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Categoria: Interviste
Creato Sabato, 01 Gennaio 2011

Intervista a Maurizio Cevenini , di Annalisa Righi con alcune note a margine di Luciano Nicolini (n°131)

Avevamo deciso di incontrare Maurizio Cevenini – bolognese, classe 1954 - in occasione della sua candidatura alle primarie come Sindaco del Comune di Bologna. Candidatura, come noto, alla quale ha dovuto rinunciare a causa di problemi di salute. Ci tiene, Maurizio Cevenini, a sottolineare il motivo del suo ritiro. Dopo l’episodio ischemico che l’ha colpito i medici gli hanno consigliato di cambiare i ritmi di vita. Così non potendo garantire ai cittadini quel rapporto diretto e incondizionato, che da sempre lo caratterizza, ha scelto di abbandonare (sua malgrado) la corsa.

Un uomo di partito - del partito - per questo interessante da conoscere, nonostante non più tra i candidati sindaci di Bologna.

Iscritto da ragazzo al PCI, militante, quindi capogruppo nel Consiglio del quartiere Colli, poi assessore al Personale e successivamente capogruppo nel Comune di San Lazzaro di Savena (BO), vice capogruppo del Consiglio comunale di Bologna, vice presidente del Consiglio del Comune di Bologna, Presidente del Consiglio della Provincia di Bologna, Presidente del Consiglio comunale di Bologna e oggi consigliere dell’Assemblea regionale.

Affianco, il percorso professionale: impiegato centralinista presso una casa di cura privata bolognese, poi responsabile del personale della medesima e in seguito amministratore delegato. Quindi presidente dell’Associazione Italiana Ospedalità privata di Bologna, vice presidente regionale e segretario del Consiglio nazionale della stessa associazione e componente di Unindustria Bologna.

Questi due percorsi si incrociano e si sovrappongono, per qualcuno non senza contraddizioni, nella formazione e nella storia di Maurizio Cevenini. Un uomo di sinistra che per molti bolognesi sarebbe stato l’uomo giusto, attento e vicino alla gente: in piazza, per strada, allo stadio, sui social network. L’uomo che avrebbe spostato a sinistra anche quel 30% di indecisi che notoriamente non sono politicamente determinati, ma che nei sistemi maggioritari fanno la differenza. Al Cev, com’è chiamato dai bolognesi, è riconosciuta questa funzione catalizzatrice che invece manca al PD.

Partito che nasce sulle radici (o dalle ceneri) del vecchio PCI, che si apre agli equilibri imprenditoriali, che parla di meritocrazia, che oggi ritrova al suo interno anche persone che non si sarebbero mai definite comuniste e che tuttavia stenta a decollare e a riunire attorno a sé le diverse anime esplose dopo la “svolta della Bolognina” (12 novembre 1989, tre giorni dopo la caduta del muro di Berlino).

Cerchiamo allora di conoscere meglio Maurizio Cevenini. Colui che oggi, come da tempo non succedeva, è così tanto amato dai concittadini, anche da quelli che non provengono dalla sua stessa formazione politica. Colui che forse, almeno a Bologna, avrebbe realizzato quell’ampia compagine alla quale da tempo aspira il PD.

Nella consapevolezza che le logiche locali sono ben diverse da quelle nazionali. Tuttavia…

A torto o a ragione Bologna è sempre stata invidiata per l’efficacia dei suoi servizi, efficacia che ultimamente si sta perdendo… Cosa pensa si possa fare per rendere nuovamente efficaci i servizi del Comune?

Questa domanda posta in una stagione come questa, alla vigilia di tagli imponenti agli Enti Locali che costringeranno inevitabilmente, adesso il commissario ma ovviamente nella fase di applicazione negli anni successivi, il Sindaco, parlare di cosa si può fare per rendere più efficienti e ancora più fruibili i servizi per una platea più vasta di cittadini è risposta difficilissima. Intanto, un modo di sentire Bologna che è molto mio, quello cioè di un nuovo coinvolgimento di una comunità, nel suo complesso, dei dipendenti pubblici o in generale di chi lavora per il servizio pubblico. Riattivare un senso di comunità nella grande platea degli operatori pubblici: rimotivarli. Poi, con capacità e forza, vedere le sacche di lavoro non produttivo. Per esempio - per razionalizzare, per non ripetere i servizi - abbiamo portato Bologna ad avere un’unica Azienda USL, da tre che erano. In carenza di risorse si è costretti a chiudere servizi che possono essere un doppione e irrobustirne altri. Abbiamo tre aziende per gli anziani, le famose ASP, bisognerà rapidamente arrivare ad una per dirottare tutta una serie di doppi incarichi, ruoli… Questo è un passaggio. Poi, detta brutalmente, credo che la difesa di quanto abbiamo oggi sia già un grande obiettivo.

