Un nuovo inizio, di Toni Iero (n°199)
Nonostante il “quantitative easing”, lo spread si è portato a quota 200
Che le cose stiano prendendo una piega pericolosa lo avevo già scritto nei precedenti numeri di Cenerentola (vedi “La crisi bancaria in Italia” e “Il 2017, un anno difficile”). La conferma è arrivata anche troppo presto: già nella prima settimana di febbraio lo spread più osservato, ossia il differenziale di rendimento tra i titoli pubblici decennali italiani e quelli tedeschi, si è portato a quota 200 punti base (cioè al 2%).
Questo nonostante sia ancora in opera il “quantitative easing” promosso dalla Banca Centrale Europea che, acquistando 80 miliardi di euro (perlopiù di titoli governativi) al mese (fino a marzo, poi diventeranno 60), ne sostiene le quotazioni e contribuisce a mantenere bassi i tassi di interesse. Ricordiamo che il rendimento cedolare di un titolo è negativamente correlato al suo valore.
È sempre difficile trovare spiegazioni esaurienti alle fibrillazioni dei mercati finanziari, tuttavia recentemente è emerso un fattore che ha spaventato gli investitori, inducendoli a liberarsi di titoli pubblici dei Paesi deboli (Italia in primis) per acquistare quelli di Paesi ritenuti più affidabili, come la Germania. Non vi è dubbio che oggi la prima preoccupazione che assilla gli operatori finanziari sia tornato ad essere il rischio di implosione dell’Unione Monetaria Europea. Questa volta, neanche le parole del presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, sono state in grado di far rientrare tali inquietudini. La rinnovata percezione della fragilità della cosiddetta Eurozona trae spunto dal progressivo affermarsi di forze politiche che cercano di interpretare (e, talvolta, di sfruttare a proprio vantaggio) il profondo malessere dei popoli europei. L’enunciazione del programma di governo da parte di Marine Le Pen, leader del Front National e candidata alle elezioni presidenziali francesi che si terranno tra pochi mesi, in cui si sostiene la necessità di far uscire la Francia dalla moneta unica europea, è bastata per dar corpo alle paure di una prossima dissoluzione dell’Eurozona, entità inimmaginabile senza la Francia.
Ecco quindi che, con in mente la prospettiva di un ritorno alle monete nazionali, i tassi sui titoli pubblici europei si sono mossi in funzione della solidità (reale o anche solo percepita) dei singoli Stati. Così, chi compra i titoli emessi dalla Germania, a rendimento reale negativo, sta, in realtà, sperando di comprare marchi tedeschi. In questo contesto, non sorprende constatare che l’Italia sia una tra le nazioni più penalizzate.
Naturalmente, le elezioni in Francia si devono ancora tenere, la vittoria della Le Pen non appare (ancora) come l’esito più probabile, l’Eurozona non si è dissolta ma, come è naturale, i mercati finanziari cercano sempre di anticipare le possibilinovità. D’altra parte si riteneva improbabile anche l’affermazione dei sostenitori della Brexit o la vittoria di Donald Trump alle elezioni americane…
Insomma, con il decisivo contributo del nuovo presidente degli Stati Uniti, favorevole al protezionismo economico, il vaso di Pandora sembra essere stato scoperchiato e gli equilibri geopolitici ed economici internazionali sono stati rimessi in discussione. Già, ma come è attrezzata l’Italia per affrontare questa nuova fase di turbolenze internazionali?
È diventata consuetudine attribuire la causa dello sfacelo italiano all’enorme massa di debito che lo Stato ha accumulato nel tempo. In realtà, a mio giudizio, il debito pubblico italiano, prima di essere il motivo della crisi che ci assilla, ne è un effetto. Le ragioni delle difficoltà economiche e sociali del nostro Paese hanno radici profonde che vanno cercate nella storia nazionale e negli equilibri geopolitici internazionali. L’Italia è una piccola nazione (sarebbe ora di finirla con la stucchevole retorica veltroniana del “Grande Paese”) che ha rovinosamente perso l’ultima importante guerra cui ha partecipato. Fattore che ha messo i suoi governi nelle condizioni di esercitare solo una “sovranità limitata” (copyright di Leonid Brežnev) sul proprio territorio, sul proprio sistema economico e, in generale, sulle principali scelte politiche interne e internazionali. Nel corso degli anni, per una concatenazione di fattori, l’Italia è diventata un “Paese cerniera”: il più povero tra i Paesi ricchi e il più ricco tra i Paesi poveri. Va tenuto presente che il nostro sviluppo economico si è svolto per lo più durante la guerra fredda, all’ombra della protezione degli USA, quindi con tutti i relativi vincoli e condizionamenti.
