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Categoria: Antropologia e demografia
Creato Martedì, 27 Aprile 2021

Copertina del libro "Scienze e igiene"Scienze e igiene, di Luciano Nicolini (n°243)

Chi, come me, ha frequentato le scuole elementari italiane all’inizio degli anni ’60 del Novecento ricorderà che nei sussidiari (così si chiamavano i testi contenenti le nozioni da apprendere) si trovava un capitolo intitolato “Scienze e igiene”. Conteneva poche scienze e molta igiene, e non per caso.

 

Se infatti è noto che in Italia la speranza di vita alla nascita (calcolata per contemporanei) è gradualmente passata dai 43 anni del 1901 ai 71 per i maschi e 78 per le femmine del 1981, non tutti sanno che tale formidabile aumento, inizialmente attribuito dagli storici ai rilevanti progressi della medicina, poi a quelli altrettanto rilevanti nell’alimentazione delle classi subalterne, è invece da attribuire in buona parte al miglioramento delle condizioni igieniche1.  Il dibattito verte oggi principalmente su quanto abbia contribuito all’aumento della speranza di vita, soprattutto nella fase iniziale, il miglioramento dell’igiene pubblica e quanto invece abbia contribuito il miglioramento dell’igiene privata, quella che i sussidiari intendevano promuovere.  

È mia opinione che, soprattutto nei primi decenni del Novecento, sia stato fondamentale il contributo fornito dai miglioramenti nell’igiene privata. E questo perchè nei luoghi dove ho potuto approfondire maggiormente l’argomento (il comune di Modena e quello di Comacchio) i progressi nell’igiene pubblica sono stati assai tardivi mentre relativamente precoce è stata l’alfabetizzazione delle classi subalterne2. Per fare un esempio: poche chiare indicazioni alle bambine che di lì a poco sarebbero diventate madri produssero probabilmente più effetti sulla diminuzione della mortalità rispetto ai contemporanei lenti miglioramenti nel rifornimento idrico o nella rete fognaria. Non si deve infatti dimenticare che il declino della mortalità verificatosi nella prima metà del Novecento riguardò prevalentemente la mortalità nei primi anni di vita dovuta a malattie infettive e parassitarie.

Considerazioni di questo tipo mi sono tornate in mente in occasione dell’epidemia di covid-19.

Sotto alcuni punti di vista, la situazione attuale somiglia, cambiando ciò che c’è da cambiare, a quella di inizio Novecento: si muore a causa di un agente patogeno (il coronavirus) per il quale non esistono cure risolutive e contro il quale, almeno fino a pochi mesi fa, non si disponeva di vaccini di sicura efficacia.

La differenza che salta agli occhi, nel paragonare la situazione di inizio Novecento all’attuale, è che in quest’ultimo caso chi muore sono soprattutto gli anziani.

Nel corso del primo anno dell’epidemia di covid-19 i governi hanno cercato di fermare i contagi soprattutto ricorrendo a provvedimenti di igiene pubblica: limitazioni negli spostamenti, chiusure di attività, coprifuoco notturno (quest’ultimo, in verità, è piuttosto un provvedimento di polizia). Quali effetti hanno avuto da un punto di vista sanitario?

Per farsi un’idea in proposito, occorre fare riferimento a uno dei pochi dati relativamente certi: il numero di decessi attribuiti al covid-19. Numero che, almeno nei paesi con un sistema di rilevazione anagrafica abbastanza attendibile, sembra confermato dall’ammontare dei decessi in più rispetto agli anni immediatamente precedenti il 2020.

Rapportando il numero di decessi attribuiti al covid-19 alla popolazione residente si dovrebbe avere un’indicazione circa l’efficacia dei provvedimenti ai quali i governi hanno fatto ricorso.

Mi sono limitato a fare questo semplice calcolo con riferimento ai paesi “occidentali” con più di dieci milioni di abitanti, e i risultati sono i seguenti: il Belgio ha registrato 2,1 decessi ogni mille abitanti; l’Italia 2,0; il Regno unito  1,9; USA,  Portogallo e Spagna 1,7; la Francia 1,5;  la Svezia 1,4; Olanda e Germania 1,0; la Grecia 0,9; il Canada 0,6. 

Stupisce il dato relativo al Giappone, che chiude la classifica con meno di un decesso ogni diecimila abitanti.

Giappone a parte, i risultati sono abbastanza omogenei e, soprattutto, non sembrano   influenzati  dal tipo di provvedimenti presi dai governi: l’Italia, che ha dovuto sopportare le maggiori restrizioni delle libertà individuali e sociali, ha registrato, in proporzione alla popolazione, più decessi della Svezia, dove il governo ha attuato politiche assai più permissive.

Che cosa significa? Che l’igiene non serve?

Non lo credo: l’esperienza storica ha dimostrato che seguire le norme igieniche è estremamente utile nel contrastare le malattie infettive. Significa probabilmente che, anche nel caso del contrasto al covid-19, è l’igiene privata, assai più di quella pubblica, ad essere efficace.

E come si spiegano i dati relativi al Giappone? Trattandosi di una popolazione anziana, che vive in un territorio urbanizzato e non è stata costretta a forti restrizioni delle libertà individuali e sociali, ci saremmo aspettati una maggiore mortalità da covid-19!

Può darsi che abbiano, per motivi genetici, una minor suscettibilità alla malattia. O forse sono più accurati  nell’igiene privata…

 

1 Nel 2019 la speranza di vita alla nascita calcolata per contemporanei è risultata di 81 anni per i maschi e 85 anni per le femmine. A partire dalla seconda metà del Novecento, è diventato sempre più importante l’effetto del miglioramento delle terapie mediche e chirurgiche.

Vedi Nicolini L. e Franchi G. (2018), “La speranza di vita nel comune di Comacchio”, Verona, QuiEdit. 

 

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