Il rapporto Istat sul 2009: considerazioni di un sindacalista, di Stefano d’Errico (n°127)
La crescita degli “inattivi”
Su 100 lavoratori “atipici”, dopo un anno solo 77 restano occupati, 8 sono disoccupati e 15 non cercano neppure più un lavoro (sono segnalati fra gli “inattivi”). I dati del 2008 parlavano di 5 disoccupati e 11 “inattivi”. Solo la cassa integrazione nell’industria (206mila persone), al 4,1%, è inferiore al resto della UE (6,6%). Alla fine del 2009 i disoccupati erano poco meno di due milioni (limite già superato nell’anno in corso): 253mila in più, per il 90% ex-occupati. Questi oggi rappresentano la metà del totale, “relegando in secondo piano le componenti storiche della disoccupazione italiana, cioè i giovani e le donne senza esperienze lavorative pregresse” (1). É uno dei dati distintivi di una crisi dura.
Il tasso di disoccupazione italiano, al 7,8% (+1,2%) è più basso di quello medio europeo (8,9%), ma abbiamo un livello di inattività molto più alto ed ancora in crescita: il 37,6 contro il 28,9% della UE. Ed attenzione, la causa: “non è il miglioramento della condizione femminile, quanto il deterioramento di quella maschile” (2). La popolazione giovanile disoccupata tra i 15 ed i 24 anni tocca il 25,4%: 450.000 unità. Sono due milioni i giovani che non studiano e non lavorano. In totale, gli inattivi “che non cercano lavoro e non sono disponibili a lavorare” (3) sono circa 12 milioni. Poi ci sono altre 3 milioni di persone che “manifestano una qualche forma di partecipazione, seppure di debole intensità, configurando la cosiddetta ‘zona grigia’ dell’inattività” (4). L’analisi delle interconnessioni è impietosa: “La crescita del numero degli inattivi nel 2009 (+329.000) è la sintesi di una riduzione di chi appartiene alla ‘zona grigia’ (-39.000 unità) e un forte aumento (368.000 unità) del numero di coloro i quali, di fronte alle crescenti difficoltà di trovare un impiego, rinunciano a cercarlo. Il fenomeno, diffuso in tutto il territorio nazionale, è particolarmente preoccupante nel Mezzogiorno, dove sono le donne a ritrarsi maggiormente dal mercato del lavoro. Tra l’inizio del 2008 e lo stesso periodo del 2009, la quota di chi si sposta dalla disoccupazione all’inattività cresce sensibilmente (dal 35,3 al 38,4%). Peraltro, quanto più si protrae la durata della ricerca di un’occupazione, tanto più è alta la probabilità di diventare inattivi: chi cerca lavoro da meno di sei mesi ha il 30% di probabilità di transitare nell’inattività; chi lo cerca da 7 ad 11 mesi ne ha una del 39% (era il 35% un anno prima). Infine, essere disoccupato da 12 mesi e più comporta una probabilità di passare all’inattività pari al 44% (sette punti in più del-l’anno prima)” (5).
La mano d’opera immigrata
Per i lavoratori stranieri, il livello di disoccupazione sale all’11,2% (2,4 punti percentuali di crescita in più rispetto agli autoctoni) e scema maggiormente ancora l’occupazione qualificata: “Per gli italiani, alla forte diminuzione del numero degli occupati (-527.000) si è accompagnato l’aumento dei disoccupati (176.000 in più) e degli inattivi (373.000 in più), dei quali 223.000 in età lavorativa). Per gli stranieri, l’aumento della disoccupazione (+ 77mila) e dell’inattività (+ 113mila) è avvenuto in presenza di un aumento dell’occupazione (+147mila), concentrata nelle professioni non qualificate e in quelle operaie, dove la presenza di stranieri era già alta” (6). È perciò innegabile che gli immigrati continuino “a rispondere alla domanda di lavoro non soddisfatta dalla manodopera locale” (7). Ciò che a metà di loro offre l’Italia è un posto da collaboratrice domestica, pulitore o pulitrice, cameriera, inserviente di ospedale e commessa.
La questione di genere
In quanto alle donne italiane (15-64 anni d’età), invertendo la tendenza a salire (giustificata anche da una percentuale molto bassa di partenza), il tasso d’occupazione scende al 46%, contro una media UE del 58,6. In questo caso, quindi, la criticità storica s’accentua pesantemente, divenendo devastante al Sud, ove l’occupazione femminile s’attesta al 30,6% (contro il 57,3 del Nord-Est) e si concentra quasi la metà (-105.000) del calo complessivo delle occupate. Qui è inserito solo il 20% delle non diplomate.
