Le Georgiche: rotazione delle colture, di Rino Ermini (n°232)
“Alternis idem tonsas cessare novalis / et segnem patiere situ durescere campum; / aut ibi flava seres mutato sidere farra, / unde prius laetum siliqua quassante legumen / aut tenuis fetus viciae tristisque lupini / sustuleris fragilis calamos silvamque sonantem. / Urit enim lini campum seges, urit avenae, / urunt Lethaeo perfusa papavera somno; / sed tamen alternis facilis labor, arida tantum / ne saturare fimo pingui pudeat sola neve / effetos cinerem immundum iactare per agros”. (Libro I, versi 71-81).
“Così lascerai riposare ad anni alterni i maggesi / falciati, e lascerai indurire col riposo il campo stremato; / oppure, mutata stella, seminerai i biondi grani / nel luogo di dove hai raccolto abbondante legume / dai baccelli crepitanti, o la tenue veccia, o i fragili steli, / piccola selva suonante, dell’amaro lupino. / La messe del lino brucia il terreno, lo brucia l’avena, / lo bruciano anche i papaveri perfusi di sonno leteo; / tuttavia alternando le colture la fatica è leggera, / purché non ti spiaccia saturare i terreni aridi con grasso letame, / né di spargere sui campi esausti immonda cenere”.
Da tempo immemorabile, di certo ancor da prima che Virgilio scrivesse, è chiaro agli agricoltori che alcune colture erbacee per più anni sullo stesso terreno tendono a impoverirlo, mentre altre hanno la proprietà di rigenerarlo. A questo fatto si è cercato di ovviare con la rotazione e, contemporaneamente, con la concimazione organica. Anche oggi dovrebbe essere, e in parte è, così. C’è però nell’agricoltura moderna la brutta abitudine di risolvere la questione con la concimazione chimica, cioè con essa intervenire pesantemente su quei terreni in cui per ragioni di maggior profitto si intenda insistere per più anni di seguito con la stessa coltura.
In un podere mezzadrile com’era quello dove ho vissuto da ragazzo poco dopo la metà del secolo scorso, la rotazione era rigorosamente praticata, sia per la tutela della fertilità dei terreni sia perché si doveva produrre tutto ciò che fosse necessario all’alimentazione di uomini e bestie. Di essa parleremo in questa sede, sebbene non sia facile a causa della sua complessità.
Cominciamo col chiarire che, trattandosi di una specifica zona interessata da colline e da un altipiano, parte dei terreni era a terrazze, che noi chiamavamo “pianelli”, lunghe alcune centinaia di metri e larghe grosso modo dai tre ai cinque; e parte erano dei piani di circa un ettaro ciascuno. I terrazzamenti erano sostenuti da “balzi”, in genere fatti di terra ed erbosi, sui quali una volta all’anno, fra maggio e giugno, a mano si falciava l’erba per farne fieno. Nelle terrazze si seminava nello spazio fra il bordo e il “sotto balzo” successivo, mentre sui bordi erano piantati olivi, viti e qualche frutto fra loro alternati. In tutte le terrazze c’erano gli olivi, ma non in tutte c’erano le viti. Non so se dipendesse dal fatto che originariamente non vi erano state piantate per qualche ragione o perché via via si fossero perse (seccate) e non sostituite dai contadini che vi avevano abitato prima di noi. Nei campi non terrazzati e un po’ più vasti (detti appunto “piani”), olivi, viti e frutti erano piantati in filari equidistanti e sempre fra sé alternati. Lo spazio fra un filare e l’altro qui si chiamava “manetta”. Del bosco, che aveva una sua personalità abbastanza precisa, parleremo semmai un’altra volta. Ugualmente per un appezzamento di circa 400 metri quadri adibito a orto che era provvisto di una fontana.
La rotazione riguardava principalmente il grano da una parte, che andava su determinati appezzamenti che chiameremo A; e il granoturco e legumi dall’altra, su altri appezzamenti, che chiameremo B. Si seminavano in una terza serie di appezzamenti (di estensione minore rispetto agli altri due) che chiameremo C, foraggi quali erba medica, bolognino e trifoglio: era il cosiddetto “maggese”, pluriennale, cioè lasciato sul terreno per più anni e falciato una o più volte all’anno a seconda della pianta. Come si può facilmente intuire e come abbiamo sopra accennato, la rotazione aveva caratteristiche e varianti difficili da spiegare. Tuttavia a grandi linee funzionava nel modo seguente. Per esemplificare, ipotizziamo di partire dall’ottobre 1960.
Serie di appezzamenti A
ottobre 1960: semina del grano col sistema delle porghe. Questo sistema lo vedremo in un prossimo articolo dedicato al grano.
Giugno 1961: mietitura.
In questi appezzamenti durante l’estate si procede a due o tre arature con aratro classico in legno e vomere in ferro. Tali arature servivano per “rompere la terra” e in particolare per far seccare le infestanti che tendevano a rinascere dov’era stato il grano. Era insomma una forma naturale di diserbo.
A settembre, dopo le prime piogge, vi si semina lo strame, cioè un misto di segale, avena e lupini da mietere freschi come foraggio per le bestie dal tardo autunno fino all’aprile del 1962.
Aprile 1962. Coltratura (aratura con aratro in ferro provvisto di vomere versoio e coltro, più semplicemente chiamato coltro), abbondante concimazione a letame, e semina di granturco e legumi (prevalentemente fagioli).
Fine agosto-inizi settembre 1962. Raccolta granturco e legumi e ripulitura del terreno dalle stoppie.
Ottobre 1962. Semina del grano col sistema delle porghe.
Serie di appezzamenti B
Aprile 1961: coltratura e semina di granturco e legumi come detto sopra.
Fine agosto-inizi settembre 1961: raccolta del granturco e dei legumi, quindi ripulitura del terreno dalle stoppie.
ottobre 1961: semina del grano col sistema delle porghe.
Giugno 1962: mietitura. In questi appezzamenti durante l’estate si procede a due o tre arature con aratro classico in legno e vomere in ferro come già detto per l’appezzamento A .
A settembre, dopo le prime piogge, vi si semina lo strame, che vi rimane fino all’aprile del 1963.
Serie di appezzamenti C
Maggese. A primavera del 1961 si semina foraggio pluriennale (come medica, trifoglio bolognino). Si lascia “in piedi” alcuni anni. A un certo punto con coltratura primaverile e semina del granturco (o autunnale con semina del grano) entrerà in rotazione al posto di A o B e uno di questi due diventerà C.
Questo meccanismo non era così preciso perché il terreno a maggese, avendo noi una sola vacca e poche pecore e per di più usufruendo come foraggio e fieno dell’erba dei balzi e anche delle foglie di alcune piante boschive (acacia, leccio, quercia) o, addirittura, della vite dopo la vendemmia, era più ridotto rispetto agli altri due. Ogni anno c’era poi la semina delle patate, dei cocomeri, dei poponi, ecc. che, se pure in quantità bastanti per una famiglia, cioè in quantità limitata, comunque prendevano anch’essi un po’ di spazio. Insomma, il podere non era rigidamente diviso in tre parti uguali. Inoltre una rotazione rigida non sarebbe stata nemmeno del tutto necessaria visto che avevamo (fra vacca, pecore, capre, polli, conigli e piccioni) una buona quantità di letame per le concimazioni.
Per quanto incompleto e non esaustivo, il mio discorso si ferma qui per ragioni di spazio. È però necessario riprenderlo per un approfondimento che si farà nei prossimi due numeri della rivista quando parleremo in particolare delle due colture più importanti della nostra rotazione: il grano e il granturco associato ai legumi.