Le Georgiche: l’acqua, di Rino Ermini (n°241)
“Quid dicam, iacto qui semine comminus arva / insequitur cumulusque ruit male pinguis harenae, / deinde satis fluvium inducit rivosque sequentis / et, cum exustus ager morientibus aestuat herbis, / ecce supercilio clivosi tramitis undam / elicit? illa cadens raucum per levia murmur / saxa ciet scatebrisque arentia temperat arva.
Libro I, vv 104-110
“Che dire di colui che appena seminato segue / i solchi e rompe i cumuli di terra infeconda, / poi induce un corso d’acqua con i suoi ruscelli nel maggese / e, quando il campo riarso brucia di erbe morenti, / ecco attira a sgorgare l’acqua dal ciglio di un sentiero / in declivio? Quella cadendo tra sassi levigati solleva / un murmore roco, e ristora con zampilli l’arida campagna”.
Ancora nella seconda metà degli anni Cinquanta a casa nostra non arrivava l’acquedotto comunale, che si fermava in un podere a un chilometro a monte. Fu prolungato fin da noi nel ’60 o nel ’61. Prima di allora per bere si andava a prelevare l’acqua a fiaschi, raccogliendola con un bricco, al “pozzino”, una sorgente perenne ma povera sul fianco argilloso di una collina boscata, distante da casa, fra andare e tornare, una mezzora. A volte, soprattutto d’estate, si andava a prenderla anche ad un pozzo provvisto di pompa che stava al Molinuzzo, in una frazione a un paio di chilometri.
Per gli usi di cucina e pulizia della casa c’era in cantina una cisterna in cemento nella quale confluiva acqua piovana dai tetti. Era quindi proibito tenere i piccioni che sui tetti, si sa, ci stanno volentieri e ci defecano. Non si poteva evitare però, si sapeva anche questo, che ci defecassero uccelli vari che intorno a casa o sui tetti ci facevano il nido. Si rimediava gettando periodicamente nella cisterna manciate di calce per disinfettare.
C’era poi una pozza ai margini dell’aia, scavata nel terreno e profonda alcuni metri, dove tramite un sistema di fosse e fossette confluiva l’acqua piovana dai campi. In essa, tramite lo stesso sistema, raramente arrivava quella dell’“Acquino”, un fosso detto “adacquatore”, o “dei mulini”, dal quale si dipartivano attraverso rudimentali saracinesche i sottocanali che servivano a portare l’acqua nelle pozze dei poderi e nei campi per l’irrigazione. Questa pozza era popolata da rane e salamandre (noi le chiamavamo terrantole) e da una certa epoca in poi anche da pesci che vi avevo introdotto, avendo io la manìa di ripopolare qualunque acqua dei dintorni con lasche pescate nei torrenti che dai monti del Pratomagno scendevano all’Arno.
L’acqua della pozza serviva per gli usi più svariati, in primo luogo per abbeverare le bestie. D’estate, a causa della siccità, tendeva a impantanarsi e quindi era giocoforza andare a prelevare l’acqua al torrente più vicino con botti caricate sulla treggia o sul carro al traino di una vacca.
La nostra casa e il nostro podere erano comunque distanti dal percorso dell’Acquino ed era difficile che l’acqua anche se opportunamente deviata all’origine, riuscisse ad arrivare fino a noi e non fosse “fermata” prima, dovendo appunto attraversare diversi campi e poderi prima dell’ultimo che era il nostro. E la situazione si faceva difficile, come ho appena detto, con la siccità estiva. Capitava a volte che io, ragazzo non di rado avventato, irresponsabile, ribelle e testa dura, risolvessi a modo mio il problema.
A notte fonda, quando tutti dormivano, andavo all’Acquino e lo deviavo totalmente nella direzione di casa mia, lasciando a secco tutti coloro che abitavano oltre la presa pertinente alla zona dove stavamo noi. Camminando poi lungo il sistema, chiudevo tutte le fosse che andavano nei campi altrui. Non solo, ma quando arrivavo alle pozze dei poderi aprivo le loro saracinesche di scarico. Il risultato era che due ore dopo questo mio intervento una valanga d’acqua arrivava nei miei campi, nella mia pozza e in quella di Ulinto che anche lui aveva la sua magra terra alla fine del sistema. Era estate e i contadini si svegliavano presto, e quando si accorgevano di aver le pozze semivuote, prima bestemmiavano come solo loro sapevano fare, poi rimettevano a posto le cose richiudendo le saracinesche. Intanto l’acqua era arrivata e per una settimana o anche più i miei campi e la mia pozza erano a posto. C’era chi protestava con mio padre, il quale rispondeva dicendo che lui la notte dormiva e che venissero a parlare con me che ero l’artefice del capolavoro. Io, da parte mia, rispondevo semplicemente che se non volevano che scaricassi le loro pozze e in una notte prendessi tutta l’acqua che mi serviva, lasciassero che almeno una certa quantità, anche minima, scorresse regolarmente ogni giorno verso di noi.
L’orto era un elemento importante del podere e necessariamente legato all’acqua. Nei primi anni lo avevamo lontano da casa, in una “piaggia” in fondo a un borro che godeva di ombra per buona parte della giornata, ma soprattutto dove percolava perennemente acqua dalla falda; pochissima in verità, ma sufficiente per tenere sempre piena una minuscola pozza adibita appunto all’irrigazione dell’appezzamento a orto. Orto che fu poi spostato in un terreno più adatto, cioè più soleggiato, più vicino a casa e nel quale, quando l’acquedotto comunale fu prolungato fino a noi, furono lasciate un paio di cannelle.
Nel fondo dei borri, cioè nelle profonde forre che caratterizzavano quella zona e di cui abbiamo già parlato, un filo d’acqua c’era quasi sempre, anche d’estate, grazie a esigui percolamenti dalle falde ma anche allo “scarico” dai terreni irrigati o delle pozze poderali; un’acqua che faceva bene all’anima al solo sapere che c’era, ma che serviva soltanto per l’abbeverata delle pecore al pascolo o per farci nei pressi magari qualche orto; serviva anche come ottimo ambiente per rane, girini, salamandre e bisce d’acqua e infine, naturalmente, per gli animali selvatici. Tutte cose che non erano di poco conto. Era un’acqua tuttavia che, scorrendo in fondo alle forre, non era possibile portarla con canali o tubazioni verso l’alto, dove stavano campi e casa, e nemmeno andarla a prendere con botti o altri recipienti perché non solo d’estate era scarsa, ma anche perché in genere per scendere nei borri non c’erano strade percorribili con carri e bestiame da tiro.
Non posso infine non far cenno all’acqua dei torrenti e all’attrazione che essa aveva per i ragazzi (e le ragazze naturalmente). Beati quei nostri compagni e compagne che vivevano in poderi lambiti dai torrenti che avevano acqua anche d’estate, ma nessuno di noi mancava alla fine della primavera alla scelta collettiva di un buzzico, una pozza sotto una cascata, alla sua ripulitura dai sassi e all’arginatura per aumentarne il livello dell’acqua. Quella sarebbe stata la nostra piscina per l’intera stagione calda, fino a quando la prima piena autunnale non l’avesse disfatta.
D’estate, chi poteva vi andava ogni giorno a fare il bagno e a stare al sole per lunghe chiacchierate e i primi amori; chi non poteva, come noi figli di contadini, ci andava di domenica.
So di averlo già detto da qualche parte, ma del buzzico (per lui “pozone”) e dei bagni estivi nei torrenti ne parla nei suoi scritti, con cognizione di causa e grande affetto, Francesco Guccini, anche lui, fra tante altre belle cose, uomo di torrente.