In ambito complessivo, in Italia le laureate raggiungevano livelli europei, ma oggi le più giovani fra loro hanno sempre meno sbocchi: eravamo già fra gli ultimi ma, mentre prima si cresceva, adesso si regredisce.
Considerando la classe d’età 25-54, rispetto alle donne senza figli, per quelle che ne hanno uno si riscontra un tasso d’occupazione inferiore del 4%; se ne hanno due il tasso scende a -10; con tre a -22. Eppure questo è il Paese dove si consuma più retorica sulla famiglia. Tutti battono la grancassa ma, nonostante la DC ed il Vaticano, l’UDC ed il PDL (o i cattolici del PD), alla retorica moralista e familista contro la pillola del giorno dopo ed ai proclami elettorali non hanno mai fatto seguito provvedimenti adeguati ad una politica demografica, neppure di fronte alla crescita zero. Né in ordine ai servizi o alla spesa per gli asili nido pubblici (o aziendali), né con riferimento alle detassazioni ed agli aiuti. Oggi come ieri, è meglio (per tutti) favorire gli evasori fiscali.
La disoccupazione come massacro generazionale
Se la cassa integrazione interviene sulle famiglie operaie, non influisce invece sulla fascia giovanile dai 18 ai 29 anni: su questi 7,8 milioni di persone (13,1% della popolazione) si concentra fatalmente il massimo della pressione.
Fra i giovani, gli studenti sono 2,5 milioni (e gli studenti-lavoratori 287.000), gli occupati sono 3,4 milioni (ma con contratti prevalentemente a rischio) ed 1,9 milioni non sono né l’uno, né l’altro. Fra i giovani, i nuovi disoccupati raggiungono le 300.000 unità (il 79% del totale dei nuovi senza lavoro). “Inoltre, si rileva un allargamento dell’area dei non impegnati né in un lavoro, né in un percorso di studio (+142.000) e degli studenti (+83.000), cui si aggiungono altri 47 mila giovani che, precedentemente in posizione di studenti-lavoratori, prolungano gli studi, presumibilmente in ragione delle ridotte prospettive occupazionali. Il tasso di occupazione giovanile è così sceso al 44 per cento, con una caduta tre volte superiore a quella subita dal tasso di occupazione totale. La crisi ha anche accentuato la riduzione dell’occupazione dei giovani con basso titolo di studio, peggiorato la condizione di quelli in possesso di un diploma di scuola media superiore e compresso lo sviluppo occupazionale di chi possedeva un livello di istruzione più elevato. Il 30 per cento della popolazione 18-19enne ha un lavoro atipico (a fronte dell’otto per cento della restante parte della popolazione) ed è in questo segmento che si è concentrato il calo dell’occupazione (-110 mila persone), contribuendo per il 37 per cento alla flessione occupazionale giovanile rilevata nel 2009. Se, per ogni 100 giovani occupati nel primo trimestre 2008, a distanza di un anno 15 sono transitati nella condizione di non occupato (erano 10 un anno prima), tra i giovani collaboratori questa percentuale sale a 27” (8). Il termine eufemistico “collaboratori” nasconde naturalmente i vari “cococo” e “cocopro” ed i contratti a “progetto”, introdotti in maniera “bipartizan” negli ultimi vent’anni.
Se un figlio porta a casa il 28,3% del reddito famigliare, lo stipendio medio di un padre vale il 50,6% (quello della madre è pari al 37,1%). La cassa integrazione ha operato soprattutto per i padri (58,3%), “coprendo” i figli per appena il 16%. Ma i genitori sono solo 98.000 unità fra i perdenti posto. Tutto ciò segna un profondo divario generazionale.
Potere d’acquisto, consumi, risparmio, inflazione
Meno occupazione e meno reddito da stipendi fanno registrare per il lavoro dipendente e per le famiglie un calo del potere d’acquisto che, sceso dello 0,9% nel 2008, si riduce di un ulteriore 2,5. Se si fa lo statistico (ma scorretto) calcolo dei polli, si scopre una perdita secca di 360 euro per abitante. “Se si considera, invece, l’andamento del reddito medio familiare, tenuto conto del fatto che il numero di famiglie è cresciuto più rapidamente della popolazione (+12 per cento), tra il 2000 e il 2009 la riduzione è del 7,7 per cento” (9). La contrazione dei consumi è stata dello 0,8% nel 2008 e dell’1,8% nel 2009. La frenata sarà ancora più consistente per effetto della manovra economica varata a giugno 2010, a causa del blocco dei salari e del contenimento della spesa pubblica.
