Democrazia partecipativa o democrazia diretta? di Luciano Nicolini
È ormai da diversi anni che, nell’ambito della sinistra, si fa un gran parlare della cosiddetta “democrazia partecipativa”, mentre è calato il silenzio sulla democrazia diretta, un tempo auspicata (e spesso praticata) dal movimento operaio e contadino, oggi ormai confinata all’interno delle organizzazioni libertarie.
Così è, e non va affatto bene. Con il termine “democrazia partecipativa” si intende infatti, in generale, un insieme di organismi consultivi che vengono affiancati agli organismi tipici delle democrazie borghesi: questi ultimi decidono, mentre i primi si limitano a discutere.
Di norma gli organismi consultivi della “democrazia partecipativa” sono costituiti da cittadini scelti dalla pubblica amministrazione attraverso il sorteggio (non sempre: talvolta sono gli amministratori stessi a scegliere tra sedicenti “portatori di interesse”).
La democrazia diretta invece, per chi non lo sapesse, attribuisce ogni potere decisionale alle assemblee. Qualora la decisione riguardi un numero di persone tale da non poter essere riunito in un’unica assemblea, si organizzano più assemblee e queste, dopo aver discusso e deliberato circa il problema da risolvere, nominano dei delegati con vincolo di mandato, revocabili in qualsiasi momento, che si accordano fra loro, salvo ratifica da parte delle assemblee che li hanno nominati.
Alla democrazia diretta appartengono (ma non tutti sono d’accordo su questa affermazione) anche i referendum, attraverso i quali, effettivamente, i cittadini decidono direttamente, senza la mediazione di rappresentanti (e nemmeno di delegati), sui problemi che li riguardano.
La vera differenza dunque tra “democrazia partecipativa” e democrazia diretta è nel potere decisionale: nella cosiddetta “democrazia partecipativa” si partecipa alle decisioni, in quella diretta si decide effettivamente.
Quanto al metodo del sorteggio, spesso utilizzato nella “democrazia partecipativa”, personalmente, non amo questo tipo di selezione, ma non si può negare che si tratti di un metodo ugualitario. Del resto è stato spesso usato, fin dall’antichità, da molte democrazie. Nulla vieta dunque di utilizzarlo.
La cosa fondamentale però è che chi viene sorteggiato abbia effettivamente il potere di decidere (e di decidere su questioni importanti!) senza essere indirizzato da manipolatori di professione (funzionari, “facilitatori” ed “esperti” vari) nominati dalle amministrazioni: se l’assemblea costituita dai sorteggiati ritiene opportuno ascoltare il parere di esperti deve essere quest’ultima a sceglierli e convocarli!
Qualcuno obietterà che ciò a cui mi sto riferendo non è la “democrazia partecipativa” ma una distorsione di essa. Può darsi, ma allora perché non chiamarla democrazia diretta? Inoltre, in quasi tutti casi in cui l’ho vista in azione erano presenti manipolatori di professione e, comunque, anche in loro assenza, l’assemblea non aveva alcun reale potere decisionale.
Ed è questo, a mio parere, l’aspetto più grave, perché quando i cittadini che vi partecipano, passato un primo periodo di infatuazione, si accorgono che le decisioni vengono prese altrove e che stanno sostanzialmente perdendo del tempo, si disamorano della democrazia. E spesso si convincono che forse è meglio lasciare alle autorità costituite l’onere di decidere al loro posto.
In conclusione: stiamo attenti a non aprire la strada alla “servitù volontaria”!