Egitto: la rivoluzione pacifica autorganizzata dai giovani, di Annalisa Righi (n°133)
Bologna, tardo pomeriggio di un giorno di mezzo inverno, incontriamo Daniele Cantini, trentun’anni, antropologo. Professore a contratto presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, dal 2007 è ricercatore associato presso il Cedej, Centro di Studi e di Documentazione Francese al Cairo. Ed è proprio in rapporto all’Egitto, e alla sua esperienza sul campo in questo paese, che “Cenerentola” l’ha voluto intervistare.
Il 25 gennaio, dopo le rivolte in Tunisia, gli egiziani sono scesi in piazza per riappropriarsi dei diritti negati dall’estrema povertà e dalla corruzione. Cerchiamo allora di capire, attraverso le parole del nostro, le sfumature, sociali, religiose, organizzative che hanno permesso la manifestazione di questo efficace movimento di cambiamento.
La rivolta avvenuta in Egitto ha collegamenti con quella tunisina?
Il contagio è provato, in questo senso. C’è un documentario su al Jazeera in cui si parla di un gruppo di giovani, “movimento 6 aprile”, che ha avuto influenze non solo dalla Tunisia ma anche dalla Serbia. In Egitto sono arrivate persone che avevano partecipato nel 2000 alla caduta di Milošević e che già in quell’occasione avevano utilizzato tecniche di resistenza pacifica.
In piazza Tahrir (principale teatro della rivolta) - che è enorme, basti pensare che in uno degli edifici che si affaccia sulla piazza, sede di uffici governativi, lavorano 18.000 persone - i manifestanti avevano autorganizzato un servizio di sicurezza: controllavano la carta d’identità di ogni manifestante e che non avesse armi, neanche leggere, in modo da assicurare uno svolgimento pacifico. Inoltre, hanno relazioni con altri paesi, principalmente attraverso internet.
Allo steso tempo però ciò che accade in Egitto è particolare e specifico. Nel paese la protesta è cominciata almeno cinque anni fa, infatti il “movimento 6 aprile” si rifà ad uno sciopero generale del 6 aprile 2008. Fino ad ora le mobilitazioni erano sempre fallite: pochi manifestanti, molti soldati. Questa volta anche gli organizzatori della protesta sono rimasti colpiti per il numero elevatissimo di persone che vi hanno partecipato. Il che, probabilmente, ha a che fare con l’effetto positivo della rivolta in Tunisia.
Quindi, un passaggio di comunicazioni e di informazioni - soprattutto attraverso internet - per gestire al meglio le proteste, e il coraggio dato dall’esempio tunisino. E le cause che hanno portato a questo?
Per quanto riguarda l’Egitto le cause sono molto profonde. Risalgono a più di trent’anni fa. Faccio un esempio, un professore di scuola media guadagna circa 50 euro al mese, che sono pochi. Questo ha generato un fenomeno studiato già dagli anni settanta: i professori non insegnano durante le ore di lezione e obbligano gli studenti ad andare nel pomeriggio a lezioni private a pagamento. Di fatto, si prendono il salario giusto tramite una tassazione diretta alle famiglie. Da più di trent’anni c’è uno scollamento progressivo tra chi ha tantissimo, poco, pochissimo, meno di pochissimo. Ho imparato cos’è la povertà più in Egitto che non in Africa.
Chi sono i giovani che organizzano questi eventi di protesta, e i manifestanti?
Ecco, un conto sono gli organizzatori e altro sono i manifestanti. Gli organizzatori sono ragazzi culturalmente e tecnologicamente preparati. Tanti di loro vengono dall’Università Americana del Cairo, che è un’università privata, molto antica (è del 1919) e molto costosa. Possono avere tra i venticinque e i trentacinque anni e possono avere dei dottorati, anche presi in Inghilterra o in America… Ma la cosa che ha dato forza è stata la partecipazione popolare, in piazza c’erano tutti gli strati della popolazione, anche le donne. C’erano donne completamente velate, e donne in jeans attillati e magliette. Ragazzotti in ciabatte di gomma (classico indicatore di povertà estrema) e quelli che lavorano per Google a Dubai.
E per chi vuole invece cercare o trovarvi una connotazione religiosa?
