A proposito di antropologia religiosa, di Luciano Nicolini (n°215)
Il testo che segue è la sintesi di una conferenza da me tenuta a Milano nel maggio scorso. Nel paragrafo su “Rito e mito” ho riprodotto alcuni brani della monografia “Il nonno in pigiama”1, dedicata al rito della doppia sepoltura nell’area napoletana.
Definire l’antropologia religiosa non è difficile, trattandosi di quella branca dello studio dell’uomo che si occupa del suo rapporto con la religione. Più difficile è dire cosa sia quest’ultima. In generale, gli occidentali, sulla scia di Cicerone2, sono portati ad associare il concetto di religione a quello di divinità, o quantomeno, al soprannaturale. Ma non tutte le religioni, neppure tutte quelle che gli occidentali sono soliti definire “grandi religioni”, comportano la credenza nell’esistenza di uno o più dei: il buddhismo, ad esempio, anche se pare che il Buddha abbia affermato di credere nella loro esistenza, è stato definito da alcuni studiosi, con valide argomentazioni, una “religione atea”.
Sembra pertanto utile definire la religione in modo più largo, come un insieme di credenze, sentimenti e riti associati al sacro. Dove per sacro sembra opportuno intendere non soltanto ciò che riguarda le divinità o un ipotetico mondo soprannaturale, ma anche tutto ciò a cui viene attribuito dagli uomini un particolare valore simbolico. Infatti, quando si afferma, ad esempio, che il Piave è un fiume “sacro alla patria” non s’intende dire che si tratta di una divinità, né che si tratta di qualcosa di soprannaturale: s’intende soltanto affermare che quel fiume dove si è fermata la disordinata ritirata delle truppe italiane nel corso del primo conflitto mondiale, quel fiume da dove è partita la loro riscossa, ha assunto per i patrioti italiani un forte valore simbolico. Solo in questo senso possono essere accettate espressioni come “religione della libertà”, etichetta talvolta attribuita, con buona dose d’ironia, all’anarchismo.
Centrale in ogni discorso sull’antropologia religiosa è, inoltre, un ragionamento circa l’esistenza dell’anima, cioè di qualcosa di immateriale che risiederebbe nel nostro corpo e non sarebbe frutto della pura e semplice attività delle cellule nervose. Dell’esistenza dell’anima, da un punto di vista strettamente scientifico, non vi è alcuna necessità. Tutto ciò che proviamo e che pensiamo, ciò che si sedimenta all’interno di noi andando a costruire la percezione della nostra identità, può essere spiegato, sia pure in modo ancora poco raffinato, sulla base dell’attività delle cellule delle quali siamo costituiti. Né esiste alcuna evidenza che qualcosa di identificabile come anima preesista alla nostra nascita e sopravviva alla nostra morte biologica. Eppure, presso quasi tutti i popoli della Terra, l’esistenza di tale entità è considerata probabile. Non è questa la sede per indagare sui motivi di tale credenza (desiderio inconscio di eternità? Carenza di informazione sulla complessità del nostro organismo e in particolare del nostro sistema nervoso?), si tratta tuttavia di una constatazione dalla quale occorre partire se si vuol comprendere, ad esempio, che cosa siano la magia, lo sciamanesimo, la stregoneria.
Molti popoli ritengono che gli uomini siano dotati di un’anima che sopravvive alla loro morte biologica, altri ritengono che questa preesista alla loro stessa nascita, altri ancora (alcuni popoli africani) che ogni uomo abbia più di un’anima e queste convivano nello stesso corpo.
Magia, sciamanesimo, stregoneria
«Per magia s’intende generalmente un’operazione tesa ad agire sulla natura attraverso mezzi occulti che suppongono la presenza di spiriti e di forze immanenti e straordinarie. Si distingue, in base alla finalità dell’azione, tra magia bianca, attuata per scopi benefici (una guarigione, il successo di un’impresa) e magia nera, che si avvale di spiriti maligni ed ha scopi malvagi»3.
