Le Georgiche: le api, di Rino Ermini (n°239)
“Protinus aereii mellis caelestia dona/ exsequar: hanc etiam, Maecenas, aspice partem./ Admiranda tibi levium spectacula rerum/ magnanimosque duces totiusque ordine gentis/ mores et studia et popolus et proelia dicam.” Libro IV, vv. 1-5
“Proseguendo, dirò del dono celeste dell’aereo miele./ Volgi lo sguardo, Mecenate, anche su questa parte./ Ti canterò mirabili spettacoli di modeste cose,/ e i magnanimi capi, e, per ordine, l’indole/ e le attitudini di tutta una gente, e i popoli e le battaglie.”
Principio sedes apibus statioque petenda,/.../ ... liquidi fontes et stagna virentia musco/ adsint et tenuis fugiens per gramina rivos,/ ...” Libro IV, vv. 9 e 18-19
“Al principio si deve trovare una sede e una dimora alle api/ …/... vi siano limpide fonti e stagni verdeggianti di muschio/ e un ruscello che corra sottile in mezzo all’erba,/ ...”.
“... ubi iam emissum caveis ad sidera caeli/ nare per aestatem liquidam suspexeris agmen/ obscuramque trahi vento mirabere nubem,/.../ tinnitusque cie et Matris quate cymbala circum;/ ipsae consident medicatis sedibus, ipsae/ intuma more suo sese in cunabula condent.” Libro IV, vv. 58-60 e 64-66
“... quando avrai veduto la schiera uscire dalle celle/ e planare fino alle stelle del cielo nella limpida estate,/ e ti stupirai di quella nube nera trasportata dal vento,/ …/ fai tintinnare e scuoti i cembali della Madre:/ da sole si poseranno sui luoghi profumati, da sole,/ secondo il loro costume, si celeranno negli intimi covi”.
Mi limito a questi tre passaggi (incipit, il luogo adatto per un alveare in relazione alla presenza di acqua, i suoni metallici per far posare uno sciame in migrazione) per ragioni di spazio; ma sarebbero ancora molti quelli adatti a rammentarci come nell’allevamento delle api quasi niente fosse cambiato da Virgilio ai tempi del mio podere in Valdarno.
Parto col dire che la mia conoscenza delle api non è sistematica: viene da qualche lettura, dalle chiacchierate con un mio amico da tanto tempo apicoltore e da quel che ho visto e sentito quand’ero ragazzo nelle campagne dove vivevo. Viene anche, non posso non dirlo, dall’aver avuto per una decina d’anni diversi alveari che tenevo per il miele, certo, ma anche perché avevo ben chiara l’importanza delle api per la vita e la fruttificazione delle piante. Questa attività di apicoltore, diciamo così, l’ho cessata alla fine di un inverno in cui, su sette od otto alveari che avevo, a causa della varroa nemmeno uno era rimasto vivo.
Nel nostro podere di un tempo, precisamente come accadeva ai tempi di Virgilio, se nei giorni della sciamatura i contadini nei campi sentivano il ronzio di uno sciame in migrazione, si mettevano immediatamente a fare rumore battendo ferro contro ferro (falci, zappe...). Sostenevano che a un tal baccano lo sciame fosse costretto a posarsi, e quindi fosse possibile tentarne la cattura. In genere accadeva veramente che si posasse. Era un caso? O dipendeva dalle onde sonore che ne disturbavano il volo? Era questo comunque l’unico modo di procurarsi uno sciame perchè nessuno a quel tempo ci avrebbe investito del denaro per comprarlo.
