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Categoria: Autogestione
Creato Lunedì, 09 Gennaio 2006

Da Buenos Aires alla Zanon, viaggio nelle imprese recuperate, di Ilaria Leccardi (n°71)

La capitale e un hotel recuperato

Buenos Aires dà l’impressione di essere una città ricca. Il centro, tra l’enorme Avenida 9 de Julio e Florida, è un turbine di negozi, esche per i turisti, fast food e ristoranti italiani. Le strade sono colme di gente, così come lo sono i vagoni della metropolitana, o subte come la chiamano lì, che attraversa le viscere della città. La Casa Rosada in Plaza de Mayo è splendida. Il suo colore, così atipico per una sede governativa, la rende inconfondibile simbolo della storia, passata e presente.

Esiste però anche una Buenos Aires che soffre, negli enormi quartieri periferici soprattutto, terzo mondo a due passi dalla civiltà. Ma si soffre anche nel centro. I vagoni della metropolitana danno accoglienza a venditori ambulanti, uomini di cinquant’anni rimasti senza lavoro costretti a vendere nastrini per capelli, o bambini di tre, quattro anni che girano soli, vivono soli, anch’essi a vendere, o gente che semplicemente mette in mostra le proprie malattie per sollevare la commozione altrui e guadagnarsi un’utile moneta. Si soffre per le strade. La gente soffre perché un tempo poteva ritenersi membro della classe media e oggi cammina con scarpe bucate e figli al seguito per raccogliere carta e cartone dalla spazzatura da rivendere in cambio di pochi soldi.

Infine esiste una Buenos Aires che lotta. Ogni giovedì verso le 15 Plaza de Mayo si riempie. Turisti, giovani, curiosi, fissano lo sguardo e abbassano la testa in segno di rispetto verso alcune signore anziane, ogni anno sempre meno, che lentamente conquistano il centro della piazza. Portano sulla testa un fazzoletto bianco, rappresenta un pannolino, ricamato con le parole “Aparición con vida. Desaparecidos. Madres de Plaza de Mayo” (“Apparizione con vita. Scomparsi. Madri di Plaza de Mayo”). Si dispongono in fila, stendono uno striscione che recita: “No al pago de la deuda externa” (“No al pagamento del debito estero”). Alle 15 e 30 iniziano a marciare in tondo, attorno all’obelisco bianco. E dietro di loro segue la gente, continuando a girare. Alla fine la presidentessa dell’associazione, Hebe de Bonafini, parla al megafono. Il 10 novembre, quando ebbi l’occasione di ascoltarla, pronunciò parole di conforto per i parenti dei quasi 200 ragazzi morti nella tragedia della discoteca la Republica de Cromañón nel dicembre 2004. L’argomento del discorso è ogni volta differente, ma le Madri ribadiscono regolarmente che non sono lì per compiangere la morte dei propri figli, bensì per continuare la loro lotta. E’ così dall’aprile 1977, ogni giovedì. E alla fine di gennaio saranno 1.500 i giovedì passati in piazza dalle Madri.

Buenos Aires lotta tutti i giorni. Il palazzo della legislatura, dietro a Plaza de Mayo, è quotidianamente assediato da manifestazioni di qualsiasi tipo.

La gente, anche se non ascoltata, non si stanca di gridare. Tra gli altri non possono stancarsi di gridare i lavoratori dell’Hotel Bauen, ex albergo a cinque stelle nel centro della capitale, che da alcuni mesi l’hanno rimesso in funzione dopo che il vecchio padrone lo aveva smembrato e abbandonato. Non smettono di gridare perché, anche se oggi l’albergo funziona, offre un servizio buono e dà lavoro a più di cento persone, la giustizia vuole restituirlo in mano all’antico proprietario. Non possono smettere di farsi sentire anche perché oggi l’Hotel Bauen è un simbolo molto importante nel movimento delle fabbriche e imprese recuperate, soprattutto per la sua posizione e per il fatto di essere punto di riferimento per eventi culturali, riunioni e convegni di lavoratori e associazioni, a cui può offrire una grande sala congressi. L’hotel all’interno ora è riammodernato, gli specchi e le ampie scale che danno sulla hall di ingresso fanno pensare ai suoi tempi migliori. Ma oggi le scelte non le prende il proprietario, bensì tutti coloro che dentro ci lavorano. Si riuniscono al secondo piano, un labirinto di piccole stanze che conducono fino ad una sala luminosa, dove si concentra l’attività di stampa. Lì si scrivono volantini, si fanno assemblee, si discute, si litiga, si organizzano marce e manifestazioni. Ogni giorno.

