Orti distorti, contorti, insorti, di Nerio Casoni (n°115)
Gli orti accompagnano la storia dell’umanità almeno a partire dal neolitico. Nati per integrare la dieta, sono stati riproposti dalla borghesia per tenere occupati gli operai nel tempo libero, poi per superare i periodi bellici. Sempre più spesso c’è chi li propone per aiutare a superare la crisi economica, gettando, allo stesso tempo, le basi per una società rispettosa dell’ambiente. Purchè non ci si limiti a “coltivare il proprio orticello”…
Non sono in possesso di documentazione storica, ma azzardare che coltivare un piccolo appezzamento di terra, attorno al luogo di vita non itinerante, sia stata una delle principali attività che hanno contraddistinto la rivoluzione neolitica e quindi lo sviluppo del genere umano, non mi sembra né fantasioso né improprio.
Nello sviluppo storico coltivare il terreno disponibile ha assunto sempre una valenza costitutiva: quella di permettere l’allungamento dei tempi di sopravvivenza della popolazione. Dagli assedi di città durati anni, dai terreni conquistati a fatica alle impervie montagne andine con terrazzamenti magistralmente costruiti e coltivati da parte degli Incas, alle nostre terre della costa amalfitana o delle Cinque Terre liguri, provengono esempi di perizia costruttiva e produttiva. Gli esempi potrebbero dilungarsi per ogni regione geografica e per ogni popolo vivente, e in questa pratica di coltivazione intensiva si evidenzia un insieme di aspetti sociali, culturali, politici ed economici.
Parigi nell’Ottocento era luogo di ortolani che conferivano i propri prodotti a les Halles, mercati generali che hanno fatto storia, poi abbattuti per dare spazio ad uno shopping center ricavato in una buca profonda quattro piani; Il Covent Garden di Londra era mercato e luogo di commercio della produzione ortofrutticola locale, oggi attrattiva turistica.
Alla fine della prima guerra mondiale, inizia ad emergere il ruolo non solo alimentare e di integrazione delle piccole attività di coltura, ma anche quello sociale e di tempo libero. Una breve riflessione da The Times di Londra, 25 agosto 1919
(Titolo orginale: Urban Allotments, tradotto da Fabrizio Bottini)
«Mettere a disposizione degli orti è più difficile, e più necessario, in città di quanto non sia in campagna. Nelle zone rurali la terra è quasi sempre facile da trovare, ed economica. Le persone di campagna, per cui il lavoro significa stare all’aria aperta, non hanno né il desiderio né i motivi igienici del cittadino per trascorrere fuori il proprio tempo libero. … Negli ultimi anni della guerra divenne necessario, anche per aumentare la produzione di cibo, e in parte per risparmiare sui trasporti coltivandone dove si consumava, dedicare alcuni degli spazi aperti urbani ad orti…..
Esiste un aspetto della questione che è più importante del valore economico dei prodotti. Il paese si trova ora di fronte a una vera e propria nuova rivoluzione industriale. Ci sarà una settimana lavorativa di quarantotto ore al massimo, per gran parte di chi risiede nelle città. Cosa faranno ora artigiani, impiegati, commessi, e tutte le altre moltitudini di chi lavora al chiuso, del proprio tempo libero?
Qualcuno non se ne farà nulla, altri faranno peggio. Ma, se fossero disponibili spazi per orti, e le informazioni su come farci crescere verdure o fiori, in molti potrebbero felicemente usarli. Sarebbe un interesse, un momento di ricreazione, una occupazione sana per tutti…»
Non dimentichiamo i nostrani orti di guerra, illusoria panacea all’isolazionismo economico e culturale a cui il fascismo ci aveva portato, coltivando grano nei parchi e patate nei balconi.
Orti con prodotti di stagione ma buoni per tutte le stagioni, da cui durante la Seconda Guerra Mondiale gli Americani con spirito patriottico producevano il 40 per cento degli ortaggi dietro casa nei cosiddetti «Giardini della vittoria».
Speriamo che gli anni che ci aspettano non siano altrettanto terribili, ma renderli un po’ meno difficili non guasta.
«All’Avana, capitale di Cuba, la cittadinanza coltiva autonomamente il 40-50 per cento del cibo che consuma», osserva Ben Reynolds, direttore di Sustain, un’organizzazione promotrice dell’agricoltura sostenibile. «Certo, i Cubani sono costretti ad arrangiarsi e noi non siamo nelle stesse condizioni economiche, ma è un modello che almeno in parte si può replicare».
Forse sarà sufficiente aspettare ancora un poco, i processi di socialistizzazione dell’economia capitalista sembra procedano a grandi passi, almeno per quanto riguarda la socializzazione delle perdite.
