Usa, Russia, Vicino Oriente, Libia redazionale (n°177)
“Chi ama la guerra non l’ha vista in faccia” (Erasmo da Rotterdam)
Il compito dell’editoriale, all’interno di una rivista politico-culturale, è in prima approssimazione quello di commentare gli avvenimenti politici e sociali che sono al centro dell’attenzione dei lettori. Talvolta si tratta di un compito semplice: sullo scorso numero di Cenerentola, redatto poco prima dell’elezione del presidente della Repubblica italiana, avanzavamo alcune ipotesi che si sono poi, sostanzialmente, verificate: scrivevamo infatti che “Matteo Renzi, come tutte le primedonne, desidererebbe avere al suo fianco una persona di scarsa levatura” mentre “i poteri forti, che di lui si fidano fino a un certo punto, preferirebbero invece un politico vero, come ad esempio Giuliano Amato, dimostratosi già in passato abile e fedele”.
Così è stato, e la partita si è risolta con un compromesso molto favorevole a Renzi, che è riuscito a far eleggere, come desiderava, un presidente non troppo carismatico ma, nel contempo, navigato e benvisto dai poteri forti.
È assai più problematico commentare gli avvenimenti al centro dell’attenzione in questo finale di febbraio: in Russia e in Libia spirano venti di guerra, nel Vicino Oriente è in corso una vera e propria tempesta e, sullo sfondo, vi è il calo dei prezzi del petrolio, al quale già dedicammo spazio due mesi fa ripubblicando un interessante articolo tratto dalla rivista “n+1”. I quattro temi si intrecciano, anche se non è facile individuare un denominatore comune.
Che la Russia di Putin abbia ambizioni espansionistiche è evidente. Altrettanto evidente è che il conflitto in corso in Ucraina è stato favorito dal governo statunitense al fine di mettere in difficoltà il suo tradizionale rivale. “Tradizionale rivale”? Ma, la guerra fredda non era terminata con la fine del cosiddetto “socialismo reale”? No, non era terminata, semplicemente il governo Usa aveva assestato un duro colpo a un nemico che tale era, non per ragioni ideologiche, ma per ragioni geopolitiche. E quando quest’ultimo si è rialzato da terra, il match è continuato, senza esclusione di colpi. La guerra si è fatta calda, come dimostra ciò che sta avvenendo in Ucraina, e rischia di diventare incandescente. (Si consiglia di rileggere, a tale proposito, quanto scritto da Luca Baroncini sullo scorso numero di Cenerentola a proposito delle nuove tendenze del cinema hollywoodiano).
Nel frattempo, il Vicino Oriente è in fiamme: dapprima il governo degli Usa, seguito dai suoi alleati europei, ha appoggiato la giusta rivolta siriana contro il regime di Assad, poi ha ritenuto opportuno affiancare ai ribelli bande di estremisti sunniti che sono divenute in breve tempo padrone del campo. E Assad, guarda caso, è amico del governo russo.
La guerra contro Assad ha generato il cosiddetto califfato islamico, che oggi controlla vaste aree del Vicino Oriente e dell’Africa Settentrionale, contro cui gli Usa e i suoi alleati europei dicono di combattere. Il tutto ricorda un famoso film di Woody Allen, “Il dittatore dello stato libero di Bananas”, nel quale metà dei militari statunitensi erano schierati con il governo locale e metà con i ribelli (“La CIA - dicevano – vuole esser sicura di non sbagliare!”). Di certo, lo spaventoso incendio ha offerto il pretesto al governo degli Usa per dispiegare le proprie forze in territori di importanza strategica.
Sempre piuttosto basso è il prezzo del petrolio: i paesi produttori, con l’Arabia Saudita in testa, stanno rinunciando a lauti guadagni pur di colpire qualcuno. Di chi si tratta? Del Venezuela, della Nigeria, dell’Iran, della Russia (le cui difficoltà non sono certo sgradite al governo statunitense) e forse degli Usa stessi che, a lungo andare, potrebbero essere danneggiati dalla manovra. Anche in questo caso dunque, ai grandi burattinai di Washington il gioco potrebbe sfuggire di mano.
Alla fine dei conti un denominatore comune potrebbe essere trovato nell’aggressività del governo statunitense che sta accerchiando la Russia di Putin e la sta affamando attraverso un calo del prezzo del petrolio che la mette a dura prova. Probabilmente però la situazione è assai più complessa: gli Usa, che restano, ovviamente, lo stato più potente del pianeta, non sono più in grado di controllarlo completamente e, mentre contrastano le ambizioni della Russia di Putin, si scoprono le spalle, a vantaggio degli islamisti e, soprattutto, di quello che oggi è il loro più grande competitore: il governo cinese.
In tale complesso quadro manca il protagonismo delle classi subalterne. Quest’ultime che, pur ingannate, irreggimentate e usate, avevano manifestato, nel corso del Novecento, la loro volontà di radicale cambiamento, sono ora mute, se non cooptate entro folli disegni reazionari. Fanno eccezione alcune popolazioni dell’America Centromeridionale (si pensi agli indigeni del Chiapas), alcuni settori del movimento indipendentista curdo e, in Europa meridionale, alcuni movimenti assai confusi, ma genericamente portatori di interessi popolari, come Podemos in Spagna, il Movimento 5 Stelle in Italia e Syriza in Grecia.
È ora di svegliarsi. La popolazione mondiale ha raggiunto e superato i sette miliardi di persone e, probabilmente, non c’è più trippa per i gatti. Se anche, come autorevoli scienziati sostengono, ce ne fosse, produrla danneggerebbe gravemente l’ambiente rendendolo invivibile (ammesso che sia vivibile un pianeta popolato da sette miliardi di persone). Occorre cambiare radicalmente un modello di sviluppo che non porta da nessuna parte, se non a una disastrosa guerra mondiale della quale già si intravedono le avvisaglie e che qualcuno, anche dalle nostre parti, già inizia a descrivere come necessaria e gloriosa attività virile.