Le Georgiche: elogio della vacca da lavoro, di Rino Ermini (n°237)
Ci addentriamo nel Libro III. Vacche e cavalli sono i protagonisti di circa la metà del canto. Molti i riferimenti mitologici, d’altronde Virgilio era un poeta, non un contadino. Sono difficili sia la sintesi sia la scelta di alcuni passi che possano esserci d’aiuto nel nostro discorso. Proponiamo intanto l’inizio, con l’immediata invocazione a Pale, “antichissima divinità italica dei pascoli e delle greggi” e un accenno struggente a Mantova e al Mincio. Quindi, per entrare nel merito, la descrizione di una mucca.
“Te quoque, magna Pales, et te memorande canemus/ pastor ab Amphryso, vos, silvae amnesque Lycaei./ Cetera, quae vacuas tenuissent carmine mentes,/ omnia iam volgata: quis aut Eurysthea durum/ aut inlaudati nescit Busiridis aras?/ quoi non dictus Hylas puer et Latonia Delos/ Hippodameque umeroque Pelops insignis eburno,/ acer equis? Temptanda via est, qua me quoque possim/ tollere humo victorque virum volitare per ora./ Primus ego in patriam mecum, modo vita supersit,/ Aonio rediens deducam vertice musas;/ primus Idumaeas referam tibi, Mantua, palmas/ et viridi in campo templum de marmore ponam/ propter aquam, tardis ingens ubi flexibus errat/ Mincius et tenera praetexit harundine ripas./ ….. / centum quadriiugo agitabo ad flumina currus./..... / Iam nunc sollemnis ducere pompas/ ad delubra iuvat caesosque videre iuvencos,/...../” Libro III, versi 1-23
“Anche te canteremo, grande Pale, e te, memorabile/ pastore dell’Anfriso, e voi, selve e fiumi del liceo./ Tutti gli altri argomenti che potevano avvincere con il canto/ le menti sgombre, sono già stati divulgati. Chi ignora/ il crudele Euristeo o le are dell’odioso Busiride?/ Da chi non fu cantato il fanciullo Ila e Delo latonia;/ e Ippodamia, e insigne per l’omero eburneo Pelope, prode/ con i cavalli? Si deve tentare una via per la quale anch’io/ possa innalzarmi da terra e aleggiare vittorioso sulle labbra/ umane. Per primo tornando in patria, se vita mi basti,/ condurrò con me le Muse, trattele dal vertice aonio;/ per primo, o Mantova, ti riporterò le palme idumee/ e in un verde campo edificherò un tempio di marmo/ vicino alle acque, dove il grande Mincio scorre/ in lente anse, orlato sulle rive da tenere canne./...../ sfrenerò cento quadrighe lungo il fiume./ ….. / Già fin d’ora mi diletta guidare/ i rituali cortei al tempio e scorgere i giovenchi sacrificati,/.... /”
“Seu quis Olympiacae miratus praemia palmae/ pascit equos, seu quis fortis ad aratra iuvencos,/ corpora paecipue matrum legat. Optuma torvae/ forma bovis, cui turpe caput, cui plurima cervix/ et crurum tenus a mento palearia pendent;/ tum longo nullus lateri modus: omnia magna,/ pes etiam, et camuris hirtae sub cornibus aures./ Nec mihi displiceat maculis insignis et albo/ aut iuga detractans interdumque aspera cornu/ et faciem tauro propior quaeque ardua tota/ et gradiens ima verrit vestigia cauda”.
Libro III, vv: 49-59
“Sia che alcuno vagheggiando i premi nelle gare olimpiche,/ allevi cavalli, o un altro giovenchi forti all’aratro,/ scelga soprattutto le madri. Ottima è la mucca/ di torvo aspetto, testa sgraziata, ampio collo,/ giogaia pendula dal mento fino alle gambe;/ poi lungo a dismisura il fianco; tutto in lei grande,/ anche il piede, irte le orecchie sotto le corna/ arcuate. Mi piace distinta da macchie sul bianco/ o ritrosa al giogo, aspra a incornare, d’aspetto/ più vicino al toro, e tutta eretta, e tale/ che avanzando spazzi le sue stesse orme con la coda.”
Riguardo al nostro podere in Valdarno, tenevamo una vacca da lavoro. Una sola perché con il tiro a due non avremmo potuto lavorare nei “pianelli”, cioè nei campi a terrazza, troppo stretti per due bestie aggiogate. Era adibita al traino del carro, dell’aratro e della treggia. Ogni due anni circa veniva mandata alla monta. Il vitello che ne nasceva (redo) sarebbe stato venduto a pochi mesi di vita per essere avviato al macello. Il ricavato della vendita veniva non diviso fra padrone e mezzadro, ma accantonato per le spese poderali. Se la bestiola era femmina poteva essere venduta per la doma e avviata al mestiere della madre (“...quos ad studium atque usum formabis agrestem,/ iam vitulus hortare viamque insiste domandi”. Libro III, vv. 163-164
“...quelli che vuoi formare al lavoro e alla pratica dei campi,/ già da vitelli incitali e insisti sulla via di domarli”).
Il terzo ruolo, oltre al lavoro e mettere al mondo un redo, era quello di produrre il concio (letame): ruolo importantissimo perchè da questo (oltre che dal letame delle pecore ed altri animali da cortile) dipendeva in gran parte la fertilità dei campi.