Per lungo tempo è stata considerata dagli antropologi un’antenata della scienza, se non addirittura delle “grandi religioni” che, a loro volta, avrebbero dovuto lasciare il campo a quest’ultima. Tale visione è oggi considerata superata, non perché priva di fondamento, ma perché si è potuto constatare come la magia, le “grandi religioni” e la scienza possano convivere sia presso i popoli tecnologicamente poco sviluppati sia all’interno delle società industriali e postindustriali. Presso i primi infatti la presenza di riti magici si associa spesso a complesse teorizzazioni religiose e ad efficaci pratiche scientifiche, elaborate cioè a partire dall’osservazione e dall’esperienza; presso le seconde, accanto al trionfo della scienza moderna, si può osservare un gran numero di persone che frequentano abitualmente luoghi di culto o si recano dal mago per cercare soluzione ai propri problemi: tra questi, per quanto possa apparire strano, numerosi scienziati e uomini di fede.
Ciò induce a pensare che scienza e magia rispondano, in realtà, a esigenze diverse l’una dall’altra.
Del resto, «la magia non è solo un modo di pensare le cose; è anche un modo di farle. E di solito le persone vi fanno ricorso quando si trovano in situazioni di pericolo o sfortuna reale o potenziale: se ogni cosa fosse perfetta nel miglior mondo possibile, vi sarebbe ben poco bisogno di ricorrere alla magia o alla religione. Ciò ci conduce a parlare della seconda importante conseguenza che può avere il comportamento rituale “magico-religioso”. Esso può assicurare una possibilità di far fronte a situazioni di sfortuna o pericolo che non possono essere altrimenti fronteggiate. È un luogo comune che di fronte a un disastro avvenuto o incombente fare qualcosa conforta psicologicamente e aiuta ad alleviare l’inquietudine; fare qualsiasi cosa è meglio che restare passivi e attendere che accada il disastro. Nei casi in cui manca un complesso di conoscenze sperimentali cui ci si può rivolgere per aiuto o tali conoscenze sono chiaramente inadeguate, allora il compiere atti rituali, la cui validità non è fondata sull’esperienza, può offrire un’alternativa accettabile»4.
Passando a parlare di “sciamanesimo”, il termine indica invece «un insieme di credenze magiche e di fenomeni estatici osservati presso i popoli della Siberia e dell’Asia centrale, ma anche tra quelli del Tibet, dell’Indonesia e dell’Oceania, tra gli inuit e tra gli indiani dell’America settentrionale»5. Presso tali popolazioni, lo sciamano è un individuo ispirato o, meglio, soggetto alla trance, la cui anima (o una delle sue anime) effettuerebbe un viaggio nel soprannaturale. Ciò lo distingue dal mago che è, invece, essenzialmente, considerato un esperto in pratiche esoteriche, e come tale viene vissuto dalla sua comunità di riferimento.
Quale che sia il modo in cui lo sciamano viene selezionato, prosegue Rivière, «raggiunge il pieno riconoscimento sociale solo dopo un’iniziazione di tipo estatico (discesa rituale agli inferi, trance), tecnico (conoscenza degli spiriti, dei miti, dei linguaggi) e ascetico (digiuno, permanenza solitaria nella foresta, sensazione di smembramento del corpo). Lo sciamano spesso si distingue dal gruppo per delle malformazioni fisiche o per un comportamento neuropatico (solitudine, visioni, crisi isteriche), ma la sua guarigione attraverso la resurrezione iniziatica, se lo integra totalmente nella comunità, lo circonda comunque di un prestigio dovuto ai poteri soprannaturali che gli vengono riconosciuti».
Può risultare difficile (e talvolta arbitrario) distinguere tra sciamanesimo e magia, ma ancora più arduo è separare nettamente da queste la stregoneria. Lo stregone e la strega sono ritenuti anch’essi, come lo sciamano, in possesso di alcune capacità soprannaturali, ma vengono inoltre ritenuti, come il mago, degli “esperti”(in questo caso, di magia nera). Ciò che maggiormente li distingue è forse proprio la connotazione negativa che viene loro attribuita. Mago e sciamano sono, sia pure in modo diverso, rispettati; stregone e strega sono invece, soprattutto, temuti.