Di concerto, il risparmio s’è attestato all’11,1%: valore più basso dal 1990.
Dopo essere scesa nei primi sette mesi del 2009 “per effetto del calo della componente energetica” (10), per la dinamica inversa l’inflazione risale (+ 1,5% ad aprile 2009).
La disoccupazione come massacro di classe
Le unità di lavoro dipendente sono diminuite del 2,7%, il calo “più rilevante dall’inizio degli anni Settanta” (11) .
Le dinamiche relative all’allargamento della discriminazione di classe ci sono tutte: i padri usciti dal ciclo produttivo risultano essere per il 29% provenienti dai settori in assoluto più poveri ed il 28,4% dal secondo quinto più disagiato della distribuzione del reddito “con una forte concentrazione (67,6%) tra le famiglie di estrazione operaia. Se, quindi, la perdita del lavoro di un figlio ha avuto effetti minori sulla condizione economica delle famiglie, quella del padre ha colpito in maggioranza famiglie già vulnerabili” (12). In sostanza, la scure della perdita d’occupazione del capofamiglia ha colpito per il 72% nuclei già deprivati: per il 25,5% famiglie con 5 componenti; per il 25,3% del Sud; per il 29,4% con 3 o più minori; per il 31,4% nuclei in affitto. Quello che viene definito “indicatore sintetico della deprivazione”, basato sulla quota di famiglie che presentano 3 o più categorie di deprivazione su 9, è rimasto stabile (e concentrato sugli stessi ceti) fra gli inizi del 2008 e quelli del 2009. È ancora una volta toccato alla famiglia (senza altro aiuto che la cassa integrazione) svolgere “il consueto ruolo di ammortizzatore sociale” (13).
Le infrastrutture
Per il 2008-2009, nelle infrastrutture l’Italia è al 54° posto sui 154 paesi selezionati dal World Economic Forum, piombando al 73° posto in relazione alla qualità. Germania e Francia sono invece al 3° e 4° posto. Senza enfatizzare l’importanza macroeconomica della cosa, tutta interna alle compatibilità della competizione mercantile e della globalizzazione, il dato ha una sua ben precisa rilevanza in ordine alla posizione dell’Italia sullo scacchiere internazionale.
Le età dello squilibrio
Da essere il Paese più giovane del mondo (1968) (14), siamo ormai quasi il più anziano d’Europa (in questa particolare classifica ci sopravanza solo la Germania): “L’Italia presenta un forte squilibrio generazionale: il rapporto di dipendenza tra le persone in età non attiva (0-14 anni e 65 anni e più) e quelle che ‘teoricamente’ si fanno carico di sostenerle economicamente (15-64 anni) è passato dal 48 al 52% in 10 anni, per effetto del peso crescente delle persone anziane (da 27 per ogni 100 in età attiva nel 2000 a 31 nel 2009). Il rapporto tra le persone di 65 anni e più e quelle in età 0-14 (indice di vecchiaia) è di 144. Era 127 nel 2000. L’attuale ripresa della fecondità (1,41 figli per donna), in atto dalla metà degli anni ’90, è da ascrivere principalmente alla popolazione straniera e comunque non permette di mantenere gli attuali livelli di popolazione. Quindi, lo squilibrio generazionale è destinato ad accentuarsi, raggiungendo, a metà di questo secolo, i valori di 61 per l’indice di dipendenza degli anziani (9 punti in più dell’attuale) e di 256 per l’indice di vecchiaia (112 punti in più)” (15).
