Parenti e serpenti, di Luciano Nicolini (n°219)
Un argomento che ha sempre appassionato gli antropologi è lo studio della parentela. Già nel XIX secolo infatti si era notato che variano molto, presso le diverse popolazioni umane, coloro che vengono considerati parenti, la nomenclatura relativa, i rapporti che intercorrono fra essi; e ciò ha stimolato un gran numero di ricerche.
Volendo fornirne una definizione piuttosto larga, si può affermare che per parenti, in antropologia, si intendono coloro con i quali si ha una relazione di filiazione (genitori, figli, nonni, bisnonni), di fratellanza (fratelli, sorelle, zii consanguinei, prozii, cugini), di affinità (mariti, mogli, cognati, suoceri, generi, nuore, sposi degli zii consanguinei e dei cugini), nonché talvolta coloro con i quali si ha una stretta relazione di natura giuridica (figli adottivi) o spirituale (padrini). Tali parenti si collocano da un punto di vista biologico, ma anche da un punto di vista sociale, a una diversa distanza tra loro; distanza che, nel mondo occidentale, è misurata dal grado di consanguineità (nel caso della filiazione e della fratellanza) o dal grado di affinità con riferimento a quest’ultima.
Secondo il computo romano (utilizzato dal codice civile italiano) il grado di consanguineità corrisponde al numero di volte che si è compiuto il “processus generationis” passando, se necessario, attraverso lo stipite (cioè l’antenato comune). Questo significa che padre e figlio sono consanguinei di primo grado, nonno e nipote di secondo grado, fratello e sorella sono anch’essi consanguinei di secondo grado, zio e nipote sono consanguinei di terzo grado, i cugini primi lo sono di quarto grado e via dicendo.
Secondo il computo germanico (utilizzato dal codice canonico) il grado di consanguineità, misurato in modo assai più preciso, è dato invece dal numero di individui che separano dallo stipite (o dagli stipiti). Ciò significa che padre e figlio sono consanguinei di primo grado, nonno e nipote di secondo grado, fratello e sorella sono consanguinei “di primo grado in primo”, zio e nipote “di primo grado in secondo”, i cugini primi “di secondo grado in secondo” e via dicendo. I figli di due fratelli che hanno sposato due sorelle rappresentano un caso di “consanguineità molteplice” e precisamente “di doppio secondo grado in secondo”1.
Di scarso interesse presso le nostre popolazioni è invece la differenza, sottolineata dagli antropologi con riferimento a un gran numero di popolazioni umane, tra “cugini primi paralleli” (figli di due fratelli oppure di due sorelle) e “cugini primi incrociati” (figli di fratello e sorella).
Per ciò che riguarda infine il grado di affinità, viene calcolato facendo riferimento al consanguineo più vicino; così, ad esempio, la moglie del fratello sarà per il codice civile italiano “affine di secondo grado”, per quello canonico “affine di primo grado in primo”.
La discendenza
Uno dei motivi per cui la parentela desta tanto interesse è che molte cose, nelle popolazioni umane, vengono in genere trasmesse per discendenza: ciò si verifica spesso per il nome, le proprietà, i ruoli sociali. Esistono tuttavia diversi sistemi di discendenza.
Si parla di discendenza patrilineare quando l’attributo in questione passa dal padre al maschio primogenito, a tutti i figli maschi oppure a tutti i figli senza distinzione di sesso. È il caso del cognome presso la popolazione italiana: il cognome viene ereditato dal padre (anche se, da alcuni anni, è possibile affiancargli il cognome della madre); i figli maschi lo ereditano e lo trasmettono alla progenie, le figlie femmine lo ereditano ma non lo trasmettono.
Si parla di discendenza matrilineare quando l’attributo in questione è ereditato attraverso la madre. I figli appartengono al suo stesso lignaggio e non a quello paterno, inoltre tale appartenenza è trasmessa alla progenie soltanto dalle figlie. Presso le culture nelle quali vige la discendenza matrilineare il ruolo che nelle culture patrilineari è rivestito dal padre, viene in genere rivestito dal fratello della madre, cioè dallo zio materno. Ad esso i figli della donna devono obbedienza e da esso, in genere, ricevono beni e ruoli in eredità.
Si parla infine di discendenza indifferenziata quando l’attributo in questione è ereditato attraverso entrambi i genitori. Ciò che accade oggi all’interno della nostra cultura occidentale con riferimento ai beni: i figli (maschi e femmine) ereditano sia quelli del padre sia quelli della madre; sia i maschi sia le femmine li trasmettono alla loro progenie.
