Squid game (Il gioco del calamaro), di Luciano Nicolini (n°248)
La serie
Per qualche motivo che mi sfugge, i film non vanno più di moda. Ora è il momento delle serie. In verità queste sono nate, molti anni fa, con la televisione: i telespettatori italiani più avanti con gli anni ricorderanno quelle dedicate a “I giacobini” (1962), a “I grandi camaleonti” (1964) o alla “Odissea” (1968). I meno attempati quelle, interminabili, come “Un posto al sole” (dal 1996).
Nel frattempo, al cinema, si erano affermati i “sequel”: quando un film aveva successo, i produttori si affrettavano a farne uscire le prosecuzioni.
Le realizzazione delle serie più antiche era motivata dalla difficoltà di condensare in poco tempo gli avvenimenti narrati; le più recenti, probabilmente, trovano invece giustificazione nel noto detto in base al quale “squadra che vince non si tocca”.
Comunque sia, oggi vanno per la maggiore. E in questi giorni si fa un gran parlare di Squid Game (Il gioco del calamaro) una serie sudcoreana che sta avendo grande successo in tutto il mondo.
In essa si narra di alcune centinaia di persone, disperate per motivi economici, che partecipano a una competizione consistente in una successione di giochi infantili, l’ultimo dei quali, quello del calamaro, abbastanza violento, presenta qualche analogia con la nostra innocua “campana” (detta anche “gioco della luna”).
Colui che ne uscirà vincitore avrà un enorme premio in denaro, i perdenti saranno via via eliminati nel senso letterale del termine (moriranno tutti). La cosa più interessante è che i giocatori partecipano alla competizione volontariamente ed hanno la possibilità, in qualsiasi momento, di far terminare, per mezzo di una democratica votazione, il gioco al massacro (ma non lo fanno).
Non dirò altro circa la trama, per non rovinare del tutto la visione a chi tra i lettori fosse incuriosito e ancora non avesse visto la serie; ma quanto finora detto è senz’altro sufficiente per capire che si tratta di una metafora che allude alla società capitalistica: una società basata sulla lotta di tutti contro tutti, una lotta dalla quale pochissimi usciranno vincitori e quasi tutti usciranno perdenti. Una lotta che potrebbe in ogni momento essere fermata, se la maggioranza della popolazione lo volesse, ma che nessuno ferma, un po’ perché spera di risultare vincitore (con tutti i privilegi connessi), un po’ perché ha ormai interiorizzato le regole del gioco.
Ma com’è possibile che in tanti assistano con soddisfazione a una serie del genere? Sarebbe lo stesso che assistere, all’interno di un campo di sterminio nel quale si è prigionieri, a un documentario sulla eliminazione fisica dei reclusi ed applaudire al termine della proiezione!
Qualcuno – si dirà avrà apprezzato la metafora.
Beh, io sono tra quelli, ma non ho applaudito (anche perché ho visto Squid Game a casa mia) e, in ogni caso, non consiglierei a nessuno di assistere alla serie (se non per farsi un’idea di ciò di cui molti stanno discutendo).
Le reazioni
A proposito: come in tutti i dibattiti sulle opere dell’ingegno, c’è chi accusa Squid Game di essere diseducativa «per gli adolescenti». Così apprendiamo da Laura Valdesi (“La Nazione”, 28 ottobre) che «la polizia ha diffuso un vademecum per i genitori al fine di evitare episodi spiacevoli (…). Al centro della serie c’è infatti un game mortale che si cela dietro a giochi per i più piccoli come “1,2,3 stella”» (talora chiamato: “1,2,3 per le vie di Roma”) «succede pertanto che i bambini, imitando gli attori, sferrino calci e pugni ai compagni di gioco.(…)
“La serie Squid Game è stata classificata come vietata ai minori di 14 anni, ovvero ad un pubblico di età inferiore a quella indicata. Questa limitazione indica che i suoi contenuti possono turbare i minori con intensità variabile a breve e lungo termine”, spiega la polizia. (…)
L’uso delle nuove tecnologie deve essere inoltre ben monitorato dai genitori. E se si accorgono “che stanno circolando tra i ragazzi giochi violenti che imitano quelli ritratti in Squid Game non esitate – invita la questura – a segnalare la cosa”» alla polizia medesima.
Francamente, la serie è piena di scene di violenza, ma sono costruite in modo da non turbare molto più di quelle di un film western. Quanto ai giochi infantili, è noto che sono spesso violenti, ma raramente i bambini arrivano a uccidere chi perde e, se lo fanno, in genere non è perché lo hanno visto fare in un film: se così non fosse, quanti coetanei dovrebbero aver ucciso quelli che, come me, sono stati allevati con i film western o con pellicole americane aventi per tema la seconda guerra mondiale?
Viene il dubbio che il vero motivo per il quale la serie viene da alcuni considerata diseducativa «per gli adolescenti» sia che in essa i cristiani non fanno una bella figura (vengono descritti come una setta di esaltati).
Il reddito di cittadinanza
Nel frattempo, in Italia, il governo si propone di rendere più restrittive le condizioni richieste per percepire il cosiddetto “reddito di cittadinanza” (che, come ho scritto più volte, è in realtà un sussidio di disoccupazione). In un prossimo futuro sarà più facile perderlo. A differenza di quanto avviene nella serie sudcoreana, chi lo perderà non sarà eliminato fisicamente, soltanto dovrà mettersi in coda alla più vicina mensa per i poveri (o rubare).
Come nella serie sudcoreana, chi oggi percepisce il sussidio potrebbe, attraverso il voto, punire i partiti che ne chiedono l’abolizione e fermare questo gioco al massacro. Lo dico non perché ritenga che si possa cambiare il mondo con il voto, ma perché, in fondo, una qualche forma di reddito minimo garantito esiste in molti paesi ed è del tutto compatibile con il capitalismo. Tuttavia, come nella serie sudcoreana, chi oggi percepisce il sussidio continua a votare per chi ha in programma di abolirlo. Forse perché spera di risultare vincitore nella Lotteria Italia (e godere dei privilegi connessi alla ricchezza così raggiunta), forse perché ha ormai interiorizzato le regole del gioco. A ulteriore dimostrazione che l’emancipazione delle classi subalterne è prima di tutto una questione di emancipazione culturale.