La motivazione dei dipendenti pubblici, quindi, per rendere più efficienti i servizi al cittadino?

Il passaggio della responsabilità diretta, nelle decisioni e nelle scelte tecniche, dai politici ai dirigenti, fase iniziata circa vent’anni fa quand’ero amministratore a San Lazzaro, è un passaggio significativo. La scelta di separare la politica dalla tecnica, per certe situazioni di connivenza tra politica, impresa… in linea teorica è stata una scelta giusta. Questo però ha portato a rendere tutto tecnico, probabilmente anche il rapporto tra le strutture e i dipendenti ed ha creato un solco tra i politici e i cittadini. Bisogna ritrovare questo rapporto diretto, certi valori e l’autorevolezza degli amministratori è determinante. I cittadini, al pari degli operatori pubblici, devono individuare nel Sindaco, negli Assessori, un riferimento che li motivi.


Una delle critiche fatte alle amministrazioni precedenti è stata quella di non avere un’ idea di città. E’ ancora attuale avere un’idea di città e se sì quale sarebbe la sua per Bologna?

Noi abbiamo una sola possibilità per recuperare l’idea di città: il senso di comunità vasta.

Quella comunità che tutti rimpiangiamo degli anni settanta, quando eravamo quasi 500.000. Bolognesi nati a Bologna, o a Bologna da tanto tempo, che si sono spostati nell’arco di trenta chilometri e si sono tutti distribuiti in provincia. Come si fa a ricomporre questa comunità? Con la “Bologna grande”, quella dei 900.000 abitanti. E’ anche per questo che nei giorni di candidatura ero disponibile sul piano teorico a fare il mandato breve, fino al 2014, per far coincidere la fine del mandato della Provincia con la costituzione della “Bologna grande”: tutti a votare nuovamente, anche a Bologna, per costituire il grande Comune. In questo modo l’idea di città assume altri risvolti. Così pensata gli spazi e le distanze si percepiscono diversamente: per New York Bologna è come un piccolo quartiere. La chiusura del centro storico acquisterebbe una nuova dimensione con tutt’attorno l’hinterland, che sarebbe comunque Bologna, mantenendo però i vari campanili, cioè senza sminuire i valori delle realtà territoriali. L’idea forte è solo questa.

Una delle critiche mosse a Cofferati è stata quella di non avere realizzato una reale partecipazione democratica dei cittadini. Qual è il suo pensiero, cosa intende lei per partecipazione e come bisognerebbe realizzarla?

Il limite più grande di Cofferati è che riuscì a fare una campagna elettorale straordinaria. Durò un anno e fu tutta incentrata sulla partecipazione attiva dei cittadini, poi, nello svolgimento dei cinque anni… per motivazioni diverse… Lo dico quasi a giustificazione… Nel senso che si era creata un’aspettativa enorme… Come fare per riattivare la partecipazione? Il primo passaggio sarebbe “fidati di me”. Per riattivare la partecipazione delle persone che fanno per la comunità bisogna avere dei riferimenti che diano grande fiducia. Quindi un candidato che riesca, come fece Cofferati, a riaccendere gli entusiasmi. L’idea di poter contare è il presupposto fondamentale per riattivare la partecipazione.

Qualche esempio pratico?

Le realtà dei quartieri, così com’erano nate negli anni ottanta, che portavano alla partecipazione, stanno terminando. Oggi soprattutto ci sono i comitati di quartiere, i comitati dei cittadini che si riuniscono… La fiducia è un volano per ripartire. Ormai c’è un sistema che porta ad isolarsi in casa, più strumenti tecnologici: due telefoni, il digitale… perché uscire, perché partecipare? Questa è una barriera. Oggi uscire è un fatto un po’ d’élite. Ci sono condizioni oggettive che impediscono la partecipazione, create anche dalla politica, perché in fondo meno disturbo si ha dai cittadini più si riesce a manovrare. La rappresentanza è sempre più delegata. La nomina dei parlamentari non è più per elezione diretta. Ho grande speranza nelle associazioni, nel volontariato, questo mondo che sta crescendo. Poi ci sono dei movimenti spontanei, come quello degli studenti in questo momento…

Quando il PCI decise di cambiare nome lei era contrario… cos’è per lei il comunismo, è ancora possibile, auspicabile e se sì come?