“Istruzione” ed ignoranza endemica
Gli indici di istruzione sono molto bassi: fra gli adulti (25-64 anni) il 46,1% ha al massimo la licenza media (nella UE il dato medio è del 28,5%). Su 100 diciannovenni, 74 hanno conseguito un titolo superiore nell’anno scolastico 2007-2008 (36 in più rispetto a 30 anni fa). Però, fra gli iscritti alla Secondaria Superiore, nell’anno scolastico 2008-2009 il 7,7% ha ripetuto l’anno: il 10,3% di quelli del primo anno, e di questi il 12,2% ha abbandonato gli studi; un ulteriore 3,4% ha chiuso col percorso formativo alla fine del secondo anno. “L’Italia si distingue negativamente nel contesto europeo anche per la quota di early school leavers, cioè i giovani di 18-24 anni che hanno abbandonato gli studi senza aver conseguito un diploma di scuola superiore: sono il 19,2 % nel 2009, oltre 4 punti percentuali in più della media europea e nove punti al di sopra dell’obiettivo fissato dalla strategia di Lisbona e riproposto da Europa 2020” (16) .
Le diseguaglianze sociali sono state annullate solo per la licenza media: il tasso di promozione nei Licei è del 95%; nei Professionali del 30%. Nel 2008 solo il 63% dei diplomati s’è iscritto all’Università. Il 17,6% abbandona poi il corso di laurea fra il primo ed il secondo anno. Il tasso d’abbandono s’è ridotto con le lauree brevi (nel 2000 era del 21,3%), ma se i laureati sono oggi il 34,3% dei venticinquenni (2008), contro il 19,8% del 2000, il numero di quanti hanno conseguito lauree di durata da 4 a 6 anni e specialistiche biennali s’è ridotto al 18,2%. “Nel 2009, in termini di stock, i laureati sono solo il 21,6% dei giovani tra i 25 e i 29 anni, valore piuttosto lontano dalla quota del 40% proposta da Europa 2020” (17) .
Ma il Paese registra anche uno dei livelli più bassi nella formazione continua degli adulti: solo il 22,2% della grande popolazione in età lavorativa, fra i 25 ed i 64 anni, s’è impegnato in almeno una attività di studio o formazione (media UE 36 %). “La carenza di formazione colpisce soprattutto i disocupati (16,9%), gli inattivi (11,4 %), le persone delle classi d’età più avanzate (11,8% tra i 55-64enni) e i possessori di basso titolo di studio (8,2%), alimentando un circolo vizioso: infatti, chi è già svantaggiato dal punto di vista dell’istruzione scolastica non recupera il divario, che anzi si aggrava a causa di un minore accesso alla formazione continua” (18).
A complicare ulteriormente le cose, si registra l’accettazione acritica e supina delle indagini “Pisa” (19), con formulari e prove (pedissequamente copiate anche per le rilevazioni “domestiche” dall’istituto italiano di valutazione INVALSI) “tarate” su sistemi di istruzione che in media sono meno approfonditi del nostro specialmente nelle lettere e nei programmi di storia e geografia (copiati pedissequamente per realizzare quel minimalismo culturale all’americana quanto mai propedeutico alla ristrutturazione capitalistica). Così, se nella scuola Primaria (singolarmente attaccata fortemente dalle riforme “bipartizan” dal 1990 in poi) del periodo ante-Gelmini eravamo ancora in buona posizione (sesti secondo l’OCSE, dopo aver primeggiato appunto sino al ‘90), negli altri ordini e gradi si riscontrano dati impressionanti, con una caduta verticale dal 2000 al 2006. Gli studenti quindicenni, secondo le prove di lettura (469 punti contro 492), non meno che in quelle di matematica e scienze, si collocano sempre sotto i valori medi dei 30 paesi OCSE. Fa registrare competenze totalmente inadeguate il 26,4%, contro il 15,1 obiettivo della strategia di Lisbona varata nel 2000.
Nell’utilizzazione delle nuove tecnologie, si riscontra un’altra vera e propria selezione di classe indotta prevalentemente dallo status d’origine (causa carenze strutturali nelle dotazioni delle scuole): se non usa il computer solo il 20% dei figli di dirigenti, imprenditori e professionisti, la percentuale sale al 35% per la prole operaia.
In quanto agli adulti, siamo semplicemente fuori dall’Europa: nel 2003 circa il 50% dei soggetti fra 16 e 65 anni ha conseguito il punteggio più basso nelle capacità letterarie ed oltre il 70% presentava bassissimi livelli di competenza numerica e documentaria, e senza che i risultati fossero correlati al numero degli anni di studio (20).