“Bajo control obrero”

Da Buenos Aires alla città di Neuquén, capitale dell’omonima provincia, ci sono poco più di mille chilometri. Quattordici ore di pullman, attraversando l’arida pampa dalla sera alla mattina. A metà tra la città di Neuquén e la più piccola Centenario c’è una zona industriale, dove tra le altre sorge una fabbrica piuttosto grande. L’insegna, ben visibile arrivando dalla statale, recita “Ceramica Fasinpat. Zanon bajo control obrero”. Si tratta di una fabbrica di ceramiche creata negli anni Settanta dall’industriale veneto Luigi Zanon e inaugurata alla presenza del generale Jorge Rafael Videla, dittatore dell’ultimo spietato regime. Negli anni l’imprenditore ha goduto delle sovvenzioni dei governi provinciali e nazionali, in primo luogo da quello di Menem, a cui era legato da amicizia. L’impresa, desiderosa di minimizzare le spese, negli anni ’90 iniziò ad attuare una politica di tagli al personale e nel settembre 2001, all’alba della crisi economica nazionale, inviò ai 330 dipendenti telegrammi di licenziamento. Da un giorno all’altro gli operai e il personale amministrativo furono lasciati in mezzo a una strada, con due mesi di stipendi arretrati. Di tutti i lavoratori circa 220 decisero di non darsi per vinti ed iniziarono una lunga lotta, guidati da un sindacato combattivo e indipendente. Il SOECN, Sindicato de Obreros y Empleados Ceramistas de Neuquén, a cui fanno riferimento anche altre tre fabbriche di ceramiche della zona, fino al 1998 corrotto e indifferente a qualsiasi abuso sofferto dai lavoratori, era il miglior alleato dell’industriale veneto. Fu così fino al momento in cui un gruppo di ceramisti della Zanon decise di istituire una lista indipendente che vinse dapprima le elezioni per la commissione interna e poi quelle per la commissione direttiva, conquistando nel giro di due anni la dirigenza del sindacato.

A partire dall’ottobre 2001 gli operai senza lavoro occuparono strade e ponti, volantinarono, girarono di casa in casa per chiedere un contributo economico o alimentare e sostenere così le proprie famiglie, vendettero nelle piazze delle città il materiale ceramico che il giudice gli assegnò in cambio degli stipendi mai pagati dall’impresa. Fu così fino al giorno in cui decisero di entrare nella fabbrica, occuparla e riattivare la produzione. Le linee ricominciarono a muoversi nel marzo 2002. La produzione, dapprima molto limitata, iniziò lentamente a crescere. Oggi, a quasi quattro anni di distanza, è giunta a 350.000 metri quadrati mensili, il 35% della capacità totale dello stabilimento. Non fu semplice trovare la materia prima per produrre, non fu semplice rimettere tutto in piedi e soprattutto non fu semplice occupare quelle posizioni amministrative lasciate vacanti dopo la fuga dell’imprenditore. Non fu facile neppure difendersi con sassi, fionde e l’appoggio della comunità locale dai numerosi tentativi di sgombero che il governo provinciale provò a condurre. Ma gli operai della Zanon sotto controllo operaio hanno sempre resistito e nel tempo hanno fatto passi da gigante. Sono riusciti ad assumere circa 210 persone, in diversi settori, e stanno rispettando i principi che si erano imposti fin dall’inizio: non esistono capi o incaricati di nessun tipo; i membri di ogni settore eleggono il proprio coordinatore, carica revocabile e a rotazione; tutti guadagnano lo stesso stipendio, se non fosse per i ridotti premi di anzianità che sono stati stabiliti; le decisioni si prendono in assemblea, una a settimana per settore, un paio tra coordinatori, e una mensile, la Jornada, in occasione della quale la produzione si blocca e tutti gli operai si riuniscono per parlare. Da un paio d’anni i lavoratori hanno dato vita ad una cooperativa dal nome emblematico: Fasinpat, ossia fábrica sin patrones, fabbrica senza padroni.

