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Categoria: Ambiente
Creato Giovedì, 01 Febbraio 2024

Rosignano Industrie SolvayLa Toscana, di Rino Ermini (n°270)

Se si fa il nome della Toscana subito partono gli oh di meraviglia per la sua bellezza, le città d’arte, la cultura. Va detto però che non tutto riluce, che ci sono anche tante cose che non vanno bene e che spesso quel che appare lucente addirittura non è il meglio. 

Come dappertutto, si dirà; ma ciò non è un’attenuante. A volte qui è anche peggio rispetto ad altri luoghi, a cominciare da certe città o territori simbolo di questa Regione che se si guarda bene sono proprio questi ad avere i problemi più grossi. 

Ad esempio: quel che è toccato al Chianti o a Firenze negli ultimi cinquant’anni, in quanto a stravolgimenti e riduzione di tutto a merce e mercato libero, non è facile rintracciarlo da altre parti. Peraltro, bisogna precisarlo, senza più nemmeno l’alibi dei privilegi che per chi li ha sono già stratosferici e insuperabili, e non c’è bisogno di aumentarli, ma ai fini di un profitto e solo per questo, nel cui nome tutto è consentito; insomma il profitto per il profitto, sfuggito di mano anche a chi pensava di controllarlo, che vive come un dio a sé e ha reso schiavo anche chi pensava di esserne il padrone.

Partiamo dal corso d’acqua principale della Toscana e percorriamone in auto la valle a partire da pochi chilometri dopo la sorgente, là dove comincia a scorrere in piano e acquista le caratteristiche di fiume. Se lo seguiamo per gli oltre duecento chilometri della sua lunghezza da qui alla foce, lontano vedremo colline, montagnole e campagne, ma lungo le sue sponde è un susseguirsi di paesi e città, zone industriali, grandi rotonde, asfalto e cemento ovunque e, nel complesso, un’urbanizzazione senza soluzione di continuità che ha seguito le regole del massimo profitto e della totale ignoranza dei bisogni relativi alla salute umana e ambientale. E non si tratta di un territorio ristretto, ma di una fascia, a destra e a sinistra del fiume, la cui larghezza varia da un minimo di un chilometro o due nei punti più stretti della valle ad alcuni chilometri in quelli più larghi. Assumendo i duecento chilometri come misura del lato maggiore di un rettangolo e una media di due chilometri per il lato minore, viene fuori una superficie urbanizzata lungo l’Arno di quattrocento chilometri quadrati. È un calcolo fatto ad occhio, ma l’impressione è che per renderlo più preciso sarebbe necessario un aggiustamento in più e non in meno.

In Toscana ci sono anche i fiumi Tevere (nel suo tratto iniziale), Magra, Serchio, Ombrone Pistoiese, Bisenzio, Sieve ed Elsa che dal punto di vista della gestione del territorio possono vantare situazioni simili a quella dell’Arno. Se presi ciascuno a sé, si tratta di superfici tuttavia minori e con minore intensità abitativa, ma nel loro insieme il territorio devastato alla fine è comunque di notevole ampiezza. Chi ha visto ad esempio come era la Val d’Elsa cinquanta anni fa, a vederla ora, per di più con l’apertura della “superstrada” alternativa alla vecchia statale, non può non mettersi le mani nei capelli a vedere com’è stata ridotta: siamo di fronte a un chiaro segno di una politica che invece di puntare alla riduzione del traffico stradale e magari al potenziamento di una ferrovia locale già esistente e del trasporto pubblico in genere, ha l’obiettivo primario di favorire il capitale e il profitto di grandi aziende col costante bisogno di sbancare colline, aprire gallerie, realizzare rotonde quanto più mastodontiche possibile e spandere asfalto.

Ci sarebbe da prendere in considerazione poi la piana da Firenze a Viareggio, passando per Prato, Pistoia, Montecatini Terme e Lucca, una piana pressoché urbanizzata al completo. E non lasciamoci ingannare dal territorio pistoiese occupato intensivamente da serre e vivai, perché dal punto di vista ambientale, dato anche il largo uso di concimi e pesticidi che vi si fa, non si sa se sia peggio questa “falsa campagna” o un ammasso di abitazioni e centri commerciali.