Le credenze relative alla stregoneria, diffuse presso quasi tutti i popoli della Terra, furono radicate, fino a tempi assai recenti, presso i popoli cristiani, dando luogo a vere e proprie “cacce alle streghe”. Vittime di tali persecuzioni furono infatti principalmente le donne, considerate, da una cultura maschilista, più facilmente preda del demonio. La loro uccisione, spesso eseguita in maniera efferata, assumeva talvolta la forma e la funzione di un vero e proprio sacrificio umano.
Rito e mito
Il termine “rito” è un termine con il quale entriamo in contatto a partire dall’infanzia. Istintivamente lo associamo alla religione, ma siamo consapevoli che esistono anche riti laici come, ad esempio, quelli associati al matrimonio civile. Nel suo senso più esteso, con il termine rito si intende ogni atto, o insieme di atti, che viene eseguito secondo norme codificate. Infatti si ripete, sempre uguale, almeno nelle parti considerate essenziali. Ed è proprio questa ripetitività che ci rassicura, dandoci una sensazione di immortalità: nel compierlo stiamo facendo ciò che facevano i nostri antenati e che (probabilmente, perché la cosa non è certa) faranno i nostri discendenti. Il rito, inoltre, come evidenziato da Durkheim6 all’inizio del Novecento, consente di rinsaldare i legami interni alla comunità di appartenenza.
Il “mito” è invece una narrazione circa le origini: dell’universo, dell’umanità, di un popolo, di un ruolo sociale, di un particolare rito. Per lungo tempo fu creduto un grossolano tentativo di spiegazione della realtà che ci circonda, precedente l’indagine scientifica. Fu William Robertson Smith7 che per primo, in seguito ad approfondite ricerche sul campo, giunse ad affermare che «sebbene i miti consistano in spiegazioni del rituale, il loro valore è tuttavia secondario, e si può affermare con sicurezza che in quasi tutti i casi il mito è derivato dal rituale, e non il rituale dal mito».
È questa, a mio avviso, un’affermazione molto importante: ciò da cui l’uomo trae conforto è il rito, sia esso una festa o una sepoltura; e ciò che rafforza il senso di appartenenza alla comunità è il fatto che sia vissuto collettivamente. Dove per “vissuto collettivamente” non si intende che collettivamente debba essere eseguito, ma che tutti i componenti la comunità, da attori o da spettatori, direttamente o indirettamente, ne devono essere partecipi. L’indossare per un determinato periodo di tempo gli abiti del lutto, presso le culture che lo prescrivono, non è (tranne casi eccezionali) obbligatorio per tutti i membri della comunità, ma li rende tutti partecipi della scomparsa del defunto. E sulla corretta esecuzione del rito l’intera comunità spesso vigila con occhio severo.
Esistono diversi tipi di riti. Particolarmente importanti sono i cosiddetti “riti di passaggio”, che accompagnano i momenti socialmente più rilevanti della vita dell’uomo: la nascita, l’iniziazione, il matrimonio, la morte. «Lo schema completo dei riti di passaggio – afferma Van Gennep8, sviluppando un’intuizione di Hertz9 - comporta in teoria dei riti preliminari (separazione), liminari (margine) e post-liminari (aggregazione)». Si tratta cioè di separarsi dalla condizione nella quale ci si trovava precedentemente per aggregarsi, attraverso un processo più o meno lungo, a coloro che hanno attraversato il limite e già vivono una condizione differente. Ciò è evidente nel caso dei riti di iniziazione che, in prima approssimazione, accompagnano il passaggio dalla fase infantile a quella adulta: in tale occasione si smettono gli abiti e le abitudini del bambino per vestire gli abiti ed assumere le abitudini caratteristici della fase successiva. E questo avviene, sia per i maschi sia per le femmine, attraverso un processo più o meno ritualizzato. (In una prospettiva più allargata, i riti d’iniziazione comprendono anche quelli che, a prescindere dalla sua età, accompagnano l’entrata di un individuo in un’associazione, sia essa religiosa, politica, professionale, criminale, sportiva).
