Le Georgiche: il granturco, di Rino Ermini (n°234)
Al tempo di Virgilio mancava ancora qualcosa come 1500 anni all’arrivo del granturco in Europa perciò è ovvio che nelle Georgiche di questa pianta non c’è menzione. Siccome tuttavia essa aveva un certo suo peso nel nostro podere del Valdarno e nella relativa rotazione delle colture, non si può non parlarne.
Si seminava, in aprile, in quei campi dove nell’ottobre di due anni prima era stato seminato il grano e nel settembre precedente lo strame, cioè un misto di segale, avena e lupini, da mietere freschi per le bestie dal tardo autunno alla primavera.
Il terreno veniva cosparso abbondantemente di letame e poi coltrato. Quando con la coltratura si arrivava al filare di viti e ulivi che separava una manetta dall’altra (nei campi divisi a manette), si fermavano le bestie e si procedeva alla vangatura del filare stesso. Poi si ricominciava la coltratura dall’altra parte, nella manetta successiva. Finito di coltrare si spianava il terreno con l’erpice, quindi con l’aratro si facevano i solchi dove a mano si seminava il granturco, due o tre chicchi insieme ogni 20-30 centimetri e, addosso ai semi, si spargeva qualche grano di concime chimico. I solchi venivano infine richiusi a marra per coprire di terra semi e concime. Si seminavano due o tre chicchi insieme perché il seme era fatto da noi, non dalla Monsanto, e quindi si “abbondava” per essere sicuri che almeno uno avrebbe germinato. Come spesso accadeva, se germinavano tutti, si procedeva poi al diradamento come si dirà fra un po’.
Nei due solchi che stavano uno di qua e uno di là dal filare di viti si seminavano fagioli o ceci perché essendo queste piante basse, rispetto al granturco che cresceva fino a un metro e mezzo-due metri, davano meno noia quando si doveva passare per “rimettere” le viti, cioè per la potatura verde, e per l’irrorazione che si faceva con una pompa manuale a spalla. Inoltre i tralci della vite non avrebbero avuto nel granturco, pianta dallo stelo alto e robusto, un appoggio immediato, “a portata di mano”, per aggrapparvisi: cosa che al momento della potatura verde avrebbe comportato la rottura sia delle foglie del granturco che dei tralci stessi della vite.
I fagioli potevano essere seminati, come noi facevamo, anche in un appezzamento a sé, magari vicino all’orto, dove c’era una fontana, così che all’occorrenza si potessero innaffiare. Non si poteva invece irrigare il granoturco perché i nostri campi non erano adeguatamente collegati ai fossi derivati dall’ “acquino” (fosso adacquatore o, come si dice altrove, roggia molinara), insomma il canale che prendendo l’acqua da un torrente serviva mulini, campi e orti. L’impossibilità dell’irrigazione significava che negli anni di siccità il raccolto poteva andare perduto in parte o del tutto.
In un limitato appezzamento di buon terreno in mezzo al granturco, terreno che alla coltratura si provvedeva a “ripuntare” (approfondimento dei solchi con la vanga), si seminavano cocomeri e poponi per uso famigliare; il granturco, crescendo, li avrebbe nascosti alla vista, dato che c’era la convinzione che qualche furbacchione, pigionale o contadino che fosse, avrebbe potuto rubarli. Io non ricordo che ciò fosse mai avvenuto, anche se tutti si sapeva che i cocomeri e i poponi venivano seminati fra il granturco e non ci voleva molto a trovarli.
A maggio il granturco veniva rincalzato, cioè si sarchiava, usando la marra: ciò significava anche sradicare le erbacce e tirare la terra al pedano della piantina così che potesse reggersi meglio e fare la seconda radicatura. Come ho detto sopra, si provvedeva in questa occasione anche ad eliminare quelle eventualmente in eccesso.
Ad agosto, quando la pianta del granturco si avviava a seccare e la spiga (pannocchia) era ormai quasi pronta, con la falce si toglievano le foglie allo stocco (stelo) e lo stesso si tagliava al di sopra della spiga. Si faceva questa operazione per i seguenti motivi: 1) per consentire una migliore maturazione dei chicchi togliendo quelle parti della pianta che, essendo avviate a seccare, avrebbero inutilmente sottratto nutrimento;
2) per fare di foglie e stocco foraggio per le bestie (siamo in agosto, l’erba scarseggia);
3) per favorire la raccolta delle spighe rendendole più “visibili”. Spighe che fra la fine agosto e gli inizi di settembre, a maturazione completata, si raccoglievano a mano, staccandole una ad una e gettandole su un carro che procedeva lentamente trainato dalla vacca. Dal campo si portavano a casa e si depositavano in un mucchio sotto la loggia.
Di sera, al lume di una lampada, si “sfogliava”, si toglievano cioè le brattee che venivano accumulate nel fienile e utilizzate in inverno come foraggio. Alcune pannocchie, le migliori, si sfogliavano ma lasciando le brattee attaccate per poter fare dei mazzi e appenderle al coperto a completare l’essiccazione: da esse si faceva il seme per l’anno dopo.
Un tempo lontano si sgranava a mano. Il granturco veniva usato unicamente come becchime per polli, galline, anatre, ecc. Era quindi compito della massaia prelevare da sotto la loggia ogni mattina la quantità di spighe necessaria e sgranarle, cioè separare i chicchi dal canocchio (tutolo). Se c’erano pulcini ancora poco capaci di beccare, soprattutto semi interi, i chicchi erano sminuzzati usando un sasso, come all’età della pietra. Dopo la sgranatura i canocchi si mettevano da parte per usarli come combustibile.
Ricordo che a un certo punto, un contadino nostro vicino che l’aveva acquistata, ci prestava una sgranatrice meccanica a mano, cioè una macchina provvista di ingranaggi metallici che si azionavano con una manovella; passando attraverso questi ingranaggi i tutoli venivano separati dai chicchi. Più tardi arrivò una vera e propria trebbiatrice, ma era ancora antidiluviana e le spighe bisognava comunque portarle nell’aia e sfogliarle e “dargliele in pasto” prive di brattee. Facemmo in tempo a vedere anche quella che sfogliava da sé. Non avremmo invece visto mai dalle nostre parti la mietitrebbiatrice (del resto come per il grano) perché se le terre non furono abbandonate per trasferirsi nella città a fare gli operai, si cessò di seminare grano e granturco che non convenivano più, trovandosi ormai sul mercato farine e semi a prezzi fortemente concorrenti.
Rimangono da dire due ultime cose. Fatta la raccolta si provvedeva a ripulire i campi dove era stato il granturco per prepararli alla semina del grano col sistema delle porghe; si ripuliva tagliando gli stocchi, che si potevano bruciare sul posto oppure, legati in fasci, portare a casa ed essere utilizzati come combustibile, anche se in questa veste non valevano granché.
Il granturco non lo si utilizzava per farne farina da polenta: da noi la polenta era quella di farina di castagne. Che ormai, fra l’altro, non si mangiava più se non una o due volte all’anno per “tradizione”, comprando la farina al negozio di alimentari. Valeva anche per la “polenta gialla”. Anch’essa la si mangiava come l’altra “per tradizione”. Il che poteva significare che, almeno per i contadini che stavano al piano o non avevano i castagni, la polenta di granoturco un tempo poteva essere stata un cibo, se non abituale come nelle pianure del nord, almeno complementare alla farina di grano.