Sardegna e Abruzzo: quale messaggio? di Luciano Nicolini (n°272)
Aumentano le astensioni in un paese che ha sdoganato il fascismo
Nel mese di marzo, la scena politica italiana è stata occupata dal dibattito intorno a due elezioni regionali: quelle sarde e quelle abruzzesi. Le guerre, nelle quali siamo sempre più implicati, alla maggior parte dei politici nostrani sembrano non interessare. Per loro, sulle guerre non c’è niente da discutere: quando il governo degli Usa comanda si deve obbedire!
Neppure sembrano molto interessati alla crisi climatica, per non dire delle condizioni di vita delle classi subalterne…
Come sa chi legge questa rivista, le competizioni elettorali non mi eccitano, ma poiché di guerre e di crisi climatica ho parlato abbondantemente nel numero precedente di Cenerentola, proverò a fare qualche considerazione anch’io a partire dalle recenti tornate elettorali.
Sardegna
Iniziamo dalle elezioni per il rinnovo del consiglio regionale della Sardegna, datate 25 febbraio. Le ha vinte Alessandra Todde, suscitando l’incontenibile entusiasmo di chi sostiene l’alleanza tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle che l’ha portata al successo. Le ha vinte superando Paolo Truzzu, sostenuto dalla destra, con circa duemilaseicento voti di differenza.
Sì, avete capito bene, solo duemilaseicento voti, su un totale di 1.447.753 elettori. E c’è stato chi è riuscito ad affermare che “il vento è cambiato”…
In realtà, chi è uscita vittoriosa da quelle elezioni è stata Giorgia Meloni, che ha portato Fratelli d’Italia dal 4,7% dei voti validi delle precedenti regionali al 13,6%. E se è vero che si è trattato, in gran parte, di reazionari rubati alla Lega di Salvini (passata dall’11,4 al 3,8%), è altrettanto vero che un conto è votare per la Lega, un altro optare direttamente per gli eredi del fascismo.
I votanti nel frattempo sono diminuiti, passando dal 53,8 al 51,9% del totale degli elettori.
Abruzzo
In Abruzzo, invece, il 10 marzo, è stato riconfermato presidente della regione Marco Marsilio, sostenuto dalla destra, con circa quarantatremila voti di vantaggio su un totale di 1.208.207 elettori. Qui a cantar vittoria, oltre alla Meloni (il cui partito è passato dal 6,5 al 24,1% dei voti validi) c’è anche il Partito Democratico (passato dallo 11,1 al 20,3%). A farne le spese, rispettivamente, la Lega (da 27,5 a 7,6%) e il Movimento 5 Stelle (da 19,7 a 7,0%).
Il dato più rilevante però è quello relativo alla percentuale dei votanti. Infatti, malgrado il voto regionale abruzzese fosse stato caricato di un enorme significato politico dai contendenti (secondo Elly Schlein e Giuseppe Conte, una vittoria di D’Amico sarebbe stata la conferma che “il vento è cambiato”; e conseguentemente la destra aveva chiamato le sue truppe al contrattacco), la percentuale dei votanti sul totale degli elettori ha continuato a diminuire, passando dal 53,1 al 52,2%.
Ricapitolando
In altre parole, i test relativi a queste due regioni confermano gli attuali equilibri politici: la destra da un lato e la (traballante) alleanza tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle dall’altro si dividono la quasi totalità dei voti validi. Giorgia Meloni ha vinto, concludendo quello sdoganamento degli eredi del fascismo iniziato molti anni fa da Gianfranco Fini e culminato con le recenti elezioni politiche che l’hanno portata a presiedere il governo. Gli effetti già si vedono: nelle scuole, come nei mezzi di comunicazione di massa, chi è morto per la libertà viene messo sullo stesso piano di chi ha proclamato le leggi razziali. E non è una bella cosa…
Ma il dato più rilevante rimane quello della costante crescita dell’area del non voto. Alle elezioni del 2022 per il rinnovo del parlamento votò il 64% degli elettori, la percentuale più bassa registrata alle politiche nella storia della repubblica (il 2013 era stato il primo anno con un’affluenza inferiore all’80% e il 1983 il primo anno con un’affluenza inferiore al 90%).
Quanto alle elezioni regionali, nel 1970, anno in cui furono istituite le quindici regioni a statuto ordinario, l’affluenza alle elezioni fu pari al 92%. Poi sempre meno persone sono andate a votare, e il fenomeno interessa particolarmente le regioni più popolose.
Molti tra i lettori ne saranno lieti, interpretando la non partecipazione al voto come un segnale del sano rifiuto dei partiti autoritari (trasformatisi ormai, tra l’altro, in comitati d’affari); altri invece ne saranno dispiaciuti, interpretandolo come un segnale del diffondersi di un nuovo qualunquismo.
Per quanto mi riguarda, mi limito a constatare l’aumento della distanza tra la popolazione e i movimenti politici che pretendono di rappresentarla, includendo in essi anche quelli che rifiutano la partecipazione alle elezioni.
Se, infatti, la distanza dei partiti presenti in parlamento e nelle istituzioni regionali dalle condizioni di vita (e quindi anche dalle esigenze) delle classi subalterne è evidente, i partiti e i movimenti di estrema sinistra non sono da meno.
E non mi riferisco soltanto a chi, come Potere al Popolo o numerosi partiti comunisti, è extraparlamentare suo malgrado, ma anche a chi ha fatto, da tempo, motivandola politicamente, una scelta astensionista.
La difesa delle minoranze, che oggi spesso viene messa al centro dell’iniziativa politica della sinistra, non deve far dimenticare la difesa delle classi subalterne, che costituiscono la maggioranza della popolazione. La solidarietà con i compagni vittime della repressione non deve far dimenticare chi vittima del potere lo è da quando è nato. La valorizzazione di scuole, cliniche e cooperative alternative non deve far dimenticare le strutture di cui si serve quotidianamente la maggioranza della popolazione.