Scrive Arnold Van Gennep10: «Grazie soprattutto a Spencer e a Gillen, a W.E. Roth, a A.W. Howitt e a R.H. Matthews, si conoscono fin nei minimi particolari le cerimonie di iniziazione al raggruppamento totemico vigenti in molte tribù australiane. Esse si praticano tra i dieci anni e i trenta. Il primo atto consiste in una separazione dall’ambiente precedente, cioè dal mondo delle donne e dei bambini; come per la donna incinta, così per il novizio c’è l’isolamento – nella foresta, in un luogo particolare, in una capanna speciale ecc. - accompagnato da tabù di ogni tipo, soprattutto alimentari. Il legame del novizio con la madre dura talvolta per qualche tempo, ma arriva sempre un momento in cui, attraverso un processo violento, o che sembra tale, questi viene separato per sempre dalla madre, la quale spesso lo piange». Il che non stupisce: senza bisogno di scomodare gli aborigeni australiani, io stesso ricordo di aver sentito raccontare da una parente di aver pianto, insieme ad altre madri, nell’assistere al rito del giuramento dei loro figli maschi, militari di leva. Commozione che non era legata all’onore di avere un figlio pronto a morire per la patria, ma alla sua simbolica separazione definitiva dal mondo delle donne e dei bambini.
«In certe cerimonie di queste tribù – prosegue Van Gennep, sempre con riferimento all’Australia - il novizio viene considerato come morto, e morto, per così dire, rimane per tutta la durata del noviziato. Questo dura per un periodo più o meno lungo e consiste in un indebolimento fisico e mentale destinato, indubbiamente, a fargli perdere ogni ricordo della sua vita infantile. Sopraggiunge in seguito una fase positiva nella quale si insegna al novizio il diritto consuetudinario, lo si educa progressivamente eseguendo delle cerimonie totemiche sotto i suoi occhi, si recitano dei miti ecc.. L’atto finale è una cerimonia religiosa (là dove esiste la credenza in Daramulun ecc.) e soprattutto una mutilazione particolare che varia da tribù a tribù (si fa saltare un dente, per esempio, o si incide il pene ecc.) e che ha l’effetto di rendere il novizio uguale per sempre ai membri adulti del clan. In certi casi l’iniziazione avviene in una sola volta; in altri, attraverso diverse fasi. Là dove il novizio viene considerato come morto, lo si resuscita e gli si insegna a vivere, ma in modo del tutto diverso rispetto all’infanzia».
Altri riti di passaggio sono quelli connessi al matrimonio. Scrive Raffaella Sarti11 a proposito delle unioni che avevano luogo in Europa prima della Riforma luterana e della conseguente Controriforma cattolica: «Agli occhi della maggioranza della popolazione (...) il matrimonio non era un evento puntuale, in virtù del quale si era inesorabilmente e, per così dire, tutt’a un tratto marito e moglie. Era piuttosto un processo che si snodava attraverso (...) una serie di tappe accompagnate e sancite da svariati riti e cerimonie. I rituali che scandivano la formazione delle nuove coppie erano vari e diversificati a seconda delle zone e non di rado anche a seconda delle persone coinvolte. Le fasi invece erano più o meno le stesse dappertutto, anche se talora alcune venivano saltate. Ripercorriamole.