Esclusi e sottoutilizzati
Essendo questi i dati ufficiali, in un paese subnormale come il nostro si sprecano anche le competenze acquisite. È enorme il bacino dei sottoutilizzati e sottoinquadrati: sono 2 milioni fra i lavoratori dai 15 ai 34 anni (+200.000 rispetto al 2004), passati da poco dalla scuola al mondo produttivo, con un livello di istruzione medio-alto ma spesso con contratto a termine. L’alta incidenza di giovani nel part-time e nelle “collaborazioni” unisce il disagio del precariato ad un’infima qualità del lavoro, assolutamente non adeguata alle aspettative. Un altro gruppo di sottoinquadrati, dai 35 anni in su, raccoglie 2,6 milioni di persone (+950.000 rispetto al 2004) – in maggioranza uomini – inserite da molto tempo ma con scarsissime possibilità di miglioramento. Il totale fa 4,6 milioni: risorse umane sprecate e demotivate, con “una remunerazione decisamente più bassa rispetto a quella potenziale” (21).
Ed il resto della massa giovanile? Nel 2009, più di 2 milioni di giovani (il 21,2% della popolazione tra 15 e 29 anni) semplicemente non lavora e non studia. Sono il 65,8% dell’area dell’inattività: ancora una volta il record UE! Un “primato” che si consolida: “cresciuto molto nel 2009: nel complesso 126.000 giovani in più, concentrati al Nord (+85.000) e al Centro (+ 27.000), ancorché la stragrande maggioranza dei Neet [22] (oltre un milione) sia residente nel Mezzogiorno (+14.000)”(23). Questa massa si ingrossa grazie ai licenziamenti. Sono i nuovi arrivi nel mondo dell’esclusione sociale: “Infatti, quanto più si protrae la permanenza in questo stato, tanto più difficile si dimostra il successivo inserimento nel mercato del lavoro o nel sistema formativo. Tra il primo trimestre del 2008 e il corrispondente periodo del 2009 la probabilità di permanere nella condizione di Neet è stata del 73,3% (l’anno precedente era il 68,6%), con valori più elevati per i maschi e per i residenti al Nord. Alla più elevata permanenza nello stato di Neet si accompagna anche un incremento del flusso in entrata in questa condizione degli studenti non occupati (dal 19,9 al 21,4%) e una diminuzione delle uscite verso l’occupazione” (24).
Due riflessioni
Innanzitutto, se pure solo l’1% della massa dei Neet (anche unicamente al Sud) fosse, come ovvio, inserita quale manovalanza nella criminalità organizzata, avremmo a che fare con una struttura operativa di 10.000 persone. Ma sappiamo bene che da queste fasce sociali le mafie pescano in maniera ben più consistente, ed in tutto il Paese. Possiamo quindi agevolmente ipotizzare un 10% almeno di reclutati dalla delinquenza autoctona, pari a 200.000 persone: ormai più degli effettivi dell’esercito (professionale) italiano. Un bel problemino, rispetto ai paesi “di testa” del resto d’Europa.
Secondariamente, sono gli stessi dati statistici a confermarci come il “fenomeno” sia equamente distribuito in tutta la penisola e come la recessione sociale sia distribuita in modo del tutto uniforme. L’elemento più significativo è infatti l’enorme aumento del dato al Nord ed al Centro: in precedenza i Neet si concentravano per almeno il 70% nel Meridione. Stessa cosa dicasi per i livelli medi di istruzione: le percentuali più forti di abbandono, mortalità scolastica, evasione dell’obbligo (peraltro il più basso d’Europa) ed analfabetismo (non più solo “di ritorno”) si concentrano oggi nel “mitico” Nord-Est. Recessione sociale a parte, per la prima volta nella nostra storia l’incultura è divenuta un “valore premiale”, da “esibirsi” senza problemi.
I giovani: assorbimento in una strategia di annichilimento e timide prove d’autonomia
Tempi e modalità di transizione alla vita adulta risultano pesantemente condizionati dalle difficoltà d’impiego e dal costo della vita. Queste, nonostante le boutade di cattivo gusto sui “bamboccioni” dell’ex ministro Padoa Schioppa, paiono sempre meno frutto di scelte individuali: “La quota dei 18-34enni celibi e nubili che vive in famiglia è cresciuta tra il 1983 (quando erano meno della metà del totale) e il 2000 (60,2%), per poi restare abbastanza stabile. Si tratta, oggi, di sette milioni di giovani. Tra i 30-34enni quasi un terzo risiede ancora in famiglia, una quota triplicata dal 1983” (25).