Il matrimonio
Centrale, negli studi sulla parentela, è il ragionamento circa il matrimonio. Questo può essere definito, anche se solo in prima approssimazione, come un patto tra due persone finalizzato alla legittimazione della prole. Risulta infatti evidente che sposarsi non è necessario alla riproduzione della specie: gli animali non si sposano e non hanno alcun problema a riprodursi. Scopo primario del matrimonio è mettere in chiaro chi è figlio di chi, con tutto ciò che implica in relazione alla discendenza (appartenenza a un lignaggio, eredità dei beni, successione in un determinato ruolo).
Gli antropologi, sulla scia di Lévi Strauss2, sottolineano tuttavia un’altra funzione fondamentale del matrimonio, la costruzione di alleanze tra lignaggi diversi. Per quest’autore infatti il matrimonio è uno scambio di donne tra gruppi umani. Nasce dal tabù dell’incesto e garantisce lo scambio tra essi. Per questo, presso molte popolazioni, non solo sono vietati l’incesto e il matrimonio tra cugini primi paralleli (che possono appartenere allo stesso lignaggio), ma è fortemente incoraggiato quello tra cugini primi incrociati (che appartengono a lignaggi diversi).
Ciò che è certo è che presso la gran parte dei gruppi umani i matrimoni sono combinati, in funzione di un vantaggio per il lignaggio, da chi è a capo di esso. Il matrimonio d’amore (o prevalentemente tale) è in gran parte un’invenzione moderna, sviluppatasi recentemente presso i popoli dell’occidente industrializzato e da lì diffusosi, insieme all’industrializzazione, in altre parti del pianeta. Del resto, soltanto ottant’anni fa, anche in Italia, un gran numero di matrimoni (si pensi a quelli tra mezzadri) era spesso combinato dalle famiglie o, per meglio dire, da chi della famiglia stava a capo3.
Strettamente legato al matrimonio o, per dirla con Lévi Strauss, allo scambio di donne, è lo scambio di beni. All’interno della cultura occidentale era fino a poco tempo fa tradizione che fosse la femmina a portare in dote al marito una serie di beni. Per gli appartenenti alle classi subalterne si trattava, in genere, di qualche abito, del letto, e di poco altro4; per gli appartenenti alle classi agiate si trattava spesso, oltre a ciò, di beni mobili e talora anche di beni immobili. Presso molte altre culture è invece la famiglia da cui proviene il maschio a dover pagare, in beni o in servizi prestati, “il prezzo della sposa”. Per molto tempo gli esploratori europei hanno pensato che si trattasse di un vero e proprio prezzo d’acquisto della donna. In realtà, le cose non stanno esattamente in questo modo: la donna viene sì “comprata”, ma non diventa una schiava; non diventa proprietà del marito o della sua famiglia di provenienza, e sul rispetto ad essa dovuto vigila la famiglia che l’ha ceduta e con la quale è stata instaurata, attraverso di lei, un’alleanza. In questo senso oggi molti antropologi tendono a parlare, piuttosto che di “prezzo della sposa”, di “ricchezza della sposa”, cioè di un compenso matrimoniale che la famiglia dello sposo paga a quella della donna per ciò che a questa viene tolto in termini di apporto al lavoro agricolo e domestico e, soprattutto, di potenziale riproduttivo. Va da sé che tale compenso (se costituito da beni mobili quale il bestiame) sarà poi spesso utilizzato dalla famiglia della sposa per pagare la “ricchezza della sposa” in un successivo matrimonio di un maschio.
Matrimoni particolari
Parlando di compenso matrimoniale sembra opportuno soffermarsi su due tipi particolari di matrimonio diffusi nell’Africa centro-orientale: il “matrimonio tra donne” e il “matrimonio col fantasma”. Presso alcune popolazioni una donna d’alto rango, pagando la “ricchezza della sposa”, può sposare una donna che un amante renderà gravida: la donna d’alto rango sarà considerata “padre” dei bambini e trasmetterà loro il nome, il ruolo sociale e i suoi beni. È questo il “matrimonio tra donne”. In altri casi una donna può essere sposata con un uomo defunto che non abbia avuto figli. La prole, nata dai rapporti avuti con un amante, verrà considerata prole del defunto, perché con i suoi beni è stata pagata la “ricchezza della sposa”: è questo il “matrimonio col fantasma”5.