Una volta avviati i contatti tra le famiglie o tra i due diretti interessati, se c’era accordo si arrivava alla promessa di matrimonio, che già costituiva un impegno formale. A distanza di tempo più o meno ravvicinata seguiva lo scambio dei consensi. I due promessi dichiaravano cioè reciprocamente di prendersi come marito e moglie, suggellando spesso la loro unione con un anello (...). C’erano poi le nozze, cioè i festeggiamenti connessi al trasferimento della sposa nella dimora dove avrebbe abitato la nuova coppia. Essi potevano durare vari giorni ma talvolta venivano ridotti al minimo o addirittura soppressi (...). Prima o dopo le nozze, ma non dappertutto, la coppia veniva benedetta da un prete». (…)
«A rendere ancora più intricato il groviglio (...) contribuiva anche la variabilità dei comportamenti sessuali e del momento in cui il matrimonio veniva consumato. Mentre in molte zone, soprattutto nell’Europa mediterranea, le ragazze da marito erano strettamente controllate, nell’arco alpino, in Germania, in Olanda, in Inghilterra, in certe zone della Francia e della Scandinavia sia maschi sia femmine prima del matrimonio potevano intrattenersi abbastanza liberamente con i coetanei dell’altro sesso, sebbene probabilmente nella prima Età moderna raramente arrivassero ad avere rapporti sessuali completi. Ma al di là delle differenze relative alla sessualità giovanile prematrimoniale, era dato di ravvisarne anche rispetto ai tempi della consumazione del matrimonio. Da un lato, infatti, in certi casi essa avveniva dopo lo scambio dei consensi o dopo le nozze, e talvolta neppure subito. Dall’altro c’erano zone in cui, una volta fatta la promessa o addirittura durante le trattative tra le famiglie, i giovani erano autorizzati ad avere rapporti sessuali».
Il matrimonio era, in ogni caso, un processo, scandito da tappe regolate da un rituale, differente da zona a zona. E lo è ancora oggi anche se, nel mondo cattolico, la Controriforma lo ha semplificato concentrando l’attenzione intorno al momento del consenso scambiato davanti a un sacerdote. (Quasi completamente privo di rituale dovrebbe risultare, invece, il matrimonio civile; ciò nondimeno, anche dove è largamente praticato, è spesso accompagnato da un pranzo, da un viaggio di nozze e da altre azioni più o meno codificate).
Meno intuitivo, per l’uomo del XXI secolo, è pensare alla nascita e alla morte come momenti di passaggio da una condizione a un’altra.
Per quanto riguarda la nascita, Van Gennep12 ci ricorda che: «Dieterich ha citato delle credenze tedesche (ve ne sono di identiche in Australia, in Africa ecc.), secondo le quali le anime che devono nascere (il termine anima va inteso nel senso più ampio) vivono sotto terra o in rocce. Presso parecchi popoli è anche diffusa la credenza che vivano in alberi, in cespugli, in fiori o in verdure, nella foresta ecc.. È anche molto frequente l’idea che i bambini che devono nascere vivano inizialmente in fontane, sorgenti, laghi, acque correnti». Per non parlare dei popoli presso i quali si sostiene che le anime possano trasmigrare e reincarnarsi.
Per quanto riguarda invece il decesso, l’angoscia connessa all’idea che tutto finisca con la morte biologica, ha agevolato le credenze, diffuse presso quasi tutti i popoli della Terra, circa una vita ad essa successiva. «A prima vista – scrive Van Gennep13 - potrebbe sembrare che nelle cerimonie funebri siano sempre i riti di separazione ad assumere la funzione di maggior rilievo, e che, per contro, i riti di margine e di aggregazione siano poco sviluppati. Tuttavia l’analisi dei fatti dimostra che in certi casi avviene proprio il contrario, che i riti di separazione sono poco numerosi e assai semplici, mentre i riti di margine hanno una durata e una complessità che induce talvolta a riconoscere in essi una sorta di autonomia, e che infine di tutti i riti funebri quelli che aggregano il defunto al mondo dei morti sono i più elaborati e quelli a cui si attribuisce il rilievo maggiore».
In questo quadro interpretativo si colloca il rito della doppia sepoltura: dobbiamo a Robert Hertz9, in particolare, una sua spiegazione che, almeno nelle grandi linee, risulta ancora oggi convincente. Scrivendo pochi anni prima di Van Gennep, affermò infatti che «la morte non si limita a metter fine all’esistenza corporea, visibile, di un vivo; distrugge contemporaneamente l’essere sociale che si sovrappone all’individualità fisica, a cui la coscienza collettiva attribuiva un’importanza, una dignità più o meno grandi. (…) Poichè ha fede in se stessa, una società sana non può ammettere che un individuo che ha fatto parte della sua sostanza, sul quale ha impresso il suo marchio, sia perduto per sempre (…). Raggiungendo i suoi padri, il morto rinasce trasfigurato, elevato a una potenza e a una dignità superiori; in altri termini, la morte agli occhi dei primitivi è un’iniziazione».
