Chi di banca ferisce… di Toni Iero (n°206)
“La banca è quel posto dove ti prestano del denaro solo se riesci a dimostrare di non averne bisogno”. È la calzante definizione di istituto di credito comunemente attribuita a Bob Hope, attore comico di origine inglese. A proposito del ruolo e del funzionamento del mondo bancario se ne sentono di tutti i colori. E, direi, con buona ragione, viste le caratteristiche della particolare merce trattata da queste istituzioni: i soldi.
Anche il segretario del Partito Democratico ha pensato di dire la sua, facendo votare ai suoi seguaci in Parlamento una mozione dove, con il tipico incomprensibile linguaggio dei politici italiani, viene chiesto di non confermare Ignazio Visco nella sua attuale carica di governatore della Banca d’Italia. Infatti, in queste settimane tale incarico, della durata di sei anni, giunge a compimento e il governo deve proporre il successore.
In sostanza, la mozione votata da buona parte dei parlamentari del Partito Democratico lascia intendere come, sotto la guida di Visco, la Banca d’Italia avrebbe esercitato una vigilanza insufficiente sul sistema bancario. Renzi vorrebbe in tal modo addossare almeno una parte delle colpe dei recenti naufragi bancari (Monte dei Paschi di Siena, Banca Etruria, Banca delle Marche, Cassa di Risparmio di Ferrara, Cassa di Risparmio di Chieti, Banca Popolare di Vicenza, Veneto Banca, più altre minori) all’istituto di Via Nazionale. Secondo le parole dell’ex sindaco di Firenze, questo dimostrerebbe che il partito di cui è attualmente segretario starebbe dalla parte dei risparmiatori, contro chi li avrebbe subdolamente depredati dei risparmi e contro chi non ha svolto con efficacia il suo ruolo istituzionale di controllore.
Effettivamente, vi sarebbe di che discutere sui guasti presenti nel sistema bancario nazionale e sull’origine dei danni che tanti risparmiatori hanno subito. E certamente sono da censurare anche gli organismi, come la Banca d’Italia, che avrebbero dovuto vigilare per evitare le frodi “scoperte” di recente.
Scoperte di recente, ma cominciate in anni ormai lontani. L’allegra gestione Zonin della Banca Popolare di Vicenza è durata quasi un ventennio. L’affare che ha definitivamente affossato il Monte dei Paschi di Siena, ossia l’acquisto a prezzo da amatore della Banca Antonveneta, è stato effettuato nel 2007. Ma, in quei tempi, a capo della Banca d’Italia c’era Mario Draghi. Com’è che il Matteo non ha chiamato in causa l’attuale Presidente della Banca Centrale Europea?
E perché nessuno tira in ballo la Consob? Molte di queste imprese erano quotate in borsa e, quindi, vigilate dalla Consob. O meglio… avrebbero dovuto essere vigilate dalla Consob. Ma, per onestà intellettuale, dovremmo allargare il discorso ai collegi sindacali e alle società di revisione. Dove erano tutti questi professionisti (peraltro ben remunerati) quando le banche che avrebbero dovuto sorvegliare e di cui hanno certificato i bilanci cominciavano ad affondare?
Ma poi, davvero il segretario Renzi vuole farci credere che il governo non conti nulla nella gestione degli affari bancari? Il PD ha appoggiato tutti i governi italiani a partire dalla fine del 2011. Cosa facevano i ministri di tali governi quando dal sistema bancario italiano provenivano evidenti segnali di deterioramento? Che giornali leggevano, quando anche sulla stampa mainstream comparivano articoli in cui si descriveva come migliaia di clienti venivano vessati imponendo loro di acquistare azioni della banca se volevano ottenere un fido o un mutuo? E, nello specifico, il suo partito non ha nulla da rimproverarsi a proposito della scelta dei vertici del Monte dei Paschi di Siena?
Se davvero il Partito Democratico avesse voluto difendere i risparmiatori italiani, avrebbe potuto non accettare l’introduzione in Italia del “bail in” come strumento per intervenire nel caso di fallimento di una banca. Il “bail in” (salvataggio dall’interno) è quella regola, definita in sede europea, secondo la quale, nel caso di un dissesto bancario, i clienti (obbligazionisti e, oltre un certo limite, anche i depositanti) sono chiamati a ripianare le perdite insieme agli azionisti. Aver supinamente recepito tale direttiva europea non ha solo creato un obbrobrio dal punto di vista costituzionale (l’articolo 47 della costituzione impone la tutela del risparmio da parte della Repubblica), ma ha rappresentato anche una plateale dimostrazione di menefreghismo nei confronti degli italiani: tutti sapevano che, da decenni, in Italia gli istituti di credito vendevano ai propri clienti obbligazioni (spesso subordinate, la categoria più pericolosa) da loro stesse emesse. Titoli che nel passato erano presentati come non rischiosi e che, anche a causa dell’introduzione del “bail in”, si sono rivelati letali per migliaia di risparmiatori. Adesso, solo dopo la distruzione di alcune decine di miliardi di euro tra azioni e obbligazioni e il suicidio di un risparmiatore, tutti si pronunciano contro questa sciagurata norma. Anche quelli che hanno votato a favore del suo recepimento nell’ordinamento italiano. Un bell’esercizio di ipocrisia, dato che non si è sentita nessuna autocritica provenire dalle parti di Via del Nazareno.