La vergognosa speculazione operata alla luce del sole al momento del passaggio dalla lira all’euro, determinata dalla connivenza del governo dell’epoca (Berlusconi) che non controllò minimamente la transazione dei prezzi, ha dato l’ultimo colpo ad una generazione cresciuta al netto dei valori della politica e delle ideologie, il cui spirito d’intraprendenza e d’autonomia era già stato ridotto ai minimi termini dalla sub-cultura della passività sociale, di un individualismo sciocco coltivato dal mito del successo facile, dell’appagamento e del consumo dozzinale, costruito sulle ceneri della partecipazione, della tensione al cambiamento, del sentimento collettivo e della solidarietà sociale. Solo questo passaggio da minculpop televisivo ha reso possibile una così grande fascia di interdizione giovanile, ché in altri tempi sarebbe stato ben più complicato per il “sistema” tenere a freno un’area tanto vasta di disagio sociale (‘68 e – soprattutto – ’77 docet)... Ciò nonostante: “I giovani si trovano, (...) a vivere in un ruolo di dipendenza ‘di lunga durata’, ma proprio in concomitanza con la crisi economica, e nonostante quest’ultima, cominciano a manifestare segnali di insofferenza. I 18-34enni, infatti, indicano la scelta di restare nella famiglia solo come terza motivazione, dopo i problemi economici e la necessità di proseguire gli studi. Tra il 2003 e il 2009 la quota di chi resta in famiglia per scelta scende di ben nove punti, soprattutto nelle zone più ricche del Paese, dove questo comportamento era maggiormente presente. Il Nord, peraltro, è anche la zona con la più alta quota di occupati, ma dove maggiore è stato il calo dell’occupazione proprio tra i figli che coabitano con almeno un genitore. Il cambiamento motivazionale dei giovani appare particolarmente forte: esso richiede, quindi, particolare attenzione, tanto più che proprio in un momento di crisi ci si potrebbe aspettare una maggiore cautela nelle intenzioni di uscita. Invece, la percentuale dei giovani che dichiara di voler uscire dalla famiglia di origine nei prossimi tre anni cresce dal 45,1% del 2003 al 51,9% del 2009, aumentando di più tra i 20-29enni che tra i 30-34enni” (26). Questo cambio motivazionale, soprattutto perché espresso dai più giovani, è un segnale molto importante. Legato com’è alla questione esistenziale e dell’autonomia (contro la dipendenza famigliare) potrebbe anche anticipare un movimento di contestazione.
“Eco-incompatibilità”
Nel 2006 l’Italia aveva contribuito per il 13% alle emissioni della UE a 15 Paesi. Che la crisi sia davvero forte lo dimostra un dato singolare per un Paese che ha sottoscritto il protocollo di Kyoto ma non s’è certo impegnato per rispettarlo: ha fatto abbassare persino i gas-serra (-9%).
Eppure, a livello strutturale, solo la chimica ha ridotto le emissioni (dal 7% del 1990, al 3,7% del 2008). Dal 1995 la disponibilità interna lorda di energia del Paese è aumentata sino al 2005, per poi calare soprattutto negli anni 2008-2009: “La riduzione di impieghi energetici nel 2009 ha interessato soprattutto il settore industriale (-19,6%). Nel settore degli usi civili, in cui sono contabilizzati i consumi energetici del settore domestico, del commercio, dei servizi e della pubblica amministrazione, i consumi sono invece aumentati del 3,5%, dopo la crescita del 4,8% registrata nel 2008” (27). Sul gas naturale i consumi flettono del 2,8%, ma è l’industria a diminuirne il consumo (-15%), a fronte di un incremento dell’uso civile (+ 4,6%).
A parte l’idroelettrico, l’uso delle “fonti rinnovabili” cresce (+20,5%) in Italia soprattutto per legna e biodiesel. Cionondimeno: “Per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili l’Italia presenta valori superiori alla media UE fino al 2005, mentre successivamente si assiste a un’inversione di tendenza, cosicché nel 2007 la loro quota rispetto al consumo interno lordo è scesa al 13,7%, a fronte di un valore del 15,6% nell’Unione Europea” (28). Fra le fonti rinnovabili (termine improprio per un grande calderone), le biomasse incidono per l’11,5%, eolico e fotovoltaico insieme per il 10,1 %, il geotermico per l’8%. In realtà, eolico, biomasse e fotovoltaico aumentano in modo ridicolo sul 2008 (+1,1% in totale) ed il geotermico addirittura solo dello 0,1%. Utilizziamo molto meno della metà dell’energia solare che producono gli scandinavi, eppure il clima del nostro Paese sarebbe molto più confacente. Spendendo la metà di quanto hanno investito sinora i tedeschi, potremmo coprire col fotovoltaico il 20% del fabbisogno nazionale.