Il comunismo è una teoria, bellissima, che purtroppo ha fallito, definitivamente.

Marx diceva: tutto quello che ti serve, niente di più, e questo vale per tutti. Non ci sono rapporti o scale di valore, siamo tutti uguali, a ognuno quello che serve. Naturalmente col ribaltamento dei rapporti di forza, ovvero con la rivoluzione come obiettivo per far saltare…

Tutti gli esempi di realizzazione del comunismo nel mondo avevano una caratteristica: in tanti avevano la casa, il lavoro etc… però mancava la libertà. E poi c’era una classe dirigente fortissima col conseguente soffocamento anche delle libertà personali. Fui contrario al cambio del nome perché ero già in Confindustria, ero già amministratore delegato di una struttura privata, e mi scocciava molto dire a tutti che noi cambiavamo nome perché eravamo identici a quelli di là o ancor più – strumentalmente - per non perdere voti, per non correre il rischio di isolarci. Feci la battaglia contro questo cambiamento, poi accettai la scelta a maggioranza, capisco a distanza che era giusto. Però arrivo a constatare che nel 1984, con la morte di Berlinguer, superammo la DC col massimo storico del 34%. Da lì, un partito di sinistra che avesse tanto non l’abbiamo più avuto.

Poi aggiungo una mia teoria. Se faccio il bilancio dalla caduta del muro di Berlino a prima della caduta. Nella positività c’è un elemento che li batte tutti ed è la libertà per milioni di persone e il prevalere della democrazia come valore più alto. Dall’altra parte c’è una conflittualità ed un numero di morti impressionanti. Si è liberato il terrorismo internazionale in tutte le sue forme. In modo cinico, l’equilibrio del terrore teneva impegnati i servizi segreti, dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti, a controllare tutto e a far fuori la gente che faceva… non c’erano i terroristi. Il campo di battaglia purtroppo era in Africa, i giochi si facevano lì. E poi il nazionalismo esasperato e le guerre di religione. Dal 1989 ad oggi il mondo è arrivato alla soglia della sua fine, uno sviluppo sfrenato…

Noi avevamo l’idea di un paese che potesse essere governato con maggior equità sociale.

Se lei oggi dovesse delineare gli ideali, i valori della sinistra…

Oggi esiste ancora una differenza tra destra e sinistra. A volte teorica perché nella traduzione pratica ci sono stati governi di sinistra, o di centro sinistra, nel mondo, che hanno messo in atto azioni pesanti: come Tony Blair nella sua seconda stagione, in parte Zapatero, o gli stessi Stati Uniti quando prevalgono i democratici. Però la differenza tra destra e sinistra c’è ed è sul numero, sulle dimensioni percentuali di persone a cui si garantisce l’equità sociale. Il prevalere selvaggio dei più forti, tagliare delle opportunità, l’Università è un esempio… La sinistra è per allargare la platea.

Quali sono i suoi pensatori di riferimento?

I miei pensatori di riferimento sono tutti nella tradizione comunista … Lucio Colletti, l’ho conosciuto, è stato un punto di riferimento importante. Ma i miei riferimenti sono nella tradizione classica. Berlinguer che è stato il mio segretario quando ero nella FGCI, negli anni più belli. Ma il riferimento di tutta la mia stagione politica, quella della crescita, è Ingrao. Apprezzavo anche molto Amendola, infatti sono più amendoliano nel mio modo di essere e di fare.

Annalisa Righi

 

Alcune note a margine dell'intervista a Cevenini

Non è un caso che abbiamo deciso di intervistare Maurizio Cevenini, il politico che, più di ogni altro, sembra godere della simpatia dei Bolognesi; e non è neppure un caso che gli abbiamo posto domande di interesse generale, lasciando da parte i problemi locali.

Bologna è stata a lungo considerata la capitale di quella sinistra, stalinista e riformista, che, come viene ricordato nell’intervista, in un passato non molto lontano aveva convinto buona parte degli Italiani. Per quanto l’Italia sia lunga e disomogenea, è lecito pensare che Cevenini rappresenti il tipo di politico che piace a coloro che, a dispetto di quanto desiderato dai dirigenti del Partito Democratico (che hanno eliminato la sinistra anche dal nome) si considerano ancora, in qualche modo, progressisti.

