in inverno, con l’aggiunta di qualche pezzo di carne bovina o di maiale, era “arrosto girato”.