In ogni caso, l’intensità energetica italiana (150,3 tonnellate equivalenti di petrolio) è inferiore alla media europea (169 tep). Ed il petrolio (-3,4% nel 2008 e –5,5% nel 2009) la fa ancora da padrone (come i petrolieri), incidendo per il 50% del consumo.
Conclusioni “patriottiche”
La scusa addotta in ogni paese d’Europa per la novella macelleria sociale è sempre la stessa: la crisi (come se poi l’avessero determinata i lavoratori ed i risparmiatori “primari” e non gli
speculatori ed i governi che li hanno promossi e protetti). Ma anche stando al “gioco”, la propaganda berlusconiana non regge. È vero che le crisi precedenti (petrolifere: 1975 e 1982-83; quella che portò la lira fuori dal serpente monetario europeo: 1992-93; quella successiva all’attacco alle torri gemelle: 2002-03) furono “non comparabili per intensità” (29). Ciò nonostante la congiuntura italiana “è risultata la peggiore tra i 27 paesi dell’Unione oltre che rispetto a Stati Uniti e Giappone” (30). Si riscontrano 36 trimestralità di recessione: nessun paese ha varcato i limiti tracciati da Francia (13 trimestralità) e Gran Bretagna (16). Inoltre, se il risparmio è sceso al livello del 1990, significa che in due anni di crisi sono stati bruciati gli accantonamenti di vent’anni! D’altra parte, non sono i governi, bensì è il risparmio che (ancora) ci “salva”. L’Italia, differentemente dalla Grecia, “gode” di un indebitamento prevalentemente interno. Ma l’attacco al risparmio è l’indicatore più congruo del livello di una recessione sociale “guidata” che mira ad assorbire la particolarità italiana: un risparmio che vale due volte il PIL e che, nel condiviso e “bipartizan” impianto liberista, fa molto gola agli speculatori nazionali ed all’impianto di Maastricht (che ha messo l’economia UE nelle mani delle agenzie private di rating). L’imperativo è davvero uno solo: fagocitare completamente il bene pubblico (facendone business privato) asserendo che diversamente non si può a causa della crisi e livellare gli standard di vita al minimo comunitario, in stile anglo-sassone (business sui fondi pensione, 15% di proprietari di case contro il nostro 77%, lavoro precario a vita…). Potremmo quindi concludere che siamo giunti alla fase finale e che l’attacco è anche contro il ceto medio (che si sta scavando la fossa da solo) (31). Dalla guerra permanente (32) siamo passati alla crisi permanente.
Anche il PIL è tornato ai livelli del 2000, ma il reddito delle famiglie è regredito ancora di più. L’occupazione è scesa ai livelli del 2005 (800.000 unità in meno rispetto al massimo storico del marzo del 2008), con una crescita imponente del tasso di inattività.
A fronte di questa situazione, Berlusconi e Tremonti hanno dichiarato per due anni di fila che la crisi c’era, ma non ci si doveva preoccupare. Hanno sostenuto che l’Italia stava meglio degli altri paesi avanzati, tacciando di disfattismo chiunque lanciasse segnali d’allarme. Improvvisamente, nel 2010, dopo la bancarotta greca, varano la più forte manovra economica mai conosciuta dall’Italia, lontana parente solo delle operazioni fatte da Amato nel 1992 e 1993 (se le si considera insieme). Con la differenza che questa volta s’eliminano persino le pensioni d’invalidità degli affetti da sindrome di Down: per risparmiare 250 euro mensili pro-capite, i punti necessari per ottenere il beneficio salgono da 75 ad 85 quando, solo per mantenere le 620.000 auto blu (con due autisti annessi), lo stato spende 21 miliardi di euro l’anno. E la stangata è pari a più di 24 miliardi di euro (circa 48.000 miliardi di vecchie lire). Ma non avevano detto che il peggio della crisi era passato, incitandoci persino a consumare allegramente e in modo spensierato?