La mossa del segretario del Partito Democratico, per quanto spregiudicata, appare più dettata da una logica difensiva che non offensiva. I risultati conseguiti in questa legislatura dai governi targati PD sono stati modesti. L’economia italiana continua a crescere più lentamente di quella degli altri Paesi europei; la disoccupazione è molto alta (secondo alcune valutazioni, contando anche disoccupati scoraggiati e part time involontari, il nostro Paese avrebbe il tasso di disoccupazione più elevato del continente); il “quantitative easing” lanciato dalla BCE, che, grazie alla riduzione del tasso di interesse pagato su BOT e BTP, ha reso sostenibili i conti pubblici, è stato ridimensionato ed è destinato ad esaurirsi, con probabili contraccolpi negativi sul bilancio dello Stato; i governi italiani non sono stati in grado di formulare una politica industriale per la nazione; dal punto di vista geopolitico, l’Italia appare come un pugile suonato che tutti picchiano senza paura di reazioni, dall’attacco francese a Gheddafi fino all’intricato caso Regeni; anche in conseguenza della sua fragilità, l’Italia è interessata da flussi migratori che rischiano di sfuggire di mano e le cui conseguenze sono già misurabili sul mercato del lavoro e nel risultante orientamento a destra di alcuni settori popolari; il sistema bancario nazionale, già traballante, è vulnerabile ad “attacchi” di nuovi provvedimenti normativi internazionali (Basilea IV, copertura obbligatoria delle sofferenze richiesta dalla vigilanza della BCE); la proposta dell’ex ministro tedesco delle finanze, Wolfgang Schäuble, di attribuire all’ESM una funzione di controllo dei conti pubblici dei Paesi indebitati rischia di essere l’anticamera del commissariamento dell’allegra penisola. I toni trionfalisti di qualche ministro per qualche decimale in più di crescita del PIL non riescono a nascondere l’impressionante debolezza interna e internazionale che contraddistingue in questo periodo il nostro Paese.
Dopo il clamoroso fallimento del referendum costituzionale, con una popolazione (e un elettorato) sempre più insofferente, un sistema elettorale imposto con ripetuti voti di fiducia di cui anche l’attuale governo in carica avrebbe fatto volentieri a meno e che, con tutta probabilità, non permetterà di ottenere una chiara maggioranza parlamentare, il fiorentino è in evidente difficoltà. L’esperienza della sua rissosa presenza a palazzo Chigi è stata tale da far sì che oggi ben pochi lo rimpiangano. Nelle sedi istituzionali molti ormai non fanno mistero di preferire il più sobrio Gentiloni. Sotto la sua guida, il Partito Democratico ha evidenziato la sua natura di congrega eterogenea dominata da forze centrifughe. Infatti, esso ha già subito una scissione ad opera di molti esponenti dell’ex PCI cui non garbava la perdita di potere a favore degli ex democristiani di sinistra. La stessa uscita di Piero Grasso dal PD rappresenta bene la situazione: la nave affonda e chi può se ne va.
È la cronaca di un desolante fallimento, aggravato dalla sconfitta sul rinnovo dell’incarico di governatore di Banca d’Italia. Con il governo che, proponendo proprio Ignazio Visco, ha clamorosamente smentito il segretario del principale partito della maggioranza che lo sostiene.
La sparata sul governatore della Banca d’Italia aveva lo scopo di riportare Renzi al centro della scena politica e, soprattutto, di far credere che lui (e una ministra a lui molto vicina) siano contro le banche e in difesa dei risparmiatori. È cominciata la campagna elettorale e il giovane vorrebbe presentarsi con qualche sfaccettatura “populista” per raccogliere voti tra quegli elettori italiani inferociti dai favori fatti alle banche. Purtroppo per lui e la sua avvenente ministra, sarà piuttosto difficile nascondere il loro evidente coinvolgimento (diretto e indiretto) in alcune faccende creditizie. Il bersaglio, Ignazio Visco, serviva proprio a far dimenticare le responsabilità bancarie di Renzi (e della sua “corte”) e a cercare un capro espiatorio nell’istituto di Via Nazionale, nella speranza di riuscire ad esorcizzare la voce che corre sempre più insistentemente: i politici italiani hanno ancora un paio di anni in cui trastullarsi. Poi, a governare la penisola, arriverà proprio un banchiere centrale il cui mandato a Francoforte scadrà alla fine del 2019. Ma stavolta il personaggio in questione è inattaccabile, anche dal focoso rottamatore.