Delocalizzazioni, licenziamenti e cementificazione del territorio, di Luciano Nicolini (n°250)
Il grido di dolore
Non passa giorno senza che si senta parlare di aziende, soprattutto manifatturiere, che chiudono i loro stabilimenti in Italia e trasferiscono le loro produzioni all’estero.
Ne parlano i quotidiani, le televisioni, adesso anche i deputati e i senatori. Ne parlano soprattutto i sindacati conflittuali che, in tempi nei quali far conquistare ai lavoratori migliori condizioni di vita e di lavoro risulta difficile, si dedicano prevalentemente alla difesa di chi, da un giorno all’altro, rischia di perdere il salario e, insieme ad esso, praticamente tutto.
Il fenomeno delle delocalizzazioni non è nuovo: si manifesta da diversi decenni. Le sue motivazioni, come chiunque può leggere su Wikipedia, «sono molteplici, anche se tutte riferentesi alla convenienza economica. Per prima l’economicità, che deriva dalla ricerca di Paesi in cui ci sia un concreto vantaggio comparato rispetto ad altri, vale a dire un insieme di regole, situazioni, usi e consuetudini che rendono quel tipo di lavoro meglio realizzabile lì piuttosto che altrove. Per esempio, una produzione in cui la parte focale sia costituita dalla mano d’opera rispetto al valore intrinseco delle merci in trasformazione, viene realizzata in un luogo in cui il costo del lavoro sia minimo, per esempio in Cina. Una produzione in cui sia necessario un notevole apporto di know-how e software a buon mercato, viene realizzata in India dove sono presenti alte professionalità ad un prezzo orario limitato. Un call-center il cui il costo principale sia derivante dal personale può essere tecnicamente realizzato dove sia possibile trovare personale professionalizzato, a basso costo, in grado di parlare un buon italiano, per esempio in Romania».
E, stando a quanto affermano autorevoli economisti, nel corso degli ultimi anni, anche a causa della pandemia di covid-19, la tendenza alla delocalizzazione delle aziende, soprattutto manifatturiere, sarebbe rallentata e addirittura controbilanciata da una tendenza al rimpatrio.
Forse è per questo che Confindustria, spalleggiata dai mezzi di comunicazione di massa, sta dicendo che, anziché bloccare le delocalizzazioni, come richiesto dai sindacati conflittuali, sarebbe più efficace incentivare attraverso premi in denaro le aziende che rientrano in Italia: i padroni, dopo essersi arricchiti ulteriormente delocalizzando e gettando sul lastrico i dipendenti, vogliono essere premiati per scelte che già stanno facendo, nei casi in cui la convenienza a delocalizzare è venuta meno. E i partiti “di sinistra”, fingendosi improvvisamente interessati alle sorti dei lavoratori e all’indipendenza nazionale (garantita dalla permanenza di un minimo di manifatture sul territorio) danno loro retta.
Temo però che, nei tempi lunghi, la tendenza alla delocalizzazione, se non sarà fermata dalle lotte dei lavoratori, tornerà ad accentuarsi: nei paesi poveri la manodopera costa meno ed è sempre più professionalizzata.
I licenziamenti
In Italia, la sicurezza del posto di lavoro non esiste quasi più. È esistita, in passato, nel pubblico impiego (dove era effettivamente difficile licenziare un dipendente) e nelle grandi imprese private. Ora, inoltre, chi viene licenziato, ad esempio a causa di una delocalizzazione, fa molta fatica a trovare un altro lavoro. Quanto ai giovani alla ricerca di prima occupazione, ciò che viene offerto loro è difficilmente classificabile come tale: stage, contratti a tempo determinato, e poco altro.
È certamente opportuno esigere il blocco dei licenziamenti (con la sola esclusione di quelli per “giusta causa”) e ripristinare le norme che, solo quarant’anni fa, imponevano che i rapporti di lavoro fossero da intendere sempre a tempo indeterminato (con l’eccezione costituita dalle prestazioni libero-professionali e da quelle realmente occasionali).
Ma la tendenza attuale è ben altra, e ai disoccupati si concede al massimo il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, una sorta di sussidio di disoccupazione vincolato a obblighi assurdi quanto ridicoli. E i più reazionari tra gli appartenenti alle classi dominanti vorrebbero abolire pure questo: non possono tollerare l’idea che qualcuno possa sopravvivere senza lustrare loro le scarpe.
La cementificazione del territorio
L’impressione, dunque, è che prosegua, sia pure più lentamente, l’esodo delle industrie verso i paesi poveri e che in Italia ci si concentri sempre più sulla distribuzione di merci prodotte altrove. Ne è un segnale, tra gli altri, la creazione di grandi poli logistici nei pressi dei caselli autostradali; poli logistici che impiegano parte della manodopera non più assorbita dai settori produttivi, spesso in condizioni di lavoro disastrose. La destinazione di vaste aree di pianura a tali funzioni comporta poi ulteriore perdita di terreno agricolo, provocando danni ambientali e rendendo il nostro paese sempre più dipendente da altre aree del pianeta anche per ciò che riguarda l’approvvigionamento alimentare.
In poche parole: meno agricoltura, meno industria, più distribuzione, meno lavoratori e peggio pagati. Almeno fino a quando agli Italiani rimarranno i denari necessari per comprare ciò che viene loro distribuito…
Dopodichè?
Rischieremo di trovarci senza terreno agricolo, senza industrie e senza i soldi necessari per comprare alcunchè. Rimarranno il turismo e le (poche) produzioni di qualità. Dubito che saranno sufficienti per far vivere bene sessanta milioni di persone, di certo non lo saranno per garantirne l’indipendenza per ciò che concerne le scelte politiche e sociali.