Sull’alluvione in Romagna, redazionale (n°264)
Mentre stiamo scrivendo, l’Emilia-Romagna è allagata. Già si contano più di dieci morti, e decine di migliaia di sfollati. I danni alle cose, inoltre, sono incalcolabili.
Diversi lettori, da fuori Bologna, ci telefonano per sapere come ce la stiamo passando (la nostra redazione, come molti di voi sanno, è a Bologna); altri, consapevoli che in genere pesiamo attentamente le parole e i giudizi, ci chiedono cosa pensiamo di ciò che sta accadendo.
Ai primi diremo che non ce la passiamo male. A Bologna, finora, non si sono registrati grandi danni. È esondato, per la seconda volta in pochi giorni, il torrente Ravone; ma quella, probabilmente, è una storia a sé: non è la prima volta che capita. E se, ovviamente, non è un caso che ciò sia avvenuto in coincidenza con il disastro che ha colpito altre parti della regione e, soprattutto, la Romagna, andrebbe trattata separatamente.
La diagnosi
A chi ci chiede che cosa pensiamo di ciò che sta accadendo è più difficile rispondere. È evidente che si tratta di una quantità di precipitazioni eccezionale, ed è probabile che sia in relazione con il cambiamento climatico in corso da diversi anni e in gran parte dovuto all’inquinamento prodotto da un modello di sviluppo ormai insostenibile. È tuttavia ragionevole pensare che al disastro abbiano contribuito anche la cementificazione del territorio, particolarmente intensa in Emilia-Romagna, e una carenza di manutenzione dei corsi d’acqua.
La superficie della regione, infatti, è in larga parte costituita da terreni depositati dai fiumi nel corso delle ere geologiche, e deve il suo aspetto attuale a secoli di interventi umani tesi a far defluire le acque verso il mare Adriatico senza generare ulteriori esondazioni. Senza di essi, la natura riprende i suoi spazi.
Che, con cadenza secolare, possano verificarsi precipitazioni eccezionali tali da mettere a dura prova ciò che il lavoro dell’uomo, nei secoli, ha pazientemente costruito è noto da tempo; come sono noti, ormai da tempo, gli effetti del cambiamento climatico in corso. È credibile che non si potesse evitare, o almeno contenere, il disastro?
Alcuni quotidiani, in questi giorni, accusano apertamente di imperizia e incapacità le autorità e, dato ciò che abbiamo premesso, è probabile che i fatti diano loro ragione.
Ma è certo che l’ignoranza e l’inseguimento del profitto a tutti i costi non abitano soltanto nei palazzi del potere.
Quante volte, nel corso degli ultimi decenni, abbiamo visto dei privati costruire abitazioni vicino agli alvei dei fiumi? Era così difficile capire che, prima o poi, quelle abitazioni sarebbero state travolte da una piena?
Quante volte, nel corso degli ultimi decenni, abbiamo visto dei privati costruire abitazioni su terreni franosi?
Del resto, in Italia, si costruisce addirittura sulle pendici dei vulcani…
«Le autorità lo dovrebbero impedire!»
Certamente. Ma la testa, per il momento, le autorità non ce l’hanno ancora tagliata. E sarebbe il caso di usarla.
La cementificazione del territorio è opera degli speculatori, che agiscono con il consenso degli amministratori della cosa pubblica. In particolare, negli ultimi anni, in Emilia-Romagna, abbiamo assistito a un proliferare di poli logistici. Questi poli servono soprattutto a distribuire prodotti inutili o provenienti da paesi lontani, con conseguente inquinamento del pianeta e relativi effetti sul clima. Ma chi acquista tali prodotti? Non sarebbe meglio cercare di evitare gli sprechi e privilegiare il consumo di prodotti locali?
La terapia
Sembra evidente che occorre, innanzitutto, fare il possibile per fermare il cambiamento climatico. Non è la prima volta che, nella storia della Terra, si verifica tale fenomeno. L’Italia era (moderatamente) popolata anche durante i periodi glaciali, e i nostri antenati hanno vissuto anche in periodi più caldi di quello che stiamo attraversando.
A questo proposito c’è chi sostiene che pure questa volta il cambiamento climatico sarebbe in gran parte dovuto, come quelli verificatisi nel passato, a cause naturali.
Lo riteniamo improbabile. Ma anche se così fosse, non sarebbe certo un buon motivo per aiutarlo.
C’è poi chi sostiene che, se il clima cambia (e il clima, in passato, è più volte cambiato) è sufficiente spostarsi in aree che, contemporaneamente, diventeranno più adatte alle attività umane.
Ciò sarebbe vero se fossimo, come siamo stati per decine di migliaia di anni, società di cacciatori e raccoglitori. Ma adesso siamo otto miliardi di individui e viviamo, necessariamente, in un mondo che abbiamo costruito, un mondo in gran parte artificiale. Ci vogliamo spostare tutti insieme, per ricostruirlo in altri luoghi?
Sarebbe folle.
Occorre poi fermare la cementificazione del suolo. Per ridurre il rischio di alluvioni, ma anche per garantirsi l’autosufficienza alimentare. O pensiamo, nei prossimo decenni, di poter mangiare il cemento?
Grande attenzione va poi posta alla manutenzione: alla manutenzione dei corsi d’acqua, che come si è detto è indispensabile, ma anche delle strade, delle ferrovie, delle funivie, dei ponti.
Sono decenni che in Italia si trascura la manutenzione. E recentemente abbiamo visto alluvioni, frane, binari aggiustati alla meno peggio, funivie messe in funzione con le sicure disinserite, ponti crollati.
Tutti vogliono far profitto e la manutenzione viene spesso vista come un costo inutile.