Le Georgiche: scasso e impianto della vigna, di Rino Ermini (n°235)
“Hactenus arvorum cultus et sidera caeli; / nunc te, Bacche, canam nec non silvestria tecum / virgulta et prolem tarde crescentis olivae. / Huc, pater o Lenaee (tuis hic omnia plena / muneribus, tibi pampineo gravidus autumno / floret ager, spumat plenis vindemia labris), / huc, pater o Lenaee, veni nudataque musto / tingue novo mecum direptis crura coturnis”.
(LIBRO II, versi 1-8)
“Fin qui la coltivazione dei campi e le stelle del cielo; / ora canterò te, o Bacco, e con te i virgulti / silvestri e i rampolli dell’olivo che cresce lentamente. / Qui, o padre Leneo (dove tutto è pieno / dei tuoi doni, gravido il campo ti fiorisce nel pampìneo / autunno e la vendemmia spumeggia nei colmi tini), / qui, o padre Leneo, vieni, e con me, tolti i calzari, / bagna le gambe nude nel nuovo mosto.”
È l’incipit del Libro II delle Georgiche, nel quale gli argomenti principali sono le colture della vite e quella dell’olivo. Noi affronteremo brevemente la prima occupandoci in questo numero dello “scasso” e dell’impianto del vigneto e nel successivo del vivaio, dell’innesto e della potatura; non della vendemmia che è stata argomento di un racconto già pubblicato. Fra due numeri parleremo degli olivi.
“His animadversis terram multo ante memento / excoquere et magnos scrobibus concidere montis, / ante supinatas Aquiloni ostendere glaebas, / quam laetum infodias vitis genus. Optima putri / arva solo; id venti curant gelidaeque pruinae / et labefacta movens robustus iugera fossor.”
(LIBRO II, versi 259-264)
“Pensando a questo ricordati di riscaldare il suolo / con grande anticipo, fendere con fossi le balze più alte, / esporre all’Aquilone le zolle rovesciate, prima di scavare / per piantarvi la feconda specie della vite. Ottimi i campi dal molle suolo: lo rendono tale i venti e le gelide brine, / e il robusto zappatore che smuove e fiacca le glebe.”
Questi versi ci danno l’opportunità di parlare del modo con cui si piantavano le viti nel podere del Valdarno che abbiamo a riferimento, un modo del tutto simile a quello osservato da Virgilio. Una precisazione: quando il Poeta parla di “molle suolo”, siccome per noi “molle” ha spesso il significato di bagnato o impregnato d’acqua, potremmo fraintendere. Virgilio non parla di terreni paludosi o non ben drenati; quel suo “molle” sta ad indicare un terreno granuloso, di terra asciutta, morbida, soffice, buona ad accogliere l’acqua della pioggia, a lasciarla penetrare in profondità, ma anche a liberarsene abbastanza in fretta perché non sia eccessiva per le barbe della vite.
Vogliamo ora mettere in evidenza le parole “fendere con fossi le balze più alte” e la figura del “robusto zappatore che smuove e fiacca le glebe”. “Fendere” era per noi fare lo “scasso”. Che poteva essere su terreni in forte pendio (“balze più alte”) o in “piano”. Lo scasso in terreni in pendio significava partire dal fondo della “piaggia” e scavare un fosso profondo 80-100 cm e largo 50. Vi lavoravano più uomini con zappe, picconi e vanghe. La terra scavata veniva rovesciata nel senso del pendio. Durante lo scavo si eliminavano i sassi e le eventuali radici di piante in precedenza abbattute. Finita la prima fossa si procedeva con una seconda, la cui terra andava a riempire la prima, e poi una terza e così via andando verso la parte alta della piaggia. Si trattava insomma di una lavorazione del terreno in preparazione dell’impianto di un vigneto che somigliava a un’aratura profonda, che non poteva essere fatta diversamente: trattori potenti o buoi equivalenti non c’erano, ma soprattutto la pendenza del terreno non consentiva di lavorarci altro che nel modo predetto: a forza di braccia e senza aiuti meccanici o d’animali. I sassi escavati potevano essere lasciati ruzzolare fino al fondo della piaggia o accantonati nel caso si volessero fare una o più “fogne” per il drenaggio delle acque. Ma trattandosi di terreni in forte pendenza i lavori di “fognatura” erano quasi del tutto assenti. Gli “zappatori” erano in primo luogo il contadino, fosse il mezzadro o uno (rarissismo allora) che lavorasse la terra a “conto proprio”, cioè coltivatore diretto, più eventuali “pigionali”, cioè uomini senza terra che lavoravano a giornata nei campi altrui per una povera paga in denaro o anche in natura (vino, olio o grano). Questa gente, se in età di leva, un tempo veniva sistematicamente arruolata nei reparti addetti allo scavo delle trincee o nella costruzione di strade militari nelle montagne lungo le frontiere. Personalmente ho fatto in tempo a vedere un solo scasso di questo tipo fra le fine degli anni Cinquanta e i primissimi anni Sessanta. Poi non più. Da un certo momento in poi non fu più conveniente, venne meno la manodopera trasformatasi in operai di fabbrica, si abbandonarono i terreni marginali, ecc. Le famose piagge, e relative vigne che potessero esservi state impiantate, nel 1970 o giù di lì quasi tutte erano tornate a boscaglia.