So anche che quando sciamavano le mie api (accadeva senza fallo nei primissimi giorni di maggio), lo sciame migrante appena uscito dall’alveare di partenza si fermasse molto vicino, in genere su una frasca d’olivo, visto che questa era la pianta più diffusa nei dintorni. Si fermava dando luogo, attaccata alla frasca prescelta, a un blocco a forma di goccia d’acqua, più sottile in alto, nel punto di attacco, e più gonfia verso il basso. La regina stava all’interno o in prossimità del punto d’attacco? Non lo ricordo. Le api, così acconce, rimanevano fino al giorno seguente, quando le “esploratrici” le avrebbero guidate nel posto da esse prescelto per la sistemazione definitiva. Nelle ore in cui rimanevano nel primo punto di sosta, avevo tutto il tempo per prendere questo sciame e sistemarlo perchè rimanesse a me e non se ne andasse altrove. Preparavo un’arnia mettendoci magari sul fondo qualcosa di molto appetitoso, ad esempio zucchero bagnato di acqua o di vino. Non miele, ché sul miele le api sono capaci di ammazzarsi dalla bramosia. Mettevo l’arnia scoperchiata proprio sotto la frasca dove stava il mio sciame, dopodiché con un paio di forbici da potatore tagliavo la frasca e la calavo il più delicatamente possibile dentro l’arnia con tutto il suo fagotto, assicurandomi per quanto possibile che la regina fosse dentro. A questo punto mettevo all’arnia il suo coperchio e la spostavo nel punto dove avrebbe poi dovuto rimanere in via definitiva, lasciandola in pace per qualche ora perchè le api si calmassero. Quindi la riaprivo, toglievo la frasca che avevo lasciato dentro, e mettevo otto telaini provvisti di un velo di cera già impressa da un reticolo di esagoni su cui avrebbero costruito le cellette; richiudevo e l’operazione era terminata. L’arnia in questione costituiva il piano terreno dell’alveare, dove le api avrebbero fatto il cosidetto “nido”, cioè il luogo deputato alla regina, alla deposizione delle uova e al miele per il nutrimento dello sciame. Dopo due o tre settimane, quando giudicavo, anche aprendo e osservando direttamente, che questa “ala” dell’abitazione fosse già piena di miele, aggiungevo il primo piano con relativi telaini dove le api continuando il loro lavoro di accumulo vi avrebbero depositato quello di cui io mi sarei impadronito. Queste mie arnie erano posizionate in un oliveto dove stavano anche decine di piante da frutto, dove la fioritura a primavera era strepitosa e a poche centinaia di metri c’erano estesi boschi di robinie, castagni e altre piante, insomma l’ambiente ideale per la pastura. C’era vicinissima anche una sorgente piccola, ma perenne, di acqua molto limpida dove le api si rifornivano. Sembrerà strano raccontarlo a chi magari non ci ha mai fatto caso, ma in una torrida giornata di luglio se ne potevano vedere a centinaia sulla riva di quel filino d’acqua, più o meno l’una a fianco dell’altra, senza disturbarsi, mentre “bevevano”.
Ora due casi curiosi relativi all’epoca del nostro podere. Il primo riguarda un contadino nostro vicino, Ulinto, comunista e ateo, analfabeta, gran narratore e mani piegate dal troppo maneggiare vanga, zappa e piccone. Quando riusciva a prendere uno sciame, che lui diceva di voler tenere più per la bellezza e l’utilità delle piante che per il miele, non le metteva in un’arnia regolare (costava troppo in denaro se avesse dovuto comprarla, e troppo in termini di tempo se avesse dovuto costruirla da sé); preferiva adoperare un bigoncio rovesciato, quel recipiente di legno a forma troncoconica che si usava per la vendemmia, che avesse anche un solo piccolo spiraglio fra una doga e l’altra per far entrare e uscire le api. Se voleva un po’ di miele raddrizzava il bigoncio asportava un pezzo di favo, e rimetteva la “casa” in posizione. Le api s’accorgevano e non si accorgevano.
L’altro caso riguarda un mio zio vissuto fino a non molto tempo fa. Si sapeva che uno sciame, se nessuno riusciva a fermarlo, poteva andare a mettersi fra i vetri e la persiana di una finestra, in un muro fessurato e vuoto all’interno, in un anfratto roccioso, all’interno di un tronco vuoto di un castagno secolare. Questo mio parente, se scopriva uno di questi castagni “abitati”, andava lì e accendeva un fuoco all’imboccatura del cavo dove stavano le api e il risultato era che le faceva fuori tutte. Dopodiché con una ascia apriva una buca nel tronco più o meno all’altezza dove presumeva vi fossero i favi, li prendeva, li metteva in un grosso secchio e li portava a casa per “spremerli”. Era un sistema che ai tempi in cui lo faceva lui si poteva anche capire. Insomma c’era un rapporto con la natura che era quello: se ho bisogno del miele e non ho modo di allevare delle api perchè non ho un podere e non saprei nemmeno dove tenerle, mi arrangio come posso. Ovviamente c’erano anche contadini che non facevano né come Ulinto né come quel mio zio, ma avevano i loro bravi alveari regolari e, se capitava, vendevano anche qualche chilo di miele.