Nel 1981, quando Sadat fu ucciso da un membro dei Fratelli Musulmani, divenne evidente che certe frange islamiste avevano l’obiettivo di raggiungere il potere. Nel 1979 era avvenuta la rivoluzione in Iran, partita come laica e terminata nell’instaurazione di una teocrazia, e da allora c’è stata l’idea che fossero preferibili dittatori, spesso sanguinari e criminali, all’avere dei fondamentalisti al potere; Mubarak, come altri, è sempre stato inserito in questo meccanismo. Però è importante dire che all’inizio delle manifestazioni anche i Fratelli musulmani sono stati colti di sorpresa. Per i primi due giorni non hanno rilasciato dichiarazioni. La manifestazione è partita come movimento popolare per manifestare contro Mubarak e le condizioni di vita della popolazione. C’era poi la percezione di un senso di disfacimento del sistema paese, un senso di ingiustizia profonda esperita da una certa élite culturale sempre più a disagio per la disgregazione della struttura sociale causata dallo squilibrio enorme.
Un professore universitario ordinario a fine carriera, con esperienze e riconoscimenti all’estero e notevole attività pubblicistica, ha uno stipendio che non arriva a trecento euro al mese. Le cause del malessere sono reali, e non c’è stato nessun indottrinamento. Non c’è mai stato un momento in cui la piazza abbia scandito slogan religiosi. Non ci sono mai state bandiere verdi dell’Islam. L’ultima domenica prima della partenza di Mubarak i cristiani hanno pregato in piazza insieme ai musulmani, e c’erano anche dei preti copti che hanno partecipato alle proteste.
I musulmani in Egitto come vivono la religione, sono integralisti?
I musulmani sono il 90% della popolazione. Ci sono strati della società che hanno un’appartenenza religiosa rigida, ma per la maggior parte della società egiziana non mi sento di dirlo. E’ una società composita, che ha cominciato i processi di secolarizzazione già negli anni 1920 durante il movimento di liberazione dagli inglesi; avevano uno slogan che diceva: “la religione è di dio e lo stato di tutti”. Non bisogna dimenticare che anche Nasser, un socialista, nella religione credeva il giusto. L’islamizzazione (o reislamizzazione) della società inizia con Sadat negli anni ’70 ed è parte di un fenomeno più ampio a livello regionale.
Quindi una protesta che nasce dal popolo perché tocca l’uomo, le sue condizioni di esistenza?
Sì, il cittadino. Ho letto commenti che ponevano l’attenzione sul pericolo islamico. Questo pericolo c’è, nessuno può dire cosa accadrà fra tre mesi. Però bisogna riconoscere che è la gente che è andata in piazza e - nonostante il primo tentativo violentissimo di repressione della polizia (raccontatomi da un collega tedesco che era presente) - non si è mossa. Non avevano più niente da perdere.
Da un lato gli organizzatori, giovani preparati culturalmente e tecnologicamente, dall’altro la disperazione dei manifestanti che insieme hanno prodotto di fatto la dipartita di Mubarak. E adesso? Che scenari possono aprirsi?
I manifestanti chiedevano sostanzialmente che Mubarak se ne andasse, quindi riforme politiche e sociali per cambiare il sistema. Mubarak lo hanno mandato via, ma cambiare il sistema è cosa più lunga e difficile. L’Egitto resta un paese militare. E, relativamente al sistema economico, dipende dagli Stati Uniti d’America, ha rapporti commerciali con Israele, ha più di seicento imprese italiane sul territorio. Questo sarà difficile cambiarlo; sono pessimista perché il mondo non va in quella direzione, Europa inclusa. Nella migliore delle ipotesi si può dire che riusciranno ad avere elezioni democratiche con dei partiti vagamente liberi. Però il cambiamento vero richiederà molto più tempo.
Ora bisogna stare attenti che nessuno metta il cappello a questo movimento, il futuro è molto incerto.
C’è qualcosa che desidera dire a conclusione?
Mubarak era al potere da trent’anni e molti dei manifestanti (la maggior parte erano giovani attorno ai trent’anni) si sono trovati per la prima volta a parlare di politica. Si sono avute manifestazioni di azioni civiche elevate: autorganizzazione, per mantenere puliti i luoghi della protesta, ed anche autoprotezione, come nel caso dei 1.600 criminali detenuti evasi per creare disordini con la polizia assente (quando il regime ha fatto sparire la polizia dalle strade, in molti quartieri i cittadini si sono autorganizzati per proteggere i propri beni e le proprie comunità). Per diciotto giorni e diciotto notti i manifestanti hanno mantenuto senso civico e capacità di autogestione quasi commoventi, lasciando pochissimo spazio ai colpi di testa. Un popolo che per secoli è stato calpestato e sottomesso, per la prima volta, si è reso conto di poter chiedere un cambiamento e ottenerlo: Mubarak è andato via. Questo credo contribuisca davvero a cambiare l’autorappresentazione delle persone e quindi a migliorare il vivere civile.