È in questa zona che ha preso quota l’inondazione di inizi novembre 2023, in un territorio, soprattutto fra Firenze e Pistoia, che un tempo era palude, pascolo e campo e dove le acque del Bisenzio, del  Marina, dell’Agna, e dell’Ombrone pistoiese nel caso di piene si distendevano senza fare danno. E mettiamo pure nel conto che, oltre a non far danno, costituivano un habitat ideale per gli uccelli migratori, di palude e non, e per la fauna ittica che viveva negli specchi d’acqua permanenti, residuo di alluvioni, o nei fossi di scolo delle acque verso l’Arno. Qui ora ci passano ferrovie, strade e autostrade, c’è un aeroporto, città e paesi si sono allargati senza limiti, e fra l’uno e l’altro, da Firenze al mare, non c’è soluzione di continuità. I fiumi, alla fine più torrenti che fiumi, sono incassati in argini artificiali che non servono a nulla perché quando piove a bomba, come sta piovendo negli ultimi anni, l’acqua quegli argini li rompe o li scavalca e manda tutto a ramengo. E chi ha fatto denaro devastando è pronto a ricostruire e levare il fango (ma dove lo portano il fango?) per fare altro denaro e attendere la prossima piena. Tra Firenze e Viareggio, il regime fascista costruì una delle prime autostrade per consentire ai borghesi fiorentini già in possesso di un’automobile, di andare a passare in Versilia i fine settimana. Oggi ci potrebbero andare saltando da un tetto all’altro perché fra il capoluogo Toscano e il mare non c’è più un pezzo di campagna libero.

C’è appunto anche la Versilia, che va da Sarzana, ultima propaggine ligure, a Pisa, fatta eccezione per la pineta di San Rossore, rimasta libera perché un tempo riserva di caccia dei Savoia e poi Parco sotto tutela. È questo della Versilia un territorio a forte vocazione turistica e industriale, industria  soprattutto del marmo e della chimica. La chimica forse non ha più l’impatto di un tempo, ma il marmo è lì, nella piana costiera di Massa e di Carrara, che lo si lavora. A tacer delle cave che stanno alle spalle della piana, nelle Apuane, e che meriterebbero un discorso a parte riguardo a inquinamento, distruzione del paesaggio e sicurezza sul lavoro.

Infine c’è la costa tirrenica, dalla foce dell’Arno all’estremo limite della Maremma toscana, pesantemente impegnata dal punto di vista urbanistico, innanzitutto per le attività turistiche: balneazione, fine settimana e vacanze estive, seconde case. Ma non è solo turismo: basti pensare alla presenza della Solvay a Rosignano Marittimo, alle acciaierie di Piombino, all’industria estrattiva negli entroterra volterrano, campigliese e grossetano.  E non dimentichiamoci Livorno, una città a cui per diverse ragioni non si può non voler bene, ma riguardo all’urbanistica e al suo “assetto” complessivo, dati in particolare il porto, gli scali ferroviari e soprattutto l’immediato entroterra a destra e a sinistra della tangenziale, lascia alquanto a desiderare.

Vogliamo dir male anche di Arezzo e Siena? Purtroppo non è difficile. I centri storici di queste due città sono scrigni di grandi opere d’arte e monumenti, ma le periferie e i dintorni non si può non qualificarli altro che come un misto di campagne devastate e di speculazione. Basta percorrere i venti chilometri di strada fra l’uscita di Arezzo della A1 e la città per rendersi conto di che cosa stiamo parlando.

Se si parla di Toscana non si può non parlare di campagna. In primo luogo del Chianti: regione storica simbolica e di grande importanza.

Speculazione: le case dei contadini, andati a Firenze decenni fa a fare gli operai, sono ridotte a ville dove soggiorna gente ricchissima proveniente dall’America e dall’Inghilterra in primo luogo. Interi paesaggi storici, per intenderci quelli della mezzadria e dei campi a terrazze con muri a secco e colture miste, sono stati totalmente distrutti per ricavarne terreni di pendenza adatta ai trattori e lasciare spazio a vigne su vigne, vastissime e super specializzate, dove con poca manodopera, molte macchine, molti anticrittogamici, concimi e pesticidi si fa il famoso vino. Il profitto realizzato va nelle tasche di grossi capitalisti. Non c’è nemmeno quella parvenza di suddivisione che vi poteva essere un tempo fra proprietario, addetti alle fattorie, coloni e artigianato locale, quando qualcosa rimaneva sul posto o al massimo andava a Firenze. In compenso ora abbiamo ville super fortificate e inaccessibili per primi ministri inglesi, re e regine, attori famosi, stilisti, tutta gente che col Chianti non ha nulla a che vedere. Al punto che questa terra è divenuta luogo di soddisfazione per una classe che considera se stessa eletta mentre i comuni mortali ci transitano da una città all’altra, possono sbavare, se vogliono o se son portati, guardando le grandi ville o castelli, ma devono tirare diritto. Il Chianti non è più nostro. Dico nostro non nel senso leghista, ma nostro della gente comune, venga essa da Gaiole, da Nonantola, da Sarlat La Caneda, da Muros o dal Senegal.

