Il paradosso del medico fiscale, di Maria Ferrari (n°268)
Se in Italia ci si ammala, è difficile che il medico di base riesca a visitare l’assistito presso il suo domicilio, a causa dell’elevato numero di pazienti che gli vengono assegnati. In genere viene data la precedenza a coloro che sono impossibilitati ad andare in ambulatorio: ad esempio alle persone “non trasferibili". In realtà, anche con una semplice influenza, non si hanno le forze per recarsi nell’ambulatorio del proprio medico di base, senza considerare il rischio di infettarsi di altro o di contagiare gli altri pazienti: ci si deve accontentare di una diagnosi telefonica. E qui arriva il paradosso.
Per un lavoratore dell’Amministrazione Pubblica che si ammala e che a stento è riuscito ad avere una diagnosi telefonica dal proprio dottore, si presenta a casa un medico fiscale dell’INPS per accertare che sia presente presso il proprio domicilio, o quello dichiarato quando è cominciata la malattia, e per verificare l’effettivo stato di malattia del lavoratore.
È comprensibile che un “capo” voglia controllare se un proprio dipendente, generalmente assenteista, è veramente impossibilitato a recarsi sul posto di lavoro e che quindi sia disposto a pagare un medico dell’INPS per effettuare il controllo.
Non è invece comprensibile che la Pubblica Amministrazione debba richiedere tale controllo obbligatoriamente e sprecare danaro della collettività.
Questo procedere deriva da una disciplina della malattia nella pubblica amministrazione, complicatissima e costosissima, contenuta nel cosiddetto “decreto anti-fannulloni” del 2008, quando Renato Brunetta, allora ministro della Pubblica Amministrazione e l’Innovazione del governo Berlusconi IV, occupava la scena mediatica con dichiarazioni offensive e pericolose sui lavoratori pubblici.
Tale norma prevedeva che le amministrazioni dovessero inoltrare obbligatoriamente la richiesta di visita fiscale anche nel caso di assenza per un solo giorno.
Così, dopo aver accontentato il suo elettorato, Brunetta emana una circolare con la quale fa un piccolo passo indietro: a causa «delle difficoltà finanziarie dovute all’effettuazione delle visite di controllo, viene rimessa al dirigente degli Uffici la valutazione circa i casi nei quali richiedere il controllo sulla malattia, tenendo conto della condotta complessiva del dipendente (considerando solo elementi di carattere oggettivo) e degli oneri connessi all’effettuazione della visita.
Rimane comunque fermo l’obbligo di disporre la visita sin dal primo giorno se l’assenza si verifica nelle giornate precedenti o successive a quelle non lavorative».
Ciò significa che oggi, se un lavoratore pubblico si ammala il mercoledì o il giovedì, ad esempio, e il medico di base lo colloca in malattia fino al venerdì, deve essere richiesta obbligatoriamente la visita fiscale perché l’assenza avviene in una giornata precedente a quella non lavorativa (per chi non ha lavorativo il sabato) anche se è dicembre ed è la prima assenza per malattia dell’anno.
Ritengo che andrebbe lasciato al dirigente della pubblica amministrazione il compito di decidere quando e a chi inviare la visita fiscale, in quanto conosce i suoi dipendenti e rientra nel suo ruolo per il quale è ben remunerato (così come avviene nel privato, dove il datore di lavoro non spende dei soldi per richiedere il controllo di un dipendente di cui ha fiducia). Ma si sa, tanto, nella pubblica amministrazione paga “pantalone” per cui i politici badano solo a fare propaganda per accrescere la loro notorietà e non guardano affatto alle conseguenze, anche economiche, di un provvedimento. Sarebbe interessante conoscere quante risorse sono state sprecate negli anni a causa dell’applicazione del decreto.
C’è poi da fare una considerazione molto banale: un medico fiscale si prenderebbe la responsabilità di confutare una diagnosi fatta da un medico di base che ha una lunga e profonda conoscenza del proprio paziente?
Ci si chiede: perché “sprecare” una professionalità come quella medica per un mero accertamento della presenza?