Per questo motivo, secondo Hertz, viene spesso vissuta come un processo, e in alcuni casi il relativo rituale si suddivide in tre fasi: la prima sepoltura, attraverso la quale il defunto si separa dal mondo dei vivi; un periodo intermedio, durante il quale si ha la consunzione delle sue carni; una sepoltura secondaria, attraverso la quale si aggrega, definitivamente, al mondo dei morti. Del resto, già Joseph-François Lafitau14, due secoli prima, aveva individuato nella pratica della doppia sepoltura un’usanza comune a diverse popolazioni e riferito la credenza che l’anima dovesse spogliarsi della carne per accedere all’aldilà.
Il mito di Pandora
Quanto detto sul rapporto tra rito e mito non deve tuttavia far pensare che i miti nascano soltanto per fornire giustificazione ai riti, importanti per la coesione delle comunità. Si tratta infatti, come si è accennato, anche di narrazioni relative alle origini dell’universo, dell’umanità, di un popolo, di un ruolo sociale. Esemplare, in questo senso, risulta il mito di Pandora, tramandato presso gli antichi greci.
Esiodo narra che Zeus ordinò a Efesto di forgiare per gli uomini la prima donna, Pandora. A lei offrì bellezza, grazia e astuzia. Ermes venne incaricato di condurla dal fratello di Prometeo, Epimeteo. Questi l’accolse e se ne innamorò. Pandora portava con sé un vaso affidatole da Zeus, che però le aveva ordinato di lasciare sempre chiuso. Spinta dalla curiosità, lo aprì, e da esso uscirono tutti i mali che, da quel momento, si diffusero per il mondo. Un mito fondativo che offriva giustificazione sia al disprezzo nutrito dai maschi nei confronti delle femmine (e della loro curiosità) sia al ruolo subalterno che, onde evitare danni, veniva riservato a quest’ultime.
Non diverso è, presso gli ebrei e i cristiani, il mito di Adamo ed Eva. È attribuita ad essa, infatti, la colpa che provocò la cacciata dei primi uomini dal paradiso terrestre. E su di lei, più che su Adamo, il dio delle “grandi religioni” dell’Occidente avrebbe lanciato la sua maledizione: «Moltiplicherò assai le tue pene e le doglie della tua gravidanza; avrai i figli nel dolore, tuttavia ti sentirai attratta con ardore verso tuo marito, ed egli dominerà su di te»15.
Il sacrificio
Particolare interesse tra gli antropologi ha sempre suscitato il rito del sacrificio, operazione attraverso la quale, in prima approssimazione, dei beni (oggetti, cibo, animali o anche esseri umani), sono tolti dalla condizione profana e consegnati al sacro, venendo dedicati a una o più entità sovrumane in cambio della loro benevolenza.
Angelo Brelich nell’“Introduzione alla storia delle religioni”16, ne ha distinti tre tipi:
- l’“offerta primiziale”, che sarebbe tipica delle culture dei cacciatori e raccoglitori, consistente nel lasciare a un’ “entità estranea” la prima parte del raccolto o della caccia, per desacralizzare il restante e poterlo consumare;
- il “sacrificio del dono”, tipico delle culture agricole, le quali diversamente dai cacciatori e raccoglitori tendono a considerare propri i beni offerti, consistente nel donare un prodotto del proprio lavoro a una o più entità sovrumane;
- il “sacrificio di comunione”, consistente nell’uccisione di una vittima e nel suo consumo da parte della comunità, al fine di rafforzare i legami al suo interno e il legame di questa con le entità cui la vittima è stata offerta.
René Girard invece, in “La violence et le sacré”17, ha posto l’accento sul sacrificio come violenza sostitutiva proiettata sulla vittima, considerata come “capro espiatorio” da parte della comunità. In tal senso il Cristo, “agnello di Dio”, avrebbe assunto su di sé il ruolo di vittima espiatrice, liberando gli uomini dal peccato.
