Gigi del Cuti, di Rino Ermini (n°202)
Mio nonno paterno si chiamava Luigi Affortunato, noto nelle campagne dov’era nato e vissuto a lungo col nome di Gigi del Cuti. Da dove venisse quel “Cuti”, soprannome della famiglia forse da generazioni, non l’ho mai saputo.
Ormai oltre i settanta, viveva a Firenze e lavorava, si fa per dire, in un magazzino situato in via dell’Anguillara, di proprietà di un suo nipote anziano quasi quanto lui. Vi arrivava intorno alle nove e si metteva a sedere sull’ingresso a guardare chi entrava e chi usciva per far vedere che lì qualcuno c’era, ma soprattutto a guardare chi passava per la strada, in particolare i turisti e le turiste che si muovevano fra la basilica di Santa Croce e piazza della Signoria. Nel magazzino il nipote accumulava roba di ogni genere proveniente da sgomberi, improbabili acquisti e forse anche qualche furto, ma solo per dare una mano a ladri disperati e senza futuro. Era un magazzino dove ci si poteva anche perdere tanto era vasto e caotico; serviva anche da negozio: uno entrava e ci poteva trovare un paio di alamari da ufficiale del Settecento o una sciabola ottocentesca, una bicicletta scassata o una partita di fiaschi vuoti usati; poteva scovarci pure un mobile del Seicento capitato per caso, che valeva un occhio della testa e rischiava d’essere venduto per una bazzecola causa incompetenza; o una scrivania in vero legno di noce e molto dignitosa; o un pitale d’epoca; e via di questo passo.
Mio nonno stava lì col mezzo toscano in mano e a volte in bocca, quasi sempre spento, così gli bastava di più. A mezzogiorno in punto, quando partiva il doppio di campane alla Badia, si alzava e col nipote e un paio di dipendenti andavano a desinare lì a due passi, in una trattoria nel quartiere di Santa Croce, sempre la stessa, sempre minestrina in brodo e pollo lesso e un litro di Chianti in quattro. Lui diceva che vi si mangiava bene e si spendeva poco. Sullo spendere poco non si sbagliava perché pagava sempre il nipote, anche per i dipendenti: altri tempi e altri datori di lavoro. Finito il desinare tornavano con calma al magazzino. Mio nonno a volte si attardava (era anziano e gli era permesso) seduto su una panchina in piazza Santa Croce dove iniziava il mezzo toscano del pomeriggio.
Una volta trovò accanto a sé un giornale che qualcuno aveva distrattamente lasciato e lui lo prese e si mise a sfogliarlo, ma a rovescio perché non sapeva leggere. Passò uno e gli disse: “O nonno, o non lo vedete che state leggendo i’ giornale a roescio?” Proprio così disse: a “roescio”, senza la “v”. “E allora?” gli rispose stizzito il vecchio, “qualunque bischero sarebbe capace di leggerlo a diritto”. Non so se fosse vera o se semplicemente l’avesse sentita raccontare e la vendesse come successa a lui. Certo era tipo da essergli veramente capitata: uomo tranquillo, ma permaloso e velenoso come pochi.
Tornava poi al “lavoro” fino alle cinque, quando “staccava”, o “faceva festa”, secondo le espressioni che si usavano allora per dire che si era finita la giornata; in altre parole, per lui, voleva dire smettere di star seduto davanti al magazzino. Si alzava, salutava tutti e si portava passo passo in via Verdi a prendere l’autobus, il Quattordici, per andare nel quartiere di Rifredi, dove abitava col suo figliolo minore e relativa famiglia.
Noi, cioè la famiglia di un altro figlio di mio nonno, vivevamo allora non più nelle campagne del Valdarno aretino, ma a Scandicci, alle porte di Firenze, e ogni tanto si trasferiva da noi per una settimana o anche di più, dipendeva dall’intensità del litigio con la nuora. Quando poi litigava con mia madre, l’altra nuora, tornava a Rifredi.
Una volta che venne da noi, quando arrivò mi disse che sull’autobus non pagava più il biglietto perché gli avevano dato un tesserino “fisso” che gli costava molto meno del biglietto e con cui poteva viaggiare quanto voleva. Credeva che questo fosse un segno che stava per arrivare il comunismo e mi ci volle un bel po’ a spiegargli che, certo, poteva essere un primo passo verso il comunismo, ma per ora si trattava solo di un abbonamento per anziani, lavoratori e studenti.
Quando mi laureai in lettere, per fargli capire con più chiarezza che cosa voleva dire quell’espressione che per lui non significava granché, gli dissi che ero diventato professore di italiano. Al che mio nonno, ormai molto in là con gli anni e non più vedente, mi rispose che se almeno avesse avuto ancora l’uso dei suoi occhi avrei potuto insegnargli a leggere e scrivere. Ci rimasi male, ma proprio male, e ancora oggi mi do dello sciagurato perché non c’era bisogno di avere la laurea per insegnare a un anziano a leggere e scrivere, e negli anni precedenti avrei potuto farlo non una ma cento volte. E mai lo feci. Parlavo di uguaglianza, di solidarietà, di aiuto reciproco, di istruzione, di cultura, e chi più ne ha più ne metta, ma non avevo trovato mai uno scampolo di tempo per insegnare a mio nonno a leggere e scrivere, e nemmeno una tal cosa m’era mai venuta in mente. Bravo!
Una cosa però la feci e questa nessuno me la può levare. Una cosa che forse per lui valeva più del leggere e dello scrivere. Nell’epoca che lavorava al magazzino, per un paio d’anni lo portai con me sulle colline a vendemmiare da un contadino che conoscevo e che la vendemmia la faceva di domenica per farsi dare aiuto da amici e parenti, durante la settimana impegnati nel lavoro o a scuola, e in un giorno levarsi il pensiero. Non ci pagava, è ovvio, ma ci ricompensava con una bella cena e, a mezzogiorno, un buon pranzo fatto nel campo. Venivano le donne di casa con le ceste e dentro pane, vino, piatti, posate e tegami di baccalà in umido; e si mangiava seduti sui filari all’ombra delle viti. Mio nonno, era tanta la sua passione per la raccolta dell’uva, che a mezzogiorno trangugiava una fetta di pane e un bicchiere di vino e si rimetteva subito, da solo, a lavorare. Credo lo facesse anche perché poi, con gli altri anziani, era tutto un vantarsi di com’erano gli uomini di una volta, e come invece fossero malavvezzi i giovani di ora che non solo mangiavano e bevevano da far paura ma anche, prima di riprendere a staccar l’uva, appoggiavano il capo al pedano di un olivo e facevano pure un sonnellino di mezzora.