Buenos Aires, 18 de mayo de 2009. (Agencia Walsh).-
Un allontanamento illegale si è realizzato nella notte nei terreni che occupano il fianco della ferrovia Sermiento nella stazione Caballito in una attività comunitaria chiamata “Huerta Orgazmika de Caballito”, distruggendo tutto quanto era coltivato e occupando il quartiere per evitare la reazione dei cittadini. Chi ha tentato di opporsi è stato duramente represso. Il terreno appartiene allo stato e non sottostà alla giurisdizione della città che, con scuse come la salvaguardia dal denge, una zanzara molto pericolosa, ha tentato in realtà di distruggere non solo un orto cittadino e collettivo ma soprattutto di evitare il radicarsi di una esperienza comunitaria che era in atto: la Huerta Orgazmikade Caballito, iniziata dai residenti che fanno parte della Asamblea Popular Diego Lamagna a partire dal dicembre del 2001.
Personalmente ho partecipato alla realizzazione di un orto nel centro di Buenos Aires e lo spirito che animava gli “ortolani” era, ed è, decisamente rivoluzionario, crea collettività, autonomia alimentare, socialità e non a caso è osteggiato e represso nella “democratica” Argentina. Una democrazia che stiamo iniziando ad assaporare a grandi sorsi anche in Italia.
A Brooklyn hanno fatto le cose ancora più in grande trasformando un vecchio campo giochi nella Red Hook Community, una fattoria urbana di 12mila metri quadrati dove studenti delle scuole superiori si alternano nel coltivare rucola, pomodori e verza che sono stati venduti a tre ristoranti della zona e in due mercati rionali.
E come in tutte le fattorie che si rispettino, anche attorno agli orti metropolitani stanno spuntando gli animali da cortile: polli, galline, conigli, tacchini, oche e perfino le arnie con le api per fare il miele.
A Manhattan, c’è un uomo specializzato nella cura degli alveari: e da un’arnia nell’Upper West Side è riuscito a ricavare ben 70 chili di miele. Nel farmers market della domenica su Columbus Avenue un banchetto vende miele, pappa reale, saponi fatti dalle api di Manhattan. Un’idea, quella dell’orto, che ha in Obama e first lady una coppia di testimonial d’eccezione: sarà difficile trovare calli nelle loro mani, ma il messaggio di marketing è iniziato a circolare “ognuno si faccia il proprio orto: mangi sano e spendi poco”; e poi sei green.
In Inghilterra l’obiettivo è insegnare a praticare un’agricoltura organica e sostenibile, senza aspettare che siano le grandi fattorie ad abbracciarla, ma all’insegna del “fai-da-te”.
In tempi non sospetti, qualcuno avrebbe commentato che si tratta di un tipico esempio di eccentricità anglosassone: non contenti di esercitare il loro pollice verde con i fiori, gli Inglesi hanno deciso di farlo anche con fragole, insalata e peperoni.
Un progetto che secondo il sindaco Boris Johnson «aiuterà Londra a diventare più verde, un posto più piacevole e allo stesso tempo capace di fornire cibo sano e locale». L’iniziativa è molto ambiziosa: utilizzando tutte le aree verdi della città, dalle rive dei canali alle ferrovie in disuso, i Londinesi non punteranno a nutrire solo se stessi, ma anche le migliaia di atleti che giungeranno in occasione delle prossime Olimpiadi.
Anche il Comune di Bologna, nei primi anni ‘80, ha istituito gli orti per i pensionati: un valido modo per dare, a chi di tempo disponibile ne ha, la possibilità di coltivare un piccolo appezzamento, dato in convenzione, con costi molto limitati, a chi ne fa domanda.
Ma perché solo gli anziani? Se come è apparso sul Corriere della sera, si individua nell’orto un elemento anticrisi, questo non dovrebbe essere solo ad appannaggio dei pensionati ma anche di famiglie e giovani che, come molti pensionati (non tutti), faticano ad arrivare a fine mese.
Anche l’esperienza di solidarietà realizzata dall’USI Sanità con il progetto Flores Magon in Messico, Chiapas, dove si muore delle più comuni malattie come ad esempio bronchiti, malaria e parassitosi, ha nella coltivazione orticola un suo punto di riferimento importante. La denutrizione diffusa uccide i più deboli. Il tasso di mortalità infantile è elevatissimo. L’alimentazione e la salute, due temi basilari per la sopravvivenza, sono dunque parte centrale del progetto Flores Magon, iniziato nel 1999.
Con riferimento alla prima area d’intervento, il Progetto Libertario sta partecipando alla creazione di coltivazioni collettive (orti) e ad un progetto per la costruzione di un impianto di potabilizzazione dell’acqua, cercando così di prevenire i gravi problemi alla salute pubblica derivanti dalle mancanze igieniche.
Volutamente schematica e informativa, questa presentazione vorrebbe tentare di evidenziare come la stessa pratica assuma differenti e opposte valenze a seconda del “terreno in cui pianti” .
L’orto appare con un aspetto ambiguo, o terapia, non so fino a quanto salvifica, di condizioni di vita nella società capitalistica, oppure strumento di lotta ed emancipazione dallo stesso mondo capitalista.
Fino a quando la zappa non sarà un’arma impropria e la zolla un corpo del reato.