A Bologna i servizi pubblici sono decaduti in maniera impressionante. Lasciatelo dire a me che ci vivo fin dalla nascita e che, da convinto antistalinista, mi sono sempre guardato dall’esaltare i meriti degli amici di Baffone: negli anni ‘60 le inefficienze
che oggi sono sotto gli occhi di tutti sarebbero state semplicemente impensabili.

Dice Cevenini che per migliorare le prestazioni della pubblica amministrazione occorre che i pubblici dipendenti si sentano motivati. Avendo lavorato per ben tredici anni al suo interno, non posso che dargli ragione.

Dice anche che è giusto “separare la politica dalla tecnica”. E’ questo un vecchio discorso molto caro agli anarchici, la cui teoria dell’autogestione si basa, in gran parte, proprio sul presupposto che sia possibile distinguere le decisioni tecniche da quelle politiche (non è quasi mai vero, ma è fondamentale cercare di farlo!). Mi domando: è sicuro che il passaggio di tutta una serie di responsabilità dai politici ai dirigenti, cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi anni, sia andato in questa direzione? A me risulta che i dirigenti siano, di fatto, di nomina politica e quindi, sotto questo profilo, non sia cambiato nulla…

Secondo Cevenini, da quando sono state attribuite maggiori responsabilità ai dirigenti, all’interno della pubblica amministrazione il rapporto tra la struttura e i dipendenti sarebbe diventato “tutto tecnico”. In verità, mi sembra sia rimasto, come sempre è stato (e forse un po’ di più), “tutto gerarchico”. Quanto al solco che si è venuto a creare tra politici e cittadini, penso abbia altre spiegazioni: sostanzialmente la gran parte dei politici che amministrano la città (e, più in generale, le città italiane) conduce una vita che ha ben poco a che vedere con quella dei comuni mortali, e questo la gente lo avverte con chiarezza.

Annalisa Righi ha chiesto a Cevenini che cosa pensasse delle critiche di chi afferma che alle recenti giunte bolognesi è mancata “un’idea di città”. Anche in questo caso, la domanda, pur partendo da un (presunto) problema locale, è di portata più generale: siamo sicuri che una giunta comunale debba avere “un’idea di città”? Oppure è sufficiente che si dedichi ad amministrarla? E’ un dibattito che ha investito più volte anche l’urbanistica libertaria, e mi pare non possa dirsi concluso. Cevenini aggira l’ostacolo dicendo che la sua “idea di città” si identifica con quella di “comunità vasta”…

Per quanto concerne poi la “partecipazione democratica dei cittadini”, è ben vero che l’esperienza dei quartieri si sta esaurendo, ma la causa, a mio parere, non è che “il sistema porta ad isolarsi in casa”, quanto piuttosto che, come ammette lo stesso Cevenini, “meno disturbo si ha dai cittadini più si riesce a manovrare”. In altre parole: le assemblee (o, comunque, gli organismi) di quartiere favoriscono la partecipazione nella misura in cui decidono su cose importanti; se si tratta di decidere soltanto se investire cinquecento euro nel coro locale oppure nella mostra dell’artista (sedicente) d’avanguardia, è chiaro che partecipare non interessa a nessuno. Al contrario, discutere per ore di cose di scarsa importanza allontana i cittadini da ogni forma di partecipazione.

Venendo ai grandi temi della politica, Annalisa Righi ha domandato a Cevenini come mai, all’epoca della “svolta della Bolognina”, fosse contrario a cambiar nome al Partito Comunista. “Il comunismo – risponde, sfumando le posizioni sostenute allora – è una teoria bellissima, che purtroppo ha fallito, definitivamente”. Appare evidente che sta parlando del comunismo autoritario, l’unico esistente per il vecchio PCI. Cosa confermata dal fatto che gli attribuisce il difetto di negare ogni libertà.

I suoi pensatori di riferimento, del resto, “sono tutti nella tradizione comunista” (autoritaria): Marx, Colletti, Berlinguer, Ingrao, Amendola…

Il che non stupisce, se si pensa che persino Achille Occhetto, considerato fin da giovane uno dei più preparati teorici del Partito Comunista, da noi intervistato (vedi Cenerentola, n. 61), mostrò di non conoscere i pensatori di riferimento del comunismo libertario. Non è il caso di buttar loro la croce addosso: la colpa è di chi, come noi, conoscendo l’immenso patrimonio teorico del socialismo antiautoritario, non ne sa valorizzare le intuizioni e attualizzare il messaggio.

Luciano Nicolini