Stabilità destabilizzante, di Toni Iero (n°217)
La legge di stabilità italiana destabilizza l’Unione Europea?
I provvedimenti inclusi nel Documento di Economia e Finanza che il governo italiano ha predisposto in vista dell’approvazione da parte del Parlamento di Roma stanno sollevando violente polemiche e destando l’apprensione di buona parte degli operatori finanziari e delle principali organizzazioni economiche internazionali.
La complessità della situazione attuale, dove la sofferenza sociale dei popoli europei ha determinato il successo di partiti estranei ai tradizionali schieramenti politici, si incrocia con il terremoto provocato dalle scelte dell’amministrazione guidata da Trump e richiede che si analizzino le misure economiche del governo italiano sotto diversi punti di vista.
Un primo aspetto, di natura diciamo così macroscopica, riguarda l’entità del deficit che il governo Conte intende perseguire per il 20191. Come noto, Roma ha deciso di predisporre un piano che prevede un deficit pari al 2,4% del PIL, superiore allo 0,9% concordato dal precedente governo italiano con l’Unione Europea. Vale la pena di sottolineare come nel 2017 il peso dell’indebitamento sul prodotto interno sia stato del 2,3%. Qui riecheggia la polemica tra gli “austeriani”, ossia coloro che ritengono che per ridurre il peso del debito pubblico occorra tagliare le spese e aumentare le entrate dello Stato, e i “crescitisti”, ossia quelli che sostengono che l’unica strada per ridurre il peso del debito sul prodotto interno lordo consista nel far crescere il denominatore e quindi, per ottenere tale risultato, lo Stato debba praticare una politica espansiva, aumentando le spese per stimolare l’economia. Temo che abbiano entrambi torto: il debito pubblico italiano è cresciuto (e sta crescendo) per effetto degli interessi corrisposti sui titoli di Stato. Se non si mitiga tale esborso sarà difficile conseguire significativi successi nella discesa del rapporto tra debito e PIL.
Un secondo aspetto da discutere è il contenuto della manovra di finanza pubblica impostata dall’esecutivo in carica. Semplificando, vi sono tre provvedimenti “innovativi” che dovrebbero caratterizzare il “governo del cambiamento”: la modifica delle norme per accedere alla pensione; l’introduzione della flat tax e il cosiddetto reddito di cittadinanza. Sul primo punto i partiti di maggioranza intendono allentare le attuali regole, introdotte dalla riforma “Fornero”, per permettere ai lavoratori di andare in pensione prima. Inoltre, il governo ritiene che i circa 400mila pensionamenti in più previsti per il 2019 consentiranno alle imprese di assumere almeno altrettanti giovani. Qui è d’obbligo una considerazione di carattere generale: è vero che la riforma attuata dal governo Monti ha colpito il diritto alla pensione di migliaia di lavoratori, però è altrettanto vero che il regime pensionistico non andrebbe cambiato ad ogni legislatura sulla base degli interessi elettorali dei partiti vincitori, dato che su quelle regole si basano i calcoli di lungo periodo delle persone. Quanto poi alla possibilità che si assista ad un forte incremento delle assunzioni di giovani occorrerà verificare come andranno effettivamente le cose, tenendo a mente un fattore che spesso si perde di vista: le imprese assumono quando vedono la possibilità di fare profitti aumentando la produzione. Il pensionamento di tanti lavoratori dipendenti potrebbe rappresentare per tante società solo un’opportunità per alleggerire i costi del personale.
L’introduzione della flat tax, per ora limitata solo alle partite IVA, è stata uno dei cavalli di battaglia della Lega. In generale, un’unica aliquota fiscale favorisce chi percepisce redditi più elevati. La redistribuzione delle risorse a favore delle classi meno abbienti si basa proprio sulla progressività dell’imposizione fiscale. In una fase di concentrazione dei redditi come quella attuale non si capisce che senso abbia favorire i ricchi introducendo un’unica aliquota (o riducendo il numero di quelle attuali) per tutti i contribuenti.
Veniamo al cosiddetto reddito di cittadinanza. Già la denominazione appare impropria, poiché, nei fatti, si tratta di una sorta di indennità di disoccupazione condizionata. Il successo del M5S nel Sud è strettamente legato a questo provvedimento annunciato in campagna elettorale.
Non sono contrario al fatto che lo Stato preveda misure per alleviare la povertà. Tuttavia, la precisa responsabilità della Repubblica sarebbe garantire il “diritto” al lavoro. E di cose da fare in Italia (e quindi di lavoro) ce ne sarebbero parecchie: opere di rimboschimento per contrastare il dissesto idrogeologico, manutenzione delle infrastrutture esistenti (qui cadono anche i ponti) e costruzione di nuove infrastrutture, assistenza agli anziani, rafforzamento del personale negli ospedali… Insomma, con la cifra destinata a coprire le spese del cosiddetto reddito di cittadinanza sarebbe stato possibile lanciare un piano di opere pubbliche destinate a migliorare la qualità e la sicurezza della vita dei cittadini e, nello stesso tempo, creare veri posti di lavoro equamente retribuiti.
