La carceri te Catanzaru ieu nun le sapia*, di Alessio Lega (n°134)
Kla-klang. Con un secco suono scrocchia la serratura alle mie spalle, come un catenaccio. Maestro, ci vieni a trovare lunedì prossimo?… questa frase m’insegue nel vuoto fuori. Poi, frastornato, corro al treno: Catanzaro Lido stazione. Sono in ritardo potrei non farcela. Gianluca che guida spinge sull’acceleratore.
Ce l’ho fatta. Ho preso quel treno assurdo che fa la tratta Catanzaro-Sibari… non riesco a leggere il mio libro, né ascoltare la mia musica, ho un groppo in gola. Poi “comodamente” (leggeteci tutta l’ironia in quel virgolettato) otto ore di viaggio quattro cambi e arriverò a Lecce. Ripartirò due giorni dopo per chissà dove.
Il groppo in gola non è dovuto all’affanno di questo continuo vagare di cantata in cantata, treni e aerei, sale improbabili con amplificazioni accrocchiate, magri cachet, ostelli miserabili, rimborsi delle spese di viaggio e divani a casa dei compagni… Il groppo lo devo a quel Kla-klang che ho in testa anche ora, mentre scrivo, da lunedì tredici settembre, giorno in cui sono entrato alle nove del mattino nel carcere minorile di Catanzaro per uscirne due ore dopo.
Ero partito per cantare a Cosenza e, la sera dopo, a Catanzaro centro. Uno degli organizzatori mi chiede se è possibile inserire nel calendario un incontro musicale nel locale istituto minorile di pena. Accetto. Oltre la solidarietà, la partecipazione al dramma, anche una dose di curiosità, non posso negarlo. Sarò punito per questo: il carcere è luogo di sofferenza, lasciate ogni orpello voi ch’entrate.
L’edificio è proprio deprimente: muri scrostati, sporco, oppressione, soffocamento. Si lasciano all’ingresso soldi, chiavi, telefonini e si passa il cancello interno a sbarre. La stanza fa pensare alle aule scolastiche della mia infanzia. Addossati alle pareti, sulle sedie, una ventina di ragazzi e qualche silenziosissima educatrice. Sulla porta le guardie. Entro nella stanza… nessuna presentazione… nessuna preparazione: buttato nell’arena per fare qualcosa. L’imbarazzo mi serra un po’ la gola. L’inizio è durissimo: cosa canto? Come conquistarli? Come declinare un rispetto reciproco?
Bisogna iniziare e inizio, vado quasi in automatico con le canzoni più immediate… però è difficile… in genere uso lo sguardo per tenere il pubblico, uso fissare gli spettatori negli occhi. Qui se indugio più d’un secondo su un volto, subito sento urlarmi “Perché guardi me?”. E poi è tutto un continuo chiedere di uscire, andare in bagno, a fumare, come a scuola. I volti sono duri, le espressioni corrucciate, sembrano quasi tutti più grandi della loro età. Tratti marcati, qualche occhiale da sole, uno effeminato e di una bellezza torbida da mille e una notte.
I miei Preconcetti! Mi sarei aspettato una maggioranza di ragazzi di colore, invece son tutti autoctoni, parlano solo dialetto, stretto, a tratti incomprensibile. Le parole mi sono familiari, ma la pronuncia le rende difficili…
Intuizione! Comincio a fare qualche pezzo nel mio dialetto leccese. Sento l’interesse crescere, si emozionano e non sono abituati a frenare l’emozione: ogni risata spacca i muri, ogni commento è un urlo, ogni sorpresa un grido. Il dialetto è gradito, è come un codice comune. L’italiano in questa Calabria è ancora una lingua straniera, ufficiale, antipatica.
Li emozionano le storie siciliane di Colapesce, della Baronessa di Carini. Li esalta la canzone di Modugno Musciu niuru, il Gatto nero che è stanco di essere maltrattato da tutti, allora va da un pittore per farsi truccare da gatto bianco. Ascoltano attenti la mia invocazione all’altrove in Straniero.
Siamo stranieri a ‘sta città, siamo stranieri a questa terra
a quest’infame e cupa guerra, alla viltà e al letargo
prendiamo il largo verso altrove, dove non seppellisci i sogni.
Non sono abituato a cantare a quest’ora del mattino, la tensione è tanta e decuplica la fatica. In capo a un’ora ho il fiatone, gira la testa e s’è già fatto tempo di finirla. Racconto del poeta ribelle russo Vladimir Vysotskij, che aveva cantato tante storie di malavita ambientate in carcere e che ha vissuto tutta la vita in un paese che per lui era una prigione. Capiva quest’ambiente dice uno dei ragazzi. Canto il Pugile sentimentale, che non vuole tirar pugni in faccia agli avversari, ma è un così buon incassatore che li sconfigge per sfinimento. Tutti si divertono e, se c’è una morale, spero la capiscano. Sono ridiventati quello che erano, ragazzini in una brutta situazione, hanno perso la loro maschera di duri, sembrano solo bambini perduti. O forse sono io che ho perso la paura e li vedo per quello che sono sempre stati.
È ora di andare. Mi alzo. Tutti si alzano. Si avvicinano. Mi stringono la mano uno per uno: bravu maestru… gratitudine per chi è riuscito a vincere per un po’ la noia di questo orribile posto.
Arrivo al cancello interno. Kla-klang. Loro restano dietro, io vado via. Alle mie spalle sento: maestru, tuerni lunitia? Ci vieni a trovare Lunedì prossimo?
* “Non conoscevo le carceri di Catanzaro”. Il titolo è ispirato a un verso di una canzone popolare salentina O Ceserina cara, Ceserina mia/ le carceri te Lecce ieu nun le sapia/ le carceri te Lecce su cruci cruci/ te lu luntanu passane l’amici.