L'America vista dai cinesi: intervista a Stefano Cammelli, di Annalisa Righi (n°130)
Stefano Cammelli è nato a Bologna nel 1951. Storico dell’età contemporanea e specialista di rivolte contadine, nel 1982 subentra al padre alla presidenza dell’Associazione di turismo culturale “Genitori”, oggi conosciuta come “Viaggi di cultura”1.
Dal 2006 è direttore della rivista on-line “Polonews. info”, un sito di osservazione sulla politica interna e internazionale della Cina nel quale si trovano fonti ufficiali cinesi tradotte in italiano. Autore di numerosi libri e pubblicazioni, è professore a contratto all’Università di Bologna, nel corso di Laurea Magistrale GIOCA della Facoltà di Economia, di “Colonialism and cultural identities” (Identità culturali e colonialismo).
Cenerentola lo ha incontrato in occasione del tema cardine di questo numero: gli Stati Uniti d’America.
Qual è la sua opinione sull’America e su come sta vivendo la crisi economica?
Penso che come Stefano Cammelli vede l’America sia poco indicativo. Credo invece sia molto interessante parlare di come la vedono i cinesi, perché ci offre un punto di osservazione notevole, importante, su questa realtà.
Interessante… Cosa dicono i cinesi dell’America?
Si sono interrogati a lungo sulla crisi americana e sono arrivati alla conclusione che questa crisi non esiste. Nel senso che da qualunque punto di vista si prenda in considerazione il quadro del capitalismo americano, la sua forza, secondo i cinesi, appare solo meno evidente, meno riconoscibile, più disgregata sul territorio. Il fatto che il capitalismo americano sia riuscito a sfuggire alla localizzazione e sia diventato capitalismo cinese, vietnamita, taiwanese… non lo rende meno americano. E’ meno localizzato, meno definibile, nelle sue forze economiche e finanziarie. Molto definibile invece è l’aspetto militare che conserva tutt’ora con una superiorità schiacciante.
Sempre secondo i cinesi, esiste una forza economica molto più grande degli Stati Uniti che è l’Europa. Se noi mettiamo insieme il prodotto interno lordo dei paesi che contano: Italia, Francia, Germania, Olanda e Inghilterra - lasciando perdere gli stati come Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia, che occupano un posto secondario nell’ambito dell’economia europea – vediamo che il potere è saldamente in Europa. Solo che, per motivi legati alla nostra storia, fa comodo presentarsi in ordine sparso. Ma attenzione, questo presentarsi in ordine sparso corrisponde a strategie molto raffinate, sulle quali i cinesi indagano e sulle quali si pongono delle domande. Come mai la prima potenza al mondo, che è l’Europa, preferisce viaggiare in ordine sparso e lasciare invece che venga fuori l’America? Come mai l’Inghilterra agisce come ponte?
Queste sono le dinamiche che, osservate dal punto di vista cinese, rendono tutto sommato più giustizia all’America di quanto non rendano i giornali italiani. La valutazione che viene data degli Stati Uniti da parte cinese è dunque di parziale crisi, ma tuttora di superegemonismo incontrastato, come non era mai avvenuto nella storia dell’umanità. I primi segni di cedimento sono stati con gli errori di Bush, ma nemmeno la Roma di Augusto e di Traiano aveva potuto contare su un potere così assoluto. Il potere assoluto il più delle volte precede la crisi? In Giappone c’è un proverbio che dice: “Se fa freddo e il cielo è coperto vuol dire che è inverno. La primavera non può essere lontana”. E’ vero, ma in questo momento l’imperialismo americano, nella lettura che ne danno i cinesi, è ancora determinante, e lo sarà per molto tempo.
I cinesi osservano l’Europa presentarsi in ordine sparso, e che opinione hanno su questo?
Intanto bisogna tener presente che la Cina, con i suoi rudimentali errori di interpretazione, rende più riconoscibile quello che in Europa e nel mondo anglosassone viene in qualche modo mascherato.
Per esempio, secondo la suddivisione degli studi dell’Accademia delle scienze cinese, l’Europa occidentale è sostanzialmente costituita dalla Francia e dalla Germania, l’Inghilterra è qualcosa di diverso, Italia e Grecia sono Vicino Oriente, ai margini del Medio Oriente costituito da Libano, Cipro, Turchia, ecc.. Per i cinesi noi non siamo Europa Occidentale, ma Vicino Oriente: qualcosa di più di un errore, una vera e propria indicazione…
Le analisi che fanno i cinesi sono quelle più o meno note: la Germania e la Francia stanno pilotando questa Unione Europea verso oriente, stanno imponendo un salto qualitativo a tutte le economie del paese, e ci sono regioni che si rifiutano di farlo, hanno dei problemi enormi a farlo: l’Irlanda, la Spagna, l’Italia meridionale, la Grecia. Sono problemi noti, dal punto di vista politico ci sono dei contrasti… Ci sono poi altri aspetti che i cinesi sottolineano dell’Europa. Per esempio, rimangono affascinati da quello che è stato compiuto con l’Unione Europea. Ciò che è nato in Europa, dopo una guerra che ha messo tutti contro tutti e provocato un disastroso numero di morti, è qualcosa di leggendario. Riuscire ad abolire tutte le barriere, fare in modo che tutti questi popoli siano ormai sostanzialmente parte di una sola nazione, pur conservando frontiere linguistiche rilevanti, è un’impresa straordinaria di cui gli europei stentano a rendersi conto. Due sono le cose che i cinesi ammirano degli europei: la profondissima capacità di autocritica che hanno avuto i tedeschi e la capacità di unire l’Europa.
