Il debito pubblico italiano non è più sostenibile, di Toni Iero (n°223)
Secondo uno studio del sindacato dei medici dirigenti Anaao, al 2025 mancheranno all’appello oltre 18 mila medici specialisti. Vi sarà inoltre, al 2028, anche una diminuzione di oltre 22 mila medici di famiglia. Sulla stampa si legge che la causa di questo collasso sanitario sarebbe l’introduzione della cosiddetta quota 100, che aumenterebbe l’esodo per pensionamento anche nel settore della sanità
Purtroppo, questa è una analisi solo parziale e un po’ tendenziosa del problema. Da un lato, infatti, le strutture sanitarie sono state obbligate in tutti questi anni di crisi a ridurre il personale, mediante il blocco del “turn over” (cioè del ricambio). Dall’altro, leggendo bene gli stessi articoli che scagliano l’anatema contro quota 100, si scopre che, in realtà, la stessa “produzione” di nuovi medici è da tempo insufficiente a coprire i pensionamenti. In particolare, emerge che il collo di bottiglia che limita l’ingresso di nuovi dottori nel mercato del lavoro italiano si trova nelle fase di specializzazione, 4 – 5 anni post laurea in cui il laureato in medicina acquisisce le competenze relative alla sua futura professione.
Sia il blocco del turn over che la limitazione dei fondi destinati a finanziare la specializzazione dei giovani medici sono provvedimenti presi dai governi precedenti quello attuale. E in entrambi i casi si tratta di misure assunte allo scopo di limitare la spesa pubblica.
Perché mi sono dilungato a trattare di questo argomento? Perché, a mio parere, è un buon esempio di quello che sta avvenendo in molti campi di attività dove la pubblica amministrazione è chiamata ad intervenire. Il criterio che sembra aver guidato le scelte dei governi passati è stato quello di risparmiare su tutto, con l’obiettivo di sostenere il pagamento degli interessi ai possessori di titoli del debito pubblico. Nel periodo 2010 – 2017, lo Stato ha speso per la sanità, in termini di spese correnti, 813 miliardi di euro. Negli stessi anni il pagamento dei soli interessi ha comportato l’esborso di 581 miliardi di euro, oltre il 71% di quanto destinato alla salute degli italiani!
Se facciamo mente locale al funzionamento della pubblica amministrazione “scopriamo” numerose situazioni di degrado rispetto al passato: dalla raccolta dei rifiuti, al funzionamento delle scuole, fino ad arrivare alla puntualità nella consegna della corrispondenza o negli arrivi dei treni.
Quando si parla di sostenibilità del debito pubblico si pensa subito alla capacità dello Stato di pagare gli interessi e di rimborsare i titoli pubblici in scadenza. Ritengo, invece, sia giunto il momento di valutare quanto l’onere del debito incida sulle funzioni essenziali che dovrebbero essere garantite dalla pubblica amministrazione ai propri cittadini.
Se assumiamo questo punto di vista, ci rendiamo conto di come la situazione italiana sia giunta ad un punto critico. Sono ormai decenni che, per pagare gli interessi, si risparmia su tutto, con la parziale eccezione delle spese militari (si sa, il sacro dovere di difendere la Patria esenta da qualsiasi considerazione di bassa ragioneria …).
Spesso sento amici che, nel commentare il (mal) funzionamento della pubblica amministrazione italiana, ricorrono a considerazioni di natura antropologica («il problema siamo noi italiani!») o si rifanno ad una presunta inferiorità dell’organizzazione pubblica rispetto a quella privata («dove c’è un padrone le cose vanno meglio!»).
È certamente vero che il popolo italiano ha caratteristiche diverse da quello norvegese (per avere un riferimento “alto”), così come è innegabile che in specifiche situazioni piccole organizzazioni private funzionino meglio di grandi organizzazioni pubbliche. Ma credo sia un errore pensare che tali (o altre simili) ragioni possano spiegare esaurientemente il deterioramento del livello delle prestazioni pubbliche, accentuatosi proprio in coincidenza con il processo di riduzione della spesa pubblica finalizzato ad avere più risorse per pagare esorbitanti interessi sul debito. Buona parte delle ragioni che spiegano la caduta della qualità di buona parte dei servizi pubblici si trovano in due elementi: da un lato, la spirale perversa debito – interessi sul debito – maggior debito, che ha prosciugato la disponibilità di risorse destinate ad altre spese; dall’altro, la rinuncia, da parte della classe politica nostrana, ad articolare un progetto di sviluppo e modernizzazione del Paese, con il conseguente appiattimento su un processo (Unione Europea) all’interno del quale non si è mai preoccupata di distinguere tra roboanti richiami retorici ed effettivo interesse nazionale.