Ma, a partire dalla fine della guerra fredda, Dal processo di globalizzazione, tra cui va inclusa a pieno titolo l’introduzione della moneta unica europea, l’Italia è uscita nuovamente sconfitta e ridimensionata. Era difficile attendersi un risultato diverso. La maggior parte delle grandi industrie italiane erano state svendute nel decennio degli anni ’90, proprio nel periodo in cui Bill Clinton e Tony Blair davano un’ulteriore accelerazione all’internazionalizzazione delle economie (e della finanza). Mi riferisco ai “ruggenti” anni delle privatizzazioni, durante i quali sono state liquidate le grandi imprese pubbliche operanti nei settori tradizionali (trasformazione alimentare, acciaio, banche, assicurazioni, meccanica). Il punto è che quelle erano le uniche vere grandi aziende italiane. Quindi ci siamo presentati nel momento dell’espansione del commercio mondiale avendo perso proprio quei soggetti che avrebbero potuto contribuire a far crescere la dimensione economica dell’Italia. Non paghi di questa scelta bizzarra, invece di stimolare almeno lo sviluppo di una presenza imprenditoriale nei settori innovativi, si è pensato bene di ridurre gli investimenti in ricerca. Se poi teniamo conto del fatto che, triste caratteristica italica, la ricerca è largamente condizionata da interessi estranei alla scienza, a partire dalla cappa che la chiesa cattolica ha imposto su certi ambiti di studio, se ne ricava una delle spiegazioni del disastro economico (e culturale) con cui ci confrontiamo quotidianamente. Sarebbe interessante conoscere il pacato commento di uno storico che nel futuro esaminasse il ventennio italiano che va dall’inizio degli anni ’90 al 2010. Cosa potrebbe dire di una classe dirigente che si è data da fare affinché il proprio Paese venisse affondato?
L’arte di arrangiarsi ha indubbiamente aiutato le famiglie italiane a sopravvivere in questi lunghi anni di declino. Tuttavia, appena dagli Stati Uniti è arrivata una crisi seria, ossia nel biennio 2007 – 2008, tutte le contraddizioni di un Paese incapace di fare un salto economico e sociale sono esplose. E il tracollo, anche culturale, è diventato evidente a tutti coloro che hanno l’onestà intellettuale per guardare in faccia alla realtà. Non si va lontano dal vero affermando che il panorama italiano è costellato da macerie, come alla fine di una guerra. Molte aziende sono fallite, altre sono diventate succursali di grandi gruppi esteri, diverse banche si trovano sull’orlo del collasso, l’amministrazione pubblica appare sempre più incapace di svolgere il suo ruolo, la presenza italiana nei settori ad alta tecnologia è limitata e sporadica, le nuove generazioni faticano a trovare lavoro (la disoccupazione giovanile si attesta a oltre il 40%) ed è ricominciato il flusso emigratorio verso le economie più ricche.
In queste condizioni, sarebbe necessario acquisire una consapevolezza: si può solo ripartire da zero. Oggi il programma non può che essere la “ricostruzione”. Esattamente come nel 1945. Questa volta, però, difficilmente avremo il sostegno di un Piano Marshall. Occorre ricostruire il sistema produttivo, smantellato da stolte privatizzazioni e recessioni autoinflitte; ricostruire il sistema formativo, impoverito dai finanziamenti dirottati verso le scuole confessionali e da una grottesca visione aziendalista dell’istruzione; ricostruire il sistema sanitario, sacrificato al profitto dei suoi fornitori e all’avidità di una discreta quota della classe medica; ricostruire il tessuto sociale, eroso da un’elevata concentrazione dei redditi e dall’egoismo patrimoniale di alcune fasce di popolazione; ricostruire le nostre città, frequentemente amministrate da un ceto politico incapace e predatorio; ricostruire il territorio, devastato da cementificazioni demenziali, da incuria e ecomafie spesso protette da chi le avrebbe dovute combattere; ricostruire la dignità del lavoro, ripristinando le tutele che i governi di “sinistra” hanno smantellato con una dedizione degna di miglior causa. Mi fermo qui, ma, come è ben chiaro ad ogni lettore, l’elenco potrebbe continuare.
Di fronte a tali immani compiti ci si potrebbe limitare ad affermare “beh, che se la vedano loro, politici e capitalisti. Loro ci hanno portato in questa situazione e tocca a loro sbrogliarla”. È certamente vero che la responsabilità dei guai in cui ci troviamo va addossata, in buona parte, a questi soggetti. Però, affidarsi a politici e capitalisti comporta il rischio di non risolvere alcunché e… la certezza di subire ulteriori peggioramenti delle condizioni di vita dei lavoratori. Ecco perché mi sembrerebbe opportuno formulare (e dibattere) possibili ipotesi che ci consentano di superare il brutto momento (si fa per dire, sono ormai decenni…) che stiamo vivendo. L’opera di ricostruzione che si staglia avanti a noi, potrebbe rappresentare un’opportunità per iniettare dosi di principi libertari in diversi settori tra quelli cui accennavo in precedenza.
Vogliamo provare a parlarne?