Un’altra interpretazione interessante circa l’origine del sacrificio è quella di una giustificazione della quale l’uomo avrebbe necessità per consumare, dopo l’assassinio, le carni di un animale, soprattutto nel caso si tratti di un animale domestico. Ma ciò è contraddetto dalla constatazione che, in numerosi casi, l’animale sacrificato non viene poi consumato effettivamente dalla comunità.
Il culto degli antenati
Al termine “religione” è spesso affiancato il termine “culto”. Si tratta in realtà di sinonimi, spesso tuttavia ci si serve del secondo per indicare una forma di religione che convive con un’altra ritenuta più importante: esemplari, in tal senso, sono il culto degli antenati nell’antichità romana (che affiancava e integrava la religione politeista) e il culto dei santi nel cattolicesimo moderno (non a caso ritenuto, dai cristiani riformati, una forma di paganesimo). Non sembra improprio, in questo senso, parlare anche di “culto della personalità” a proposito della venerazione cui sono stati fatti oggetto personaggi politici come Hitler, Stalin o Mao.
«In Oceania, in Estremo Oriente, in Africa, gli antenati, e in particolare i capostipiti dei lignaggi, sono oggetto di culto in quanto, in una prospettiva per cui i legami tra le generazioni sono assicurati dal rinnovamento ciclico della vita, essi sopravvivono nella memoria dei vivi e sono per questi ultimi degli interlocutori e dei protettori privilegiati; è opportuno venerare gli antenati in quanto essi rigenerano il lignaggio e sono garanti di quell’ordine che hanno contribuito a creare.
In Cina agli antenati si offrono sacrifici, si innalzano preghiere, si offrono libagioni e si bruciano incensi; ci si prostra davanti all’altare che contiene la loro anima. La comunicazione con loro avviene tramite sogni e presagi»18.
Il culto degli antenati va tuttavia tenuto distinto dal culto dei morti, che spesso è rivolto a defunti sconosciuti e, comunque, non appartenenti al lignaggio di chi lo pratica. Esemplare, in questo senso, è il culto dei crani, praticato in diverse grotte di Napoli19: in genere ad esercitarlo erano le donne che lo apprendevano da un’amica più grande, con l’approvazione degli adulti, nel corso dell’adolescenza. «Svelato il segreto – riferisce Pardo – durante il tragitto il neofita viene istruito sul rito e può prendere contatto col luogo sacro e con la ierofania del cranio. Alla trepidazione provata durante la prima visita, che è stata collettiva, succedono una confidenza e dimestichezza che consentono di recarsi da soli alle catacombe. (…) La giovane fedele non mancherà di indirizzare alla “capuzzella” prediletta la richiesta di trovare “un fidanzato, un bravo ragazzo per sistemarsi, per sposarsi”».
Il sincretismo
Molta importanza, soprattutto nel mondo contemporaneo, hanno assunto i culti sincretici, quei culti cioè nati dalla contaminazione delle religioni prevalenti tra le popolazioni di origine europea (in particolare quelle cristiane) con religioni appartenenti a tutt’altra tradizione. Sono diffusi, principalmente, ma non soltanto, nell’America centromeridionale e nell’Africa subsahariana.
Descriverne alcuni sarebbe lungo e, probabilmente, dispersivo. Sembra però opportuno, a tale proposito, ricordare brevemente la distinzione a suo tempo operata da Bastide20 tra “sincretismo magico” e vero e proprio “sincretismo religioso”:
«Il sincretismo magico – scrive – obbedisce a leggi diverse da quelle cui obbedisce il sincretismo religioso. Esso è essenzialmente accumulazione di formule e di gesti, addizione pura e semplice di magie medievali a magie indigene così da aumentarne la forza efficace; il sincretismo religioso è invece selettivo. Il sincretismo nel settore dei gesti e delle cerimonie non è lo stesso sincretismo che si può avere nel settore delle credenze e delle rappresentazioni collettive. Nel primo caso c’è piuttosto giustapposizione (ad esempio si “aggiunge” ai rituali della iniziazione una messa di ringraziamento a Dio, nei candomblés del Brasile; nel Guatemala, alle preghiere recitate ai santi in chiesa, si aggiunge la lunga marcia in montagna per offrire un sacrificio agli Spiriti della natura). Nel secondo caso c’è ricerca di identificazioni mistiche (i Vodouns sono identificati con i santi; le parole di Dio sono “reinterpretate” attraverso le credenze animiste)».