D’altra parte, una regola comunemente accettata afferma che qualsiasi organizzazione che smette di investire su nuove tecnologie, sulla ricerca, sull’inserimento di personale giovane e ben preparato è destinata a diventare progressivamente meno competitiva. Le imprese che seguono tale via, in generale, falliscono. E lo Stato?
Beh, il fallimento dello Stato italiano è evidente nel clima sociale che si respira nel nostro Paese: il confronto politico è diventato uno scontro tra fazioni, senza alcuna visione di futuro; le nostre città sono sempre meno vivibili, assillate da traffico incontrollato e rifiuti; la stessa convivenza sociale è messa a rischio dall’egoismo, dall’estensione della rete della criminalità organizzata e dalle paure dei cittadini che sfociano spesso in sterili atteggiamenti giustizialisti.
Basta fare un giro per le strade di un qualsiasi centro urbano italiano per rendersi conto di quante poche persone sorridenti si incontrino. Spesso, irascibilità e scontrosità si presentano come la cifra caratteristica dell’italiano medio. Per non parlare poi della diffusione di ignoranza (soprattutto scientifica), quando non di vero e proprio analfabetismo. Testimone della difficile situazione in cui si trova la nazione in cui viviamo è anche la dinamica demografica, che mostra un andamento poco tranquillizzante, con l’Italia tornata ad essere una nazione di emigranti.
La responsabilità di questa situazione è, in gran parte, da attribuire ai partiti che, nei decenni scorsi, hanno sostenuto governi impegnati a garantire (senza peraltro riuscirci) la sostenibilità dei conti pubblici a colpi di tagli indiscriminati alle spese e aumento delle tasse (per chi le paga …). Partiti ed elite progressivamente arroccatesi nei loro attici, a leggere i loro giornali (finanziati con soldi pubblici) e a guardare le loro televisioni (finanziate con la pubblicità dei loro compari in affari). Si è creato così un sistema di interscambi di favori e denaro che si è diffuso come un tumore nella società. Questo fenomeno ha influenzato anche la qualità della spesa pubblica, trasformatasi in uno strumento per ripagare favori e clientelismi o, talvolta, messa in mano a incompetenti. Colpa dell’attuale esecutivo è quella di non aver avuto il coraggio di voltare pagina e di essersi limitato a inseguire, con la parziale realizzazione di costose promesse elettorali, il consenso di un popolo ormai stremato e incattivito da quasi quarant’anni di insensata austerità e di perverso utilizzo del denaro pubblico.
A voler ascoltare, si odono pericolosi scricchiolii. Uno dei sintomi di questo degrado è costituito dalla riemersione di forze dichiaratamente fasciste (per esempio Casa Pound e Forza Nuova). Nessuna comunità può resistere senza un tessuto sociale vitale, senza una prospettiva di futuro comune che rinsaldi i vincoli tra i suoi appartenenti. Uno dei fattori che permette di tenere insieme una collettività è proprio un efficiente sistema pubblico, in grado di erogare servizi a favore soprattutto delle fasce socialmente più deboli. Laddove ciò non avviene, vi è la regressione verso uno Stato con le sue due tipiche funzioni prevalenti: l’esattore delle tasse e il gendarme.
Per tali motivi ritengo ormai indifferibile limitare l’esborso di denaro pubblico per pagare esosi interessi su un debito che, se si continua così, è destinato a crescere incessantemente (per esempio, attraverso l’abbassamento dei tassi di interesse in virtù dell’intervento della Banca Centrale Europea, che torni, finalmente, ad esercitare il suo ruolo di prestatore di ultima istanza). Con la consapevolezza che si tratti di una condizione necessaria e non sufficiente per risollevare le sorti della società in cui viviamo.
Le risorse così risparmiate andrebbero utilizzate per rinforzare i servizi a favore dei ceti meno abbienti e per creare lavoro, dignitosamente retribuito, anche attraverso investimenti pubblici e un forte sostegno alla ricerca. Se invece si insistesse a ridurre i fondi destinati all’insieme dei servizi pubblici che permettono di mantenere un minimo di coesione sociale rischieremmo tra non molto di trovarci davanti a brutte “sorprese” difficilmente reversibili.