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Categoria: Arti figurative
Creato Sabato, 01 Gennaio 2011

Romano Righi, pittore emblematico di un'epoca, di Eugen Galasso(n°131)

Chi scrive non è propriamente un critico d’arte: non lo è per studio, non lo è soprattutto per competenza tecnica, in quanto non sa disegnare né dipingere. Negli anni, tuttavia, il confronto con le arti visive s’è imposto da sé, in correlazione con le altre arti. Ho finito per introdurre mostre (parecchie, ormai) e per scrivere di artisti vari. Considerando, poi, la cultura nella sua interezza come “rete”, non credo sia possibile astenersi dai raffronti tra certi poeti o scrittori, pittori e scultori.

Parlare di Romano Righi, la cui mostra retrospettiva si è svolta in ottobre a Rastignano (Bologna), alla Galleria “La Loggia della Fornace”, vuol dire parlare di un vero “poeta laureatus”; non solo perché il pittore bolognese, vissuto dal 1930 al 2007, lo era a pieno titolo, ma perché, formatosi in accademia, s’era anche laureato al DAMS, discutendo la tesi con Umberto Eco, quando tale indirizzo di studi era al suo zenith. Inoltre, però, il rovello teorico e quello della realizzazione, da pittore solido, capace di esprimersi in una dimensione di figurazione e anche di creazione geometrico-“astratta”, è indiscutibile, quindi la creazione non è mai meramente impressionistica: ha dietro di sé una riflessione teorica profonda.

Diremo che in Righi l’impegno sociale e politico (per anni con il Partito Comunista Italiano, sia pure criticamente) va di pari passo con le grandi riflessioni del secolo, ma anche con l’operare artistico... Una pittura profonda, che dalle prime, giovanili, realizzazioni di fine anni Quaranta, giunge fino al “Paesaggio autunnale”, del 1959, dove la ricerca sul rapporto tra figura e sfondo rimanda a quella tra testo e contesto, dove la parte superiore della realizzazione richiama, pur se con le intelligenti aperture della critica, un bassorilievo antico, preclassico, si direbbe miceneo oppure orientale. Ancora, sul crinale tra anni Cinquanta e Sessanta, “Bue squartato” e “Immaginario”, dove, rifuggendo da ogni realismo calligrafico, l’artista riflette sulla continuità tra opere diverse, in una dimensione nella quale l’immaginario è letto nella chiave strutturalista ma anche lacaniana (Lacan fu psicoanalista, ma soprattutto pensatore, appartenente anch’egli allo strutturalismo in una dimensione assolutamente originale), per cui si distingue tra reale, immaginario e simbolico, non senza tenere conto del fatto che i “tre tori” (questa l’espressione lacaniana) si integrano e interagiscono a vicenda. Nelle opere della piena maturità, dal “Pangloss” che “svanisce” in pura decorazione (l’emblema dell’ottimismo, cieco e convinto di vivere sempre nel migliore dei mondi possibili - geniale invenzione di Voltaire nel suo “Candide”), il simbolismo è più che chiaro, sempre lasciando però la sua valenza complessa; da “L’armadio di Don Giovanni” (dove è in atto lo smascheramento dei miti consumistici), fino alla decostruzione di Federico da Montefeltro, alla “Pietà” (1969), all’installazione per l’Ingresso Inaugurale della Festa dell’Unità, si arriva al “Gastone” (canzone ma anche pièce teatrale), e al “Ritorno ad Itaca” che, realizzate tra fine 1970 e anni Ottanta esprimono il ritorno a una dimensione più personale, dato lo scacco della speranza sociale e politica.

Una “riflessione attuata” dove il gioco permette di ripercorrere buona parte del Novecento in un’ottica di svelamento che ci consente una doppia lettura, quella strutturalista e semiotica e quella storica, senza che l’una escluda l’altra. Né manca lo sguardo “di fuoco”, ma ironico, sulla committenza, che è borghese ma era anche stata il “grande partito”.

Credo che tutta l’opera righiana possa intendersi come una continua ricerca, paragonabile a quella del Graal, della gnosi e non solo... Tempo fa, quando avevo parlato di ricerca a proposito dell’opera di un artista anziano, ma vivente, mi sentii rimproverare: “Ma in tutti questi anni avrò pur trovato qualcosa diamine!”. Forse la differenza sta proprio in questo; in un caso la disponibilità a rimettersi in gioco di chi coniuga affinamento tecnico e ricerca, nell’altro la convinzione di aver raggiunto una vetta.

Chi scrive, essendo anche formatore in disegno onirico, non può far a meno di apportare alcune considerazioni rispetto al colore (la forma, di per sé, da questo punto di vista, non è troppo rivelatrice). Chiaramente, l’opera d’arte, in specie se meditata, come in questo caso, ha dietro di sé un pretesto, che il testo invera, riferendosi a un contesto (di cui fa parte anche la committenza), mentre nel disegno onirico si disegna “inconsciamente”, quasi in una condizione di trance; eppure non tutto può essere troppo consapevole: qualche tratto inconscio fatalmente sfugge all’artista. Dirò allora che l’intensità cromatica e l’uso dei diversi colori attestano, ancora una volta, una personalità forte quanto decisamente critica e autocritica. Personalità forte, si badi, nell’accezione della consapevolezza data dalla cultura e dalla padronanza tecnica ma non solo del discorso sviluppato.

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