La divinazione
Qualche parola, infine, deve essere spesa a proposito della “divinazione”, cioè dell’interpretazione del presente (o della previsione del futuro) sulla base di elementi che, da un punto di vista strettamente scientifico, non sembrano avere alcuna relazione con ciò che si vuole interpretare (o prevedere). «La cultura dei Nyoro – scrive Beattie21, con riferimento a quanto avveniva in Uganda – offre un buon esempio dei vari procedimenti cui si può fare ricorso. Nel Bunyoro un uomo che cade ammalato o è colpito da una qualche altra sventura consulta probabilmente un indovino per scoprire la causa della pena che l’affligge. L’indovino ricorre a qualcuna delle varie tecniche di divinazione che possono essere utilizzate. Queste comprendono l’uso di svariati oracoli, come per esempio, lo sparpagliare dei cauri, cui segue l’interpretazione della loro posizione; l’oracolo mediante sfregamento, in cui l’indovino sfrega le sue dita su e giù lungo un bastone inumidito, e il responso è dato dal punto in cui le sue dita aderiscono ad esso; e l’aruspicio, in cui l’indovino esamina leviscere di un animale o uccello, attualmente di solito un pollo. In seguito dà il responso». Procedimenti analoghi vengono utilizzati, presso molte popolazioni, per prevedere il futuro.
Note
1 Nicolini L. (2015), Il nonno in pigiama. Sepolture secondarie nell’Italia contemporanea, QuiEdit, Verona.
2 Cicerone, De inventione, II, 161.
3 Rivière C. (1998), Introduzione all’antropologia, Il Mulino, Bologna, p. 142 (ed. or. 1995).
4 Beattie J. (1985), Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Laterza, Bari, pp. 289-90 (ed. or. 1972).
5 Rivière C. (1998), Introduzione all’antropologia, Il Mulino, Bologna, p. 143 (ed. or. 1995).
6 Durkheim É. (1963), Le forme elementari della vita religiosa, Comunità, Milano (ed. or. 1912).
7 Robertson Smith W. (1907), Lectures on the Religion of the Semites, Black, Londra, p. 18 (ed. or. 1889).
8 Van Gennep A. (2012), I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, p. 11 (ed. or. 1909).
9 Hertz R. (1907), Contribution a une étude sur la représentation collective de la mort, in “L’Année Sociologique”, 10: 48-137.
10 Van Gennep A. (2012), I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, p. 65 (ed. or. 1909).
11 Sarti R. (1999), Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa moderna, Laterza, Roma-Bari, p. 11.
12 Van Gennep A. (2012), I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, p. 46 (ed. or. 1909).
13 Van Gennep A. (2012), I riti di passaggio, Bollati Boringhieri, Torino, p. 127 (ed. or. 1909).
4 Lafitau J. (1724), Moeurs des sauvages amériquains comparées aux moeurs des premiers temps, Saugrain, Parigi.
15 Genesi 3, 16.
16 Brelich A. (1963), Introduzione alla storia delle religioni, Ateneo, Roma.
17 Girard R. (1972), La violence et le sacré, Grasset, Parigi.
18 Rivière C. (1998), Introduzione all’antropologia, Il Mulino, Bologna, p. 155 (ed. or. 1995).
19 Pardo I. (1982), L’ "elaborazione” del lutto in un quartiere tradizionale di Napoli, in “Rassegna Italiana di Sociologia”, 4: 535-569.
20 Bastide R. (1990), Il sincretismo mistico in America latina, in Bastide R., “Noi e gli altri”, Jaca Book, Milano, p. 285 (ed. or. 1965).
21 Beattie J. (1985), Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Laterza, Bari, p. 317 (ed. or. 1972).