C’è poi un’altra cosa che notano, ed è il devastante, pericoloso e sbagliato uso dei media e della lotta politica. La loro valutazione è pessimista e negativa: non c’è nessuna democrazia in Europa, poche persone tengono in mano le leve della comunicazione decidendo loro il cosa, il quando e il come.
Tornando all’America: secondo l’osservazione cinese resterà una potenza per lungo tempo; ma gli americani, come vivono ?
Resterà una potenza per tutto il prossimo secolo. Certo, ha avuto dei problemi enormi, ma ha recuperato. Ha avuto dei problemi con l’America Latina ma ha recuperato, ha prodotto un’economia molto debole ma comunque unificata. Attraverso il NAFTA, Messico, Canada, Stati Uniti appartengono ormai a un’area comune. L’Europa non è riuscita ad attaccarla nei suoi centri più importanti, dal punto di vista tecnologico l’abisso è aumentato; l’Unione Sovietica si è sfasciata. Il quadro interno ha tinte spesso drammatiche, di grande disperazione e dolore. Nell’ultimo anno ho attraversato l’America quattro volte per lavoro e la miseria che si vede, non la si vede in Italia. E’ una povertà forte, che fa impressione perché non ha protezioni.
Come dire: c’è uno scollamento tra quello che è la superpotenza USA e i suoi cittadini che invece vivono la crisi economica…
L’America sta vivendo un momento difficilissimo ma resta la superpotenza numero uno. Resta il paese che è riuscito a vendere il suo debito a tutto il mondo, e glielo ha venduto in maniera tale che adesso ogni paese si trova nelle sue riserve un 30% - 40% del proprio patrimonio in dollari. In America la povertà è molto evidente ed è frutto di scelte errate. Errate, nel senso che nella struttura economica americana (come in tutti i paesi) esistono settori che non producono utile, o ne producono uno modesto, ma che assolvono alla funzione fondamentale di inserire i nuovi arrivati nel sistema sociale. I nuovi arrivati, che vengano da Porto Rico o dal Vietnam, non hanno nessun know-how, solo la forza della disperazione. Una certa industria (il tessile ad esempio) forse non produceva utili ma era la grande scuola di democrazia occidentale. Da una parte non aveva bisogno di personale qualificato e dall’altra consentiva ai nuovi venuti di comprendere cosa è un’organizzazione di lavoro, cosa un sindacato, cosa sia un diritto e cosa un dovere. La società americana ha abbandonato queste industrie ma ora paga un prezzo altissimo in termine di disgregazione del quadro sociale.
Quindi, quando avviene la delocalizzazione, ci sono costi sociali assai più pesanti di quelli economici?
Quando si delocalizza, ai nuovi arrivati viene a mancare l’ambiente in cui inserirsi. Perché se mancano i canali di trasmissione, inevitabilmente, le persone tornano al loro mondo di appartenenza. Questo ritorno non è amore per la tradizione (come in tanti credono) ma scelta obbligata perché non c’è altro cui aggrapparsi. Voglio dire, chi scappa dal Messico, chi abbandona il proprio mondo e spesso i suoi affetti con una sola valigia di cartone non lo fa per ritrovarsi in un quartiere periferico di Los Angeles dominato dalla banda dei chicanos provenienti dal suo villaggio! Lo fa perché ha un sogno di progresso, di democrazia, una speranza di miglioramento economico. E’ un coraggioso che vuole voltare pagina, diventare altro da quello che è sempre stato. Quando l’America rinuncia all’industria “che educava” rinuncia anche al suo mandato, abbandona queste persone alla loro cultura e al loro mondo di origine. Quando non c’è via di mezzo tra bidonville e industrie ad altissimo tasso tecnologico ogni integrazione culturale diventa impossibile. E così si arriva ai suv delle famiglie bene che attraversano villaggi dove c’è gente che, letteralmente, non sa cosa mangiare. Queste erano scene tipiche dell’India, del Messico, non degli Stati Uniti. Credo che stia qui il dramma americano. Ed è un dramma che preoccupa enormemente i cinesi perché anche loro stanno fronteggiando una massiccia migrazione interna. E perché una società dove emigrano fino a 300 milioni di persone trema fino al collo se non è in grado di ricostruire – e rapidamente – il senso più generale dell’emigrare, con il suo complesso intreccio tra speranza, integrazione, nostalgia e dolore per quanto perduto. Per questo la vicenda americana – e la sua crisi – coinvolge così da vicino gli osservatori cinesi.
1 www.viaggidicultura.com