Questa vicenda mi fa venire in mente quella scena in cui un oratore, alla fine del suo comizio, promette agli elettori “votatemi e avrete pane e lavoro”. E uno dal pubblico risponde “onorevole, non s’incomodi… basta il pane”! I problemi del Sud non si risolvono con la carità.
L’idea di presentarsi al cospetto delle istituzioni europee con un maggior deficit a causa dei tre provvedimenti prima citati è quanto di più bizzarro possano fare i dirigenti di un Paese con un debito pubblico superiore al 130% del PIL. Perché un conto è presentarsi al consesso continentale proponendo un incremento del disavanzo giustificato da un aumento degli investimenti (ricerca, infrastrutture, modernizzazione), un altro è dilatare la spesa per dare elargizioni monetarie ai propri elettori. Le polemiche con i burocrati di Bruxelles (e con i governi di altri Paesi) erano inevitabili. Ed anche la bocciatura di questa manovra da parte della Commissione Europea appare ineluttabile. Proprio qui appare un altro elemento da valutare: perché il governo italiano ha assunto un atteggiamento volutamente provocatorio nei confronti dell’Unione Europea? Che bisogno c’era di andare ad uno scontro frontale, quando era possibile, come hanno fatto i precedenti governi a trazione piddina, fare finta di rispettare le regole europee e, nei fatti, spendere per ragioni elettorali (gli 80 euro mensili di Renzi, per esempio)? Perché cercare deliberatamente la rissa con le istituzioni dell’UE?
Ho l’impressione che vi siano altre ragioni che motivano l’atteggiamento assunto dai nostri politici. Una riguarda le prossime elezioni europee, nelle quali i partiti “sovranisti” puntano ad un successo che potrebbe cambiare gli equilibri politici continentali, dentro e tra i vari Stati. Una contrapposizione vittoriosa contro gli “ottusi tecnocrati” europei mostrerebbe che è possibile “liberarsi” dai vincoli di Bruxelles, aumentando la credibilità dei cosiddetti populisti.
Non è da escludere che, ad alimentare queste violente polemiche, contribuisca anche la nuova fase aperta dall’amministrazione Trump. L’attuale inquilino della Casa Bianca è meno stupido di quanto i suoi detrattori lo cerchino di descrivere. Il tentativo di mantenere il predominio americano nel mondo si basa su una analisi lucida, che porta a concludere che il nemico principale degli USA è la Cina, non la Russia (come invece sostengono i democratici, a partire da Hillary Clinton). In questa ottica, il ruolo dell’Unione Europea come baluardo contro le presunte mire espansive di Mosca appare molto sminuito. D’altra parte, gli USA sembrano non più disposti a tollerare il mercantilismo tedesco, alla luce dell’obiettivo del Presidente americano di rilanciare l’attività manifatturiera negli USA. La stessa moneta unica europea è vista, da The Donald, come un sotterfugio che permette alla Germania di esportare un’imponente quantità di merci negli USA grazie ad una valuta deprezzata del 30% – 35% rispetto al suo valore fisiologico.
In conclusione, mi sembra che lo scontro tra sovranisti italiani e burocrazia europea a proposito della legge finanziaria dello Stato vada oltre il mero bilancio dei conti pubblici italiani. Si tratta di una partita all’interno di un quadro assai complesso, in cui entrano in gioco molte componenti operanti su diversi piani (sovranisti, globalisti, “austeriani”, “crescitisti”, Partito Popolare Europeo, americani, russi, cinesi, etc.).
In un panorama così caotico risulta persino difficile decidere da che parte schierarsi, vista l’ambivalenza e l’ambiguità di quasi tutti i soggetti coinvolti in questo scontro. L’allineamento di buona parte dei partiti di sinistra su posizioni globaliste, legate per lo più al capitale finanziario, ha lasciato spazio alla destra per presentare sé stessa (e lo Stato nazionale) come unico baluardo a difesa dei ceti popolari contro gli effetti negativi della caduta degli ostacoli allo spostamento di denaro, materie prime, merci e persone.
I popoli dell’occidente capitalista cercano protezione, sono impauriti (e arrabbiati) a causa della distruzione sociale che li ha progressivamente impoveriti. Identificano (senza avere tutti i torti) i partiti di sinistra come gli esecutori del piano predisposto dal capitale finanziario tendente a ridurre le retribuzioni, a precarizzare i posti di lavoro, ad abbattere lo Stato sociale. Purtroppo le analisi presentate negli ultimi dieci anni su questo giornale si sono rivelate esatte: il pendolo della politica sta andando verso destra e difficilmente si riuscirà ad invertirne la direzione. Con tutta probabilità, il prossimo ciclo di lotte cui dovremmo prepararci avrà come obiettivo non la realizzazione del socialismo libertario, bensì la difesa degli spazi di democrazia liberale rimasti nelle società occidentali.
1 Ricordiamo che il deficit (definito, nel linguaggio della contabilità nazionale italiana, come indebitamento) è la differenza tra le entrate e le uscite di tutti i settori della Pubblica Amministrazione, usualmente calcolato su base annua.