Altri casi particolari sono il “levirato”, cioè l’unione con la vedova del fratello e il “sororato”, cioè l’unione con la sorella della moglie deceduta.
«Nel levirato – scrive Beattie6 – se muore un uomo sposato, la vedova può passare al fratello di lui, o talvolta al figlio di lui, purchè il figlio sia nato da un’altra moglie. Non vi è bisogno però di un nuovo matrimonio; l’uomo non diventa necessariamente il marito della donna, nonostante che questa possa essere in un certo senso “moglie” di tutto il gruppo, come accade fra i Nuer. Essa può sempre venire considerata come la moglie del suo marito defunto, e i figli nati da lei e dal suo nuovo sposo non sono riconosciuti come figli di quest’ultimo, ma del defunto.
Il levirato e la trasmissione ereditaria della vedova non sono la stessa cosa. Quest’ultima istituzione è presente talora in società in cui la discendenza unilineare è un fattore di rilievo, ma non di somma importanza. Inoltre nella trasmissione ereditaria della vedova, essa passa a uno degli agnati del morto, di solito un fratello o figlio, ma in questo caso diventa la moglie del suo nuovo sposo, e qualsiasi figlio generato in seguito da lei è considerato figlio di lui».
Particolare, ma non tanto, data la larga diffusione che ha presso numerose popolazioni, è infine la poligamia, cioè il matrimonio con più persone, comune soprattutto nella forma della “poliginia” (un maschio sposato con più femmine); ma esiste anche, presso alcune popolazioni, la “poliandria” (una femmina sposata con più maschi).
L’incesto
A lungo si è dibattuto tra gli antropologi circa l’incesto e la sua proibizione. Per incesto s’intende l’unione con un parente molto stretto; e presso quasi tutte le popolazioni è vietato, anche se esistono differenze su ciò che s’intende per parente molto stretto. Quasi ovunque sono proibite le unioni tra padre e figlia, madre e figlio, nonno e nipote, nonna e nipote, fratello e sorella. Spesso esistono limitazioni anche per ciò che riguarda i matrimoni tra altri consanguinei, soprattutto, come si è accennato, per ciò che riguarda i matrimoni tra cugini primi paralleli. Né mancano esempi di divieti relativi ai matrimoni tra affini e tra persone legate da parentela giuridica o spirituale.
Gli antropologi che insegnano nelle facoltà umanistiche tendono, in genere, ad escludere che alla base del divieto d’incesto vi sia la necessità (conscia oppure inconscia) di evitare l’insorgere di patologie genetiche nella progenie. E ad escludere altresì che il divieto si basi su di un’evitazione connessa alla troppa consuetudine con i parenti stretti. Non ne sono del tutto convinto, con particolare riferimento al primo dei due fattori, che indurrebbe ad astenersi istintivamente dall’accoppiamento con i consanguinei.
È certo però che, come è stato evidenziato da Lèvi-Strauss2, il divieto d’incesto favorisce l’esogamia (cioè il matrimonio con persone non appartenenti al proprio gruppo) e quindi lo scambio di donne, beni e informazioni tra gruppi umani diversi. La critica femminista ha attaccato il grande antropologo sostenendo che la sua visione del matrimonio come scambio di donne sarebbe frutto di un punto di vista maschilista. Egli ha comunque precisato che, volendo, si potrebbe parlare indifferentemente di scambio di uomini: se ha parlato di scambio di donne è perché è questo, in generale, il punto di vista di gran parte delle popolazioni che lo praticano.
La residenza dei coniugi
Spesso al matrimonio segue il cambio di residenza di almeno uno dei due coniugi. Se la coppia va a risiedere nell’abitazione dei genitori del marito, o nelle sue vicinanze, si parlà di virilocalità; se va a risiedere nell’abitazione dei genitori della moglie, o nelle sue vicinanze, si parla di uxorilocalità; se va a risiedere in un luogo diverso da quello in cui ciascuno dei coniugi viveva prima del matrimonio si parla di neolocalità: ciò che, almeno in prima approssimazione, accade oggi nel mondo occidentale.
In genere la virilocalità è in uso presso le popolazioni a discendenza patrilineare, la uxorilocalità presso le popolazioni a discendenza matrilineare. Ma non è sempre così: esistono culture nelle quali alla matrilinearità si associa la virilocalità e casi in cui alla patrilinearità si associa la uxorilocalità, a dimostrazione della grande variabilità delle culture umane.