Questa vacca poteva essere venduta quando cominciava ad invecchiare per sostituirla con una meno attempata; poteva essere mandata al macello o venduta a un contadino che per minore disponibilità di denaro si accontentasse di una bestia non più giovane (“.....subeunt morbi tristique senectus/ et labor, et durae rapit inclementia mortis./ Semper erunt, quarum mutari corpora malis;/ semper enim refice ac, ne post amissa requiras,/ anteveni....”
Libro III, vv. 67-71
“.....subentrano i morbi e la triste vecchiaia/ e il travaglio, e la rapinosa inclemenza della crudele morte./ Avrai sempre bestie che vorresti mutare;/ così rinnovale sempre, e per non cercare poi le perdute,/ previeni....”).
La vacca annessa al podere veniva trattata molto bene. Qualcuno potrebbe dire: “sì, a parte toglierle il figlio e mandarla a morire quand’era vecchia”. È vero. Era però nel corso naturale delle cose per quel mondo contadino, sebbene, va detto a onor del vero, non mancassero sensibilità anche molto forti rispetto al destino degli animali allevati per la carne o per il lavoro, un destino tuttavia che si rilevava non essere molto diverso da quello degli umani che dalla nascita alla morte si rompevano la schiena per un padrone e per una vita non proprio eccellente. Dicevo che veniva trattata bene. Ad esempio: quando si riportava nella stalla dopo il lavoro, le si asciugava il sudore con della paglia o una coperta. La si puliva anche con la striglia, soprattutto al mattino perché durante la nottata poteva essersi sporcata con i propri escrementi. La si strigliava soprattutto se si doveva col carro andare in paese o da qualche altro contadino a dare una mano nei lavori. Guai a far vedere la vacca sporca: il contadino che l’avesse portata in giro in disordine avrebbe poi goduto di cattiva fama. La stalla ovviamente era tenuta a perfezione: ogni mattina e ogni sera si doveva “sconciare” cioè togliere deiezioni e paglia infradiciata dall’urina per portarle nella conciaia (dove si maturava il letame) e nella stalla mettere paglia asciutta.
Questa bestia si aveva poi cura di non affaticarla eccessivamente, soprattutto durante le gravidanze. Non era solo questione di usare con accortezza l’animale come si poteva fare con un attrezzo o un trattore. Era anche, come ho detto, sensibilità. La nutrivamo con fieno (soprattutto in inverno) di erbe selvatiche, mietuto a primavera inoltrata nei balzi delle terrazze o ricavato da seminativi di maggese (trifoglio o erba medica) e conservato sotto forma di “pagliaio del fieno” o in fienile; o foraggio fresco, sempre da seminati; o farina di cereali che all’epoca consideravamo meno nobili, come avena e segale, sciolta in acqua riscaldata se d’inverno.
Una cosa che potrebbe apparire curiosa: durante i mesi di luglio e agosto, se la bestia era nei campi per lavoro, erano un problema mosche e tafani che le si attaccavano alla pelle aprendovi ferite da cui succhiare sangue: ferite quasi invisibili ma che man mano potevano allargarsi se non si provvedeva intanto a scacciarle di dosso gli insetti e poi al ritorno in stalla disinfettar le ferite. Per difenderla da questo malanno, almeno sugli occhi e sul muso, le si legavano alle corna dei pendagli di stoffa che lei, scuotendo la testa, muoveva difendendosi così alla meno peggio. Un aiuto erano i ragazzi che durante il lavoro provavano un gran piacere a spiaccicare a manate i grumi di mosche e di tafani accalcati intorno alle ferite. La bestia sapeva quel che facevano e li lasciava fare trascurando la botta che le arrivava a mano aperta.
La vacca serviva alla famiglia anche per il latte da utilizzare per la colazione (non si usava per fare formaggio di latte vaccino), ma solo nel periodo di allattamento e soltanto se il vitello era attaccato: per questo noi pensavamo che si poteva mungerla perché avendo sotto il figlio non si rendeva conto che c’era anche una mano a strizzarle un capezzolo libero dalla bocca del redo. (“.....nec tibi fetae/ more patrum nivea implebunt mulctraria vaccae,/ sed tota in dulcis consument ubera natos”. Libro III, vv-176-178
“.....le vacche sgravate/ non ti daranno, all’uso dei padri, secchi di candido latte,/ ma consumeranno le intere mammelle per i dolci figli”).
Non ha attinenza stretta col nostro discorso, ma vorrei chiudere con una citazione tratta da un bel libro di uno scrittore colombiano naturalizzato messicano, libro che ha per protagonista una nave da carico negli ultimi suoi viaggi e le cui vicende si intrecciano con una bella storia d’amore.
“Con evidenza ancora maggiore... mi colpì la condizione disastrosa di quel vecchio servitore dei mari che, per l’ennesima volta, intraprendeva la sua amara avventura con la rassegnazione di uno di quei buoi del Lazio descritti da Virgilio nelle Georgiche: a tal punto mi sembrò vetusto, malconcio e sottomesso”
(Alvaro Mutis, “L’ultimo scalo del Tramp Steamer”, Adelphi, Milano, 1991, pagina 32).