Nell’ottica degli operai ceramisti la cooperativa dovrebbe essere transitoria, essi hanno infatti come fine ultimo l’espropriazione definitiva della fabbrica e la sua statalizzazione. Nell’ottobre 2005 la gestione operaia è stata riconosciuta dalla giustizia che ha concesso un anno di tranquillità ai lavoratori, tenuti a pagare un affitto per lo stabilimento. Dopodiché si vedrà, o si troverà un nuovo accordo oppure il giudice chiederà la vendita dei macchinari e del complesso industriale per colmare i debiti lasciati da Zanon nei confronti di numerosi creditori.

Di visite come la mia la fabbrica di Neuquén ne riceve moltissime, ogni anno. Nelle due settimane circa di permanenza ho potuto dormire in una stanza interna agli stabilimenti, parlare ogni giorno con lavoratori di diversi settori, con gli infermieri e le cuoche, con operai trasformati in guardie o in preparati venditori di ceramiche. Guidata e consigliata dai membri dell’ufficio di stampa e diffusione sono stata invitata a partecipare a differenti attività quotidiane, più di una volta al programma radio tenuto dagli operai, dal titolo Nuestra lucha (La nostra lotta), e addirittura a partite di football tra ceramisti. Tutti i giorni la cerimonia del mate, l’infuso amaro tipicamente argentino bevuto a qualsiasi ora, diventava il miglior strumento di socializzazione. Allo stesso modo i pasti, consumati nella mensa della fabbrica, sono stati momenti di incontro e scambio. Nei vari giorni passati a Neuquén sono stata testimone del legame che unisce la fabbrica alla comunità locale, dimostratasi sempre vicina agli operai nel momento del conflitto. Tra le altre cose ho potuto visitare l’attrezzato centro di primo soccorso che gli operai decisero di finanziare e costruire nell’umile quartiere Nueva España, proprio di fronte alla fabbrica, troppe volte dimenticato dal governo. Nello stesso luogo ho visto in corso i lavori per la ricostruzione di tre piccole case che circa due mesi fa presero fuoco, lavori ancora una volta finanziati dalla fabbrica, definita dagli stessi operai “al servizio della comunità”.


L’ultimo giorno di visita ho potuto assistere ad un evento tragico ma allo stesso tempo straordinario. Era lunedì mattina e un’assemblea spontanea si riunì nel cortile dello stabilimento, in ascolto delle parole del segretario del sindacato, Alejandro Lopez. La notte del sabato prima due operai, che indossavano la maglietta della fabbrica, in seguito ad una lite con un commerciante, erano stati brutalmente picchiati dalla polizia locale, portati in commissariato e tenuti ammanettati e con il volto sfigurato dalle botte fino all’alba. L’assemblea decise in fretta, era necessaria una risposta immediata. La fabbrica si è fermata, sono arrivati alcuni pullman su cui gli operai sono saliti, direzione: la casa del governo di Neuquén. Da lì è iniziata una marcia di circa due chilometri, che si è conclusa con una conferenza stampa improvvisata davanti al commissariato dove i due operai erano stati portati, famoso per aver preso di mira già in altre occasioni i lavoratori della Zanon. Alla manifestazione è capitato di vedere operai di altri turni e di altre fabbriche, bambini, membri di associazioni e partiti diversi, le due Madri di Plaza de Mayo di Neuquén, Ines e Lolin. Sì, perché le Madri ci sono anche a Neuquèn, sono solo due ma estremamente combattive. Anche loro tengono un programma radio, tre giovedì al mese, si chiama La Plaza (La piazza). Il quarto giovedì, invece, marciano in tondo nel centro della città, insieme a tante altre persone. Con Lolin e Ines ho potuto parlare a lungo, sempre accompagnate dal mate bollente, mi hanno raccontato la storia della loro associazione e il rapporto che le lega da tempo con gli operai della Zanon.

E’ bello vedere come nell’Argentina di oggi si uniscano le lotte. Succede nel presente, ad esempio tra gli operai della fabbrica Zanon e i lavoratori dell’Hotel Bauen, uniti in ogni appuntamento importante e sempre pronti a battersi per la causa comune. Ma succede anche dal passato al presente, come dimostrano le anziane e allo stesso tempo giovanissime Madri, che non si stancano mai di marciare e urlare la propria protesta.