La famiglia
Per famiglia, oggi in Italia, s’intende «un insieme di persone legate da vincoli di matrimonio, parentela, affinità, adozione, tutela, o da vincoli affettivi, coabitanti e aventi dimora abituale nello stesso comune». È una definizione assai progressista ma che tradisce, tra le righe, le sue origini. Fino a pochi decenni fa, infatti, la famiglia includeva anche il personale di servizio, e un maschio adulto ne era il capo. Ciò coerentemente con le tradizioni, giudaico-cristiane da un lato e greco-latine dall’altro, che vedevano la famiglia come l’insieme delle proprietà di un maschio adulto.
È scritto nelle leggi dettate da Dio a Mosè sul monte Sinai7: «Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la donna del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue o il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo». Egli si rivolge, con ogni evidenza, a un maschio adulto, elenca ciò che di norma a un maschio adulto appartiene (la famiglia) e lo diffida dal desiderarlo se è già di proprietà di un altro. Quanto al diritto romano, è ben noto che, almeno in origine, tutto era proprietà del “pater familias”, compresi i figli, sui quali aveva addirittura diritto di vita e di morte. Da notarsi, infine, che ancora nel basso medioevo, il “pater familias” non faceva parte della sua famiglia: ne era il capo.
Molto differente, e variabile, è invece presso le culture diverse dalla nostra, il concetto di famiglia (laddove esiste). Sembra tuttavia opportuno rilevare che quasi sempre, fino a pochi decenni fa, l’autorità, in seno ad essa, era prerogativa maschile: nelle culture matrilineari appateneva infatti al fratello della madre. Non è dunque un caso che contro la famiglia si siano scagliati il pensiero socialista e, ancor più, la critica femminista.
Il clan
Non si può chiudere questa breve rassegna senza accennare a termini largamente usati in antropologia come “clan” e “totem”. Se il lignaggio, spesso costituito da più famiglie, è un gruppo di discendenza di un antenato del quale non si è perso il ricordo, il clan è invece un gruppo di discendenza unilineare (patrilineare o matrilineare) comprendente un certo numero di lignaggi che si ritengono discendenti da uno stesso antenato mitico. I suoi membri talvolta si richiamano a un totem comune (in genere a un animale o a una pianta) legato, sempre miticamente, all’antenato.
In altre parole, il mio lignaggio patrilineare (che tuttavia all’interno della società italiana non ha grande importanza) è costituito da tutti i Nicolini discendenti dal mio bisnonno Pio, vissuto in Romagna nella seconda metà dell’Ottocento, che è l’antenato più antico del quale non si è perso il ricordo. Qualcosa di analogo al clan (che tuttavia nella nostra società non esiste) potrebbe essere costituito da tutti i Nicolini originari della Romagna, che potrebbero ritenersi discendenti da uno stesso antenato mitico: un ipotetico contadino di nome Nicola vissuto in Romagna nel XVII secolo, quando in Italia iniziò a diffondersi l’uso dei cognomi.
E i componenti di tale insieme potrebbero richiamarsi a un totem comune legato, sempre miticamente, all’antenato (ad esempio a un serpente).
Dove i clan e i totem sono elementi culturali importanti, quest’ultimi vengono in genere ad essere sacralizzati, e ciò, in passato, ha indotto molti antropologi a ritenere il “totemismo” un tipo di religione. In realtà, come Lévi-Strauss8 ha evidenziato, il “totemismo” va considerato piuttosto un sistema di classificazione degli individui all’interno della società cui appartengono.
Note
1 Moroni A. (1960), Analisi metodologica del rilievo della consanguineità. Parte prima: legislazione e materiale religioso e civile italiano per il rilievo della consanguineità, Folia Hereditaria et Pathologica, 9, 3: 199-247.
2 Lévi-Strauss C. (1947), Les structures élémentaires de la parenté, Presses Universitaires de France, Parigi.
3 Cultura Contadina in Toscana (1982), Bonechi, Firenze.
4 Sarti R. (1999), Vita di casa. Abitare, mangiare, vestire nell’Europa Moderna, Laterza, Roma-Bari, pp. 45-48
5 Rivière C. (1998), Introduzione all’antropologia, Il Mulino, Bologna p. 72-73 (ed. or. 1995).
6 Beattie J. (1985), Uomini diversi da noi. Lineamenti di antropologia sociale, Laterza, Bari p. 172, (ed. or. 1972).
7 Esodo, 20, 17.
8 Lévi-Strauss C. (1964), Il totemismo oggi, Feltrinelli, Milano (ed. or. 1961).