Il sindacato e le sfide del presente, di Luciano Nicolini (n°273)
L’edizione on line de “Il Fatto Quotidiano” ospita numerosi blog nei quali personaggi diversi tra loro (e dai redattori del giornale) illustrano le proprie idee circa le tematiche più svariate. Il 17 aprile scorso mi è cascato l’occhio su di un contributo intitolato “Le relazioni sindacali vanno ripensate. Tre aree cruciali: formazione, sicurezza, organizzazione”. Lo si deve a tale Michele Tamburrelli, che mi risulta essere (o essere stato) sindacalista della UIL.
Dopo aver premesso che «la difesa dei lavoratori e dei loro interessi è un mestiere difficile», cosa sulla quale non posso che concordare, Tamburrelli afferma che «le associazioni sindacali e dei datori di lavoro si trovano nella medesima condizione, sebbene non sempre ne siano consapevoli. Tre aree cruciali – a suo parere -emergono come punti di intervento prioritari: Formazione, Salute e sicurezza, Organizzazione del lavoro».
E il salario no? Verrebbe da dire.
A me risulta che molti giovani rifiutino il lavoro nelle grandi città poichè il magro stipendio sarebbe quasi interamente prosciugato dal prezzo degli affitti…
Ma in questa sede non mi interessa polemizzare: al contrario, intendo ragionare intorno agli argomenti proposti dall’autore dell’articolo.
Formazione
«La richiesta di una formazione a più ampio raggio e aggiornata – sostiene Tamburrelli - è pressante; tuttavia, la realtà statistica mostra un gap preoccupante, soprattutto rispetto ad altri paesi europei. (…)
Le parti sociali – a suo parere - non possono limitarsi a declamare l’importanza della formazione: devono trasformare queste esigenze in azioni concrete e tangibili, favorendo e stimolando la discussione e la realizzazione della formazione in ogni occasione possibile, soprattutto in ambito negoziale di contrattazione integrativa aziendale e/o territoriale».
In ambito negoziale?
Detto così suona un po’ strano. In prima approssimazione, infatti, la formazione dei dipendenti dovrebbe essere interesse del datore (meglio: compratore) di lavoro, non del sindacato!
Ma si può obiettare, con ragione, che essere adeguatamente formati costituisce, per i lavoratori, una valida arma di difesa, e che pertanto è bene che anche il sindacato si occupi della cosa.
D’accordo: a patto, però, che non diventi strumento di corruzione del sindacato medesimo (io, padrone, affido la formazione ai tuoi amici e tu, sindacato, anestetizzi i lavoratori).
Quello che dovrebbe chiedere il sindacato è, eventualmente, che siano i lavoratori stessi a decidere, in prima persona, da chi e su che cosa intendono essere formati.
Salute e sicurezza
«La sicurezza sul lavoro – prosegue Tamburrelli - non può essere trascurata, specialmente alla luce degli eventi tragici che, purtroppo, si verificano ancora quotidianamente. Bene fa il sindacato a livello generale ad invocare una maggior presenza di controllo nei luoghi di lavoro, la rivisitazione della normativa sugli appalti a cascata, una maggior attenzione al tema da parte della politica. (…)
La cultura in materia di salute e sicurezza – prosegue - si forma sollecitando la discussione sul tema mettendolo all’ordine del giorno degli incontri sindacali, dialogando con cognizione di causa sui rischi specifici, essendo di supporto a lavoratori e aziende su situazioni specifiche, operando fattivamente attraverso gli organismi paritetici, supportando attivamente i rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza nel loro lavoro quotidiano».
Certamente.
Ma sugli ispettori non farei troppo affidamento e, quanto ai lavoratori, ritengo, per esperienza diretta, che l’unico modo per salvaguardarne la salute sia garantire al singolo dipendente il diritto di rifiutarsi di effettuare operazioni che ritiene pericolose, senza perdere il posto di lavoro. Dopodichè, nel caso di rifiuti ripetuti, se ne parlerà in tribunale. Davanti a un giudice, non davanti al padrone e ai colleghi.
Organizzazione del lavoro
«La pandemia – si afferma nell’articolo - ha agito come catalizzatore di cambiamenti profondi nell’organizzazione del lavoro. Temi come lo smartworking e la riduzione dell’orario di lavoro sono diventati centrali, ponendo sfide e opportunità di pari passo. (…) La sfida (…) è ridurre l’orario di lavoro (o distribuirlo diversamente) a parità di produttività e retribuzione, sfida alla quale è importante approcciarsi con la giusta preparazione (…).
In questo contesto, la contrattazione collettiva emerge come uno strumento fondamentale. Tuttavia, affinché possa davvero portare cambiamenti significativi, è necessario sviluppare una contrattazione più aderente ai contesti locali e aziendali. Questo permetterà una maggiore flessibilità e adattabilità, garantendo una migliore risposta alle esigenze emergenti.
(…) Solo attraverso il dialogo costruttivo e la collaborazione attiva potremo affrontare le sfide attuali e plasmare un futuro lavorativo più equo e sostenibile per tutti».
Ridurre l’orario di lavoro a parità di retribuzione è sicuramente un obiettivo da perseguire. Ma mi sembra improbabile che possa essere raggiunto attraverso “il dialogo costruttivo e la collaborazione attiva” con i padroni.
Forse che il loro scopo non è più il profitto?
E se così fosse, non ci sarebbe comunque la concorrenza a spingerli verso un sempre maggiore sfruttamento della manodopera?
Se si intende ridurre l’orario di lavoro occorre, innanzi tutto, aumentare i salari: se non si fa questo saranno i lavoratori stessi, per primi, a rendersi disponibili a fare straordinari. Occorre inoltre smettere di propagandare attraverso i mezzi di comunicazione di massa oggetti inutili (e spesso dannosi) per possedere i quali si rendono disponibili a fare straordinari anche coloro che guadagnano in maniera sufficiente.
Ma quelle stesse aziende che hanno interesse a sfruttare quanto più possibile i lavoratori, hanno anche interesse a vendere quanti più prodotti è possibile. La lotta deve essere necessariamente di classe, per il salario, e culturale, per un diverso modello di sviluppo.
Quanto allo smart working, si tratta di un cappio al collo nel quale molti lavoratori, spinti dai padroni, si stanno infilando con le proprie mani. Per molte professioni è già finito il tempo in cui, lasciato il posto di lavoro, nessuno poteva più disturbarli. In cambio del “privilegio” (per chi? per chi deve assistere i propri familiari?) di poter scegliere quando lavorare ci si rende disponibili sedici ore su ventiquattro. Chi a casa propria è costretto a svolgere lavoro di cura non ha più, letteralmente, tempo libero.