Lo stesso lavoro sopra descritto si faceva nel caso dell’impianto di un vigneto in terreno pianeggiante. Questa volta però le “fogne” erano d’obbligo e ne venivano fatte il numero necessario, una ogni 10-15 metri. Per realizzare una fogna si scavava un fosso profondo circa un metro e largo 50 cm. Sul fondo venivano messi “per ritto” sassi in genere escavati durante lo scasso, posati in due file, una a destra e una a sinistra, sulle quali si appoggiavano altri sassi, posti questi orizzontalmente, a fare da copertura. Il manufatto veniva quindi ricoperto di terra fino al piano del campo. Si trattava insomma di canaletti sotterranei realizzati esattamente come facevano in Mesopotamia cinquemila anni fa o nelle campagne romane a partire dal VII secolo prima della nostra era. Servivano a far defluire l’acqua imbevuta dal terreno durante le piogge consentendo alla vigna di rimanere abbastanza asciutta; andavano a scaricare in un fosso laterale raccoglitore che portava l’acqua in direzione di un borro, di una forra o, meglio ancora, di una pozza di raccolta per l’irrigazione di un orto.
Qualora invece di una vigna si volesse fare un impianto di un filare di viti misto a olivi e qualche frutto lungo una proda di un campo a terrazza o in un piano diviso a manette, situazione tipica della mezzadria, collinare e non solo, e frequentissima, si procedeva all’escavazione di un’unica fossa. Al fondo di essa si gettava uno strato di sassi che facesse da vesapio di drenaggio, quindi si procedeva a riempire di terra fino al piano del campo come detto sopra.
Parlando di una vigna, fosse su piaggia o in piano, o di filari fra una manetta e l’altra, ed escludendo quindi un filare lungo una proda il cui tracciato era già dato, prima di tutto si doveva tracciare la linea stessa del filare con una corda tesa fra due pali. La direzione, se non fosse già data da elementi obbliganti del terreno, era in genere nord sud, o nord est sud ovest. Ciò fatto, a una distanza regolare di circa un metro l’una dall’altra, venivano “infilate” le “barbatelle”, cioè viti lunghe circa 60 cm, ottenute in vivaio, provviste a una estremità di barbe e all’altra di uno o due “occhi”, cioè quel rigonfiamento da cui sarebbero venuti fuori i germogli.
Come si infilavano? Tenendo presente che il terreno era morbidissimo data la recente lavorazione sopra descritta, si usava un bastone lungo un paio di metri e 3 cm di diametro, con puntale in ferro, e si faceva un buco di profondità adeguata per inserirvi la barbatella fino agli “occhi”. Accanto alla giovane vite si metteva una canna comune (non la canna d’India) alta circa 1,5 metri che doveva servirle da sostegno per un paio d’anni, alla fine dei quali la pianta, con opportune potature, sarebbe già stata portata alla sua giusta altezza, e a quel punto al posto della canna si inseriva un palo di castagno.