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Categoria: Ambiente
Creato Domenica, 01 Marzo 2020

Tabernacolo e inginocchiatoioLe Georgiche: la grandine, di Rino Ermini (n°231)

“Sol quoque et exoriens et, cum se condet in undas, / signa dabit; olem certissima signa sequentur, / et quae mane refert et quae aurgentibus astris. / Illeubi nascentem maculis variaverit ortum / conditus in nubem medioque refugerit orbe, / suspecti tibi sint imbres; namque urget ab alto / arboribusque satisque Notus pecorique sinister; aut ubi sub lucem densa inter nubila sese / diversi rumpent radii aut rubi pallida surget / Tithoni croceum linquens Aurora cubile / heu, male tum mitis defendet pampinus uvas: / tam multa in tectis crepitans salit horrida grando.” (LIBRO I, versi 438-449)

“Ed anche il sole, sorgendo o tuffandosi nelle onde, / darà segnali; il sole è fonte di certissimi segni, / quelli che esprime al mattino e gli altri al sorgere delle stelle: / Se avrà screziata di macchie la nascente ascesa, / o ravvolto in una nube difetterà nel centro del disco, / dovrai sospettare piogge; urge dall’alto / Noto avverso agli alberi, ai seminati, al bestiame. / Ma quando sul far del giorno fra dense nubi / irromperanno raggi in direzioni diverse, o pallida l’aurora / sorgerà lasciando il croceo letto di Titono, / ah! male il pampino difenderà le uve addolcite; / tanta sui tetti rimbalzerà crepitando la furia della grandine.”

 

Belli questi versi e questa attenzione al sole e ad altri elementi della natura che aiutavano a prevedere i fenomeni climatici e regolare i tempi della vita e dell’agricoltura. In essi è la parola “grandine” che ha mosso i miei ricordi riguardo al podere dove vivevo da ragazzo.

L’acqua e l’olivo

Quando c’era un temporale improvviso, l’acqua veniva giù “come le funi” e si temeva che da un momento all’altro si mutasse in grandine, la massaia, se era credente, ma spesso anche quella che non lo era, buttava fuori dell’uscio un rametto di olivo benedetto e, se ce l’aveva, anche un po’ d’acqua santa. Il gesto doveva servire a scongiurare il peggio. A volte funzionava; e quando non funzionava era segno di distrazione o di assenza divina, a seconda che se ne parlasse all’ACLI o al Circolo dei comunisti.

Per l’acqua, chi voleva se ne faceva benedire un’ampolla o una bottiglietta quando il prete passava prima di Pasqua per la benedizione alle case. Oppure andava direttamente in chiesa a farsi compiere il rito in privato. Dico una ampolla perché si trattava di cosa preziosa, mica potevi presentarti con un secchio. L’olivo veniva invece benedetto alla messa della domenica delle palme. Davanti all’altare in quell’occasione c’era un mucchio di piccole frasche, quelle che i contadini portavano in chiesa per i pigionali i quali, non avendo campi, a fine rito si servivano prendendone la quantità necessaria. Gli stessi contadini poi avevano con sé il loro mazzo personale, fatto di frasche più belle. Ho parlato al maschile, ma si dovrebbe parlare al femminile perché erano le donne in genere a portare in chiesa l’olivo. In qualche caso anche i mariti o i ragazzi, soprattutto quelli cattolici e credenti.  Ma mai quelli comunisti che se andavano in chiesa ci andavano per “tradizione” e non perché credevano, lasciando volentieri alle donne il compito di credere e di portar l’olivo a benedire. Per le frasche ai pigionali invece contribuivano tutti perché non volevano dar motivo d’esser “portati per bocca”. Una volta a casa, l’olivo benedetto si metteva in ogni stanza, comprese capanne e stalle a beneficio di fieni, biade e bestie, se si era contadini. Qualcuno ne metteva una frasca in qua e in là anche nei campi e negli orti.

Siccome più d’una volta succedeva che nonostante olivo e acqua santa la grandine massacrasse le vigne, magari con l’uva matura, la fede era sempre in bilico. Interessanti le disquisizioni di tipo teologico che ne nascevano, ad esempio nel caso in cui avesse devastato i campi di un credente, ma si fosse fermata ai bordi di quelli di un comunista. O viceversa. Si raccontava di un contadino (non l’ho conosciuto ma non stento a crederci) che dopo un sopralluogo a seguito d’una grandinata che gli aveva distrutto il raccolto, andò a casa, staccò il crocifisso dalla parete, lo legò con una corda e trascinandolo in direzione dei campi gli andava gridando fra bestemmie ed accidenti vari: “Vieni, pezzo di mascalzone, vieni a vedere quello che hai fatto”. “Mascalzone” l'ho messo per ragioni redazionali e di buona educazione perché trattandosi di un contadino toscano della provincia aretina figuriamoci se poteva usare un vocabolo così forbito.

Paganesimo

A proposito di benedizioni, riti e paganesimo, dalle nostre parti non eravamo secondi a nessuno, e nelle abitudini e nella sostanza si era molto vicini ai contemporanei del Poeta. Ad esempio, c’erano le Rogazioni, processioni che si facevano a primavera, per tre giorni feriali di seguito, di mattino all’alba. All’alba perché dopo c’era da lavorare e i ragazzi dovevano andare a scuola; o forse semplicemente perché gli antichi riti dei progenitori pagani erano rivolti al sole nascente. Credo che i nostri preti tirassero in ballo il lavoro e la scuola per non ammettere che alla fin fine ci rivolgevamo a un dio che era il sole al suo levarsi e non quello morto in croce.

Alla processione partecipavano il prete, alcune pie donne anziane e sempre disponibili, e qualche chierichetto variamente motivato. Si partiva dalla chiesa e si andava attraverso i campi per vie poderali, ogni giorno una direzione diversa. Mentre si andava il prete cantava e le donne rispondevano. I chierichetti guardavano dove erano dislocati i ciliegi migliori o più vicini alla maturazione. Siccome le campagne erano disseminate di tabernacoli e croci, di solito eretti agli incroci delle vie o sui confini o in luoghi dove un tempo ballavano le streghe, a ognuno di essi ci si fermava, veniva recitata qualche preghiera, e infine il prete, prima di riprendere il cammino, alzava una croce, e volgendosi in successione ai quattro punti cardinali cantava delle invocazioni fra le quali “A fulgore et tempestate... libera nos, domine”, “A peste, fame et bello... libera nos, domine (Dal fulmine e dalla grandine... dalla peste, dalla fame e dalla guerra liberaci, o signore). Beh, direi molto significativo riguardo  a quelli che per i contadini sono sempre stati nel corso della storia i disastri maggiori.

A riprova di quanto sia stato lento, interessante e variegato il cammino del mondo contadino da Virgilio al nostro podere nel Valdarno nel secolo scorso, concludo con la citazione di un’ordinanza di Carlo Magno emessa per emendare la religione cattolica dalle permanenze pagane ed aggiornare “l’elenco delle pratiche proibite; vietando, ad esempio,... di leggere il futuro nello sterco dei buoi e dei cavalli; o, ancora,... appendere a pali delle carte contenenti incantesimi per scongiurare la grandine” (Barbero Alessandro, “Carlo Magno”, Laterza, Roma-Bari, 2000, pagina 272).

 

 

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