Ma l’esempio primo ed il più eclatante è Firenze. Tutto ciò che vi si fa è in mano all’imprenditoria turistica e al capitalismo finanziario. La città non è più di chi vi abitava un tempo, o che vi abita ancora sia pur nelle periferie anonime ed inquinate da smog e da rumore. Non c’è più artigianato locale come fino a cinquanta anni fa. La bellezza di città come Firenze, Pisa, Siena, Arezzo, Lucca, ma sopratutto Firenze, è scomparsa sotto una marea di gente anonima che viene incanalata qui, si guarda poco in giro, non ci capisce quasi niente, spende, quel che può, risale sugli autobus con cui è stata trasportata e se ne va, trasportata altrove. Potranno dire di essere stati a Firenze, di aver bevuto il Chianti nella bottega di lusso? Mah, che ne sanno di Chianti e di botteghe?

Firenze è diventata una città dove in certi mesi dell’anno nemmeno ci si può camminare. E nelle immediate vicinanze del centro storico il traffico e l’inquinamento, per chi ci vive, sono letteralmente infernali. Perché il centro storico deve essere libero per le folle di turisti. Certo che il centro storico dovrebbe essere libero, ma in sintonia con la vita di chi sta nelle periferie. Per viverci, non per transitarci. Non per essere una vetrina, peraltro ormai di dubbio gusto. Palazzo Vecchio o il battistero o la cattedrale avevano un senso quando per le vie di Firenze c’erano botteghe di artigianato vero e normali negozi, quando la gente che camminava per le vie erano fiorentini misti a gente che veniva da tutto il mondo e nessuno dava noia all’altro e quasi non t’accorgevi della differenza. Oggi non è più così.

E quindi, alla fine? 

Di chi è la responsabilità?

È di chi non ha posto limiti alla propria ingordigia di profitto, ha sfruttato la bellezza e l’arte come se fossero cose sue, ha su di esse agito col consumismo più sfrenato pur di fare montagne di denaro. 

A tutto è stato applicato il concetto del bene pubblico come cosa che se non fa profitto non serve a niente. E tutto è stato pensato e costruito per portare in queste città centinaia di milioni di persone ogni anno senza alcun limite. Con l’idea errata che il Ponte Vecchio e il David di Michelangelo non si consumano e sia le singole opere che la città nel suo insieme non subiscono danni o, se al limite ne su biscono, intanto noi facciamo i miliardi e chi verrà in futuro, anzi l’umanità intera, s’arrangerà.

Ma anche la gente di ora s’arrangi. Dove sono finiti i contadini che vivevano in Chianti fino a cinquanta anni fa e che per generazioni vi avevano vissuto? Dove sono finite le migliaia di famiglie di artigiani che vivevano nei quartieri popolari di Firenze? Quartieri dove le case, un tempo di povera gente, oggi si pagano a peso di oro e sono state acquistate per venirci a passare il fine settimana una volta al mese o anche meno. Per chi volete che sia l’aeroporto che il ras di Rignano sull’Arno vuole costruire a Firenze ampliando quello che già c’è? E per chi volete che sia il tunnel dell’Alta Velocità che zitti zitti hanno scavato sotto Firenze. Non bastavano le linee e le stazioni di superficie? Con il passaggio sotterraneo si guadagnano quindici minuti in direzione di Roma. Se questa non è follia, che cosa è? Sono le solite “grandi opere” che non servono alla gente ma a chi le costruisce per incassare montagne di miliardi in combutta con le cosche politiche ed il capitale finanziario, cioè le banche.

Come si chiamava una volta questo connubio? Si chiamava mafia, che era sinonimo di crimine. Ora se la chiami mafia ti ridono in faccia. E hanno ragione perché è solo normalità, si chiama capitalismo, da tutti accettato ed osannato.

 

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