Gli eroi sono tutti giovani e belli, di Domenico Secondulfo (n°234)
Eroi, guerrieri. Come in tutte le crisi ed in particolare in una inaspettata e violenta come questa, è tornato a fiorire il lessico guerriero, con abbondante spargimento retorico di termini come eroe e guerriero, ed è soprattutto sul primo che vorrei soffermarmi un attimo con voi.
Come sarà che gli eroi saltano sempre fuori quando ci sono dei guai, ingestibili dalla ordinaria forza di reazione dei gruppi sociali? Ma è semplicissimo, perché quando una situazione di pericolo non può essere gestita dalla organizzazione ordinaria di un certo gruppo sociale, vuoi perché si tratta di un evento che travalica le capacità del gruppo, vuoi perché le scelte compiute da quel certo gruppo sociale hanno diminuito la sua capacità di far fronte ad un certo evento (e questo è il nostro caso), bisogna trovare il modo di convincere qualcuno a sacrificare anche la propria vita per tappare il buco.
Credo che nell’immaginario sociale la figura dell’eroe sia stata una delle prime a prendere forma, proprio perché è quella rappresentazione sociale che si è strutturata nel tempo per convincere i singoli individui (di solito giovani maschi) a sacrificare la propria sicurezza e la propria vita a favore di altri, del gruppo cui appartengono oppure delle persone che in quel gruppo detengono il potere.
Quindi, senza nulla voler togliere alla nobiltà del gesto di chi, individualmente, ritiene di identificarsi in questo modello (quello dell’eroe) e sacrificare la propria sicurezza e la propria vita per il proprio gruppo (famiglia, nazione, partito eccetera), la figura dell’eroe è un modo con cui la società in cui si vive cerca di convincere alcuni dei propri membri a sacrificarsi per essa, andando contro il proprio interesse personale, di solito quello più elementare, cioè la vita.
Che ci sia bisogno di eroi è quindi un sintomo eclatante del fatto che qualcosa non sta funzionando, che l’organizzazione che si è data quel certo gruppo sociale non è in grado di fronteggiare una certa sfida, un certo pericolo. Novanta volte su cento questa incapacità deriva più che dalla enormità dell’evento, da una cattiva organizzazione del gruppo stesso, che ha indirizzato le proprie risorse in un verso anziché in un altro e che, alla resa dei fatti, sacrifica un po’ di suoi componenti per salvarsi la pelle. L’eroe, quindi, è uno dei costrutti dell’immaginario più squisitamente sociali, sia perché sintetizza il dominio del gruppo sull’individuo, e ne è strumento, sia perché la sua ricompensa, visto che un eroe che si rispetti di solito ci lascia la pelle, è unicamente sociale ed è legata alla memoria ed alla riscrittura del passato, con un posto d’onore proprio per l’eroe. Una funzione meravigliosamente esercitata nella cultura orale dalle canzoni che narravano, per l’appunto, le gesta degli eroi del passato, fornendo modelli di comportamento a chi avrebbe dovuto fare l’eroe nel presente.
Lasciarci la pelle o quasi è fondamentale, visto che una componente centrale dell’eroe è il sacrificio e la sofferenza; se salvi il mondo da una vasca da bagno l’hai comunque salvato, ma è difficile che diventi un eroe. La ricompensa è sociale ma, attenzione, simbolica, l’eroe, visto che si sacrifica per il gruppo e non per se stesso è obbligatoriamente altruista, e non può essere insultato da ricompense in denaro e simili, gli deve bastare la fama.
Inoltre, tornando al sacrificio, è necessario che sia cospicuo, quindi che si sacrifichi un certo ammontare di vita, per questo gli eroi sono giovani e belli. A novant’anni è difficile essere ricordato come eroe, anche se si è morti secondo tutte le regole, e se si era anche belli oltre che giovani, la vita che si sacrifica è, probabilmente, densa di soddisfazioni, quindi con più valore, se non siete convinti pensate ai “miti” della cultura di massa: se James Dean moriva a ottant’anni entrava nel mito? E tra John Lennon e Mik Jagger, chi resterà nel mito?
Credo comunque che non ci sia bisogno di tanti esempi per illustrare questi brevi concetti, basta pensare a cosa accade durante le guerre, ad esempio dopo la disfatta di Caporetto, provocata soprattutto dall’arretratezza dell’esercito italiano e dalla disorganizzazione e incompetenza delle catene di comando; oppure dare uno sguardo, a quello che sta accadendo adesso attorno a noi, provocato in buona parte dalle modifiche che i governi hanno sinora introdotto nel sistema sanitario, indebolendolo e privatizzandolo.
Beato quel mondo che non ha bisogno di eroi.