La “variabile” della conoscenza
Uno dei motivi dello sfascio è sempre lo stesso, ultra conosciuto e di vecchia data: “le note debolezze del nostro Paese nell’economia della conoscenza, ampiamente riconosciuto come uno dei più importanti fattori strutturali di competitività” (33). “In particolare, la spesa complessiva in ricerca e sviluppo, stimata per il 2008 all’1,2 per cento del PIL, presenta un valore analogo a quello raggiunto alla metà degli anni Ottanta, decisamente lontano dalla media europea (1,9 per cento) e ancora di più dal 3 per cento fissato come obiettivo a Lisbona e ora confermato da Europa 2020” (34). E bisogna tenere presente che i dati forniti dall’Istat sono assemblati in modo distorto, perché non tengono conto del “plafond” complessivo delle strutture e degli investimenti altrove calcolati in generale anche per la cultura, ché altrimenti il divario sarebbe ben maggiore! I traguardi fissati dal 2000 nella conferenza di Lisbona per il 2010, sono per tutta l’Unione posticipati di un altro decennio, e l’Italia è fra i paesi che si sono mossi di meno. La questione della ricerca ha un doppio valore negativo: investe poco il settore pubblico, ma ancor meno quello privato (lo 0,6% contro una media UE doppia): “Il numero di ricercatori a tempo pieno presso le imprese, dopo essere aumentato di circa il 60% negli anni Ottanta, è salito appena del 14 per cento tra il 1990 e il 2008, contro il 40 per cento della Germania. Nello stesso periodo, in Francia il numero dei ricercatori è raddoppiato e in Spagna triplicato” (35).
La “mutazione”
La verità è che siamo giunti al compimento di una vera e propria mutazione genetica e culturale. Non esistono più le vecchie categorie sociali, né un (benché generico) proletariato “schierato”, “guidato” dalla “classe operaia”. Ben oltre gli effetti indotti dalla mutazione storica della figura stessa del produttore, è intervenuto un cambiamento identitario e culturale. Ed è difficile affrontarlo, forse ancor più degli elementi di base dovuti alla ristrutturazione del capitalismo internazionale, alla concorrenza delle nuove “tigri asiatiche” (ed ai capitali occidentali che pascolano anche ad Oriente), alle delocalizzazioni della produzione ed ai nuovi mercati, alla nascita teleguidata dalla fine degli anni ’70 del “terzo mondo interno” (garantiti e non, gioventù precaria e senza indipendenza economica ed, appunto, culturale), all’immigrazione come nuovo schiavismo ed all’evoluzione tecnologica eco-distruttiva e mercatista, naturalmente senza il minimo riferimento etico. Ed il versante “domestico” non preoccupa certo meno di quello internazionale.
Stefano d’Errico
(segretario generale Unicobas)
Note
1 Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2009. Sintesi, Istat, Avellino, 2010, p. 12.
2 Ibid., p. 12.
3 Ibid., p. 12.
4 Ibid., p. 12.
5 Ibid., p. 12.
6 Ibid., p. 12.
7 Ibid., p. 12.
8 Ibid., p. 13.
9 Ibid., p. 14.
10 Ibid., p. 14.
11 Ibid., p. 14.
12 Ibid., p. 15.
13 Ibid., p. 15.
14 Posizione oggi ricoperta dall’Iran.
15 Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2009. Sintesi, cit., p. 19.
16 Ibid., p. 19.
17 Ibid., p. 20.
18 Ibid., p. 20.
19 Programme for International Student Assessment.
20 Ricerca “Adult Literacy and Life Skills Survey”, effettuata dall’OCSE nel 2003.
21 Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2009. Sintesi, cit., p. 21.
22 Not in education, employment or training.
23 Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2009. Sintesi, cit., p. 21.
24 Ibid., p. 21.
25 Ibid., p. 21.
26 Ibid., p. 22.
27 Ibid., p. 22.
28 Ibid., p. 23.
29 Ibid., p. 8.
30 Ibid., p. 8.
31 A completamento d’analisi rimando ad un articolo che uscirà su A Rivista Anarchica di Ottobre 2010.
32 Sulla funzione economica delle guerre “preventive”, a partire da quella del Golfo del 1991, basterà ricordare che prima il prezzo del petrolio s’era attestato sui 9 dollari il barile, mentre in questi anni è destinato a fluttuare fra i 60 ed i 100.
33 Istat, Rapporto annuale. La situazione del Paese nel 2009. Sintesi, cit., p. 8.
34 Ibid., p. 18.
35 Ibid., p. 18.