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Categoria: Letture
Creato Giovedì, 31 Maggio 2018

Franca Gandolfi e Domenico ModugnoSanremo, di Rino Ermini (n°213)

Quando mi affiora alla mente la parola Sanremo la associo a tre nomi e al parto di una vacca. I nomi sono Calvino, Libereso Guglielmi e Tenco. Il parto di una vacca ora ve lo racconto. Avrò avuto sette od otto anni ed erano un po’ di giorni che in casa si parlava di andare a vedere Sanremo. Questo nome allora non mi diceva niente. Qualche anno dopo, per me che amavo la geografia, sarebbe stato un paese sul mare dove si coltivavano i fiori. Per mia madre e una sua amica contadina che abitava in un podere a un chilometro dal nostro, doveva essere qualche altra cosa. Parlavano di canzoni, cantanti. Un giorno le chiacchiere furono ancora più fitte e sentii dire che la sera mia madre e la sua amica, si chiamava Eva, sarebbero andate al circolo dell’ACLI per vedere questo Sanremo alla televisione. Così, verso le otto, passò Eva e insieme, a piedi, si incamminarono chiacchierando.

Io rimasi perplesso perché di regola, col buio, erano gli uomini che andavano al circolo, non le donne. Capii però che quella sera c’era una cosa da donne, quindi ci andavano loro, e gli uomini stavano a casa.

Quando le due se ne furono andate, mio padre mi disse che noi s’era rimasti a casa perché non si poteva lasciare da solo mio fratello che era più piccolo di me, ma anche perché quella notte doveva figliare la vacca che avevamo per lavorare i campi, e nemmeno lei si poteva lasciarla da sola: se succedeva qualcosa c’era il rischio di perdere madre e vitello. Così scendemmo nella stalla. Che la bestia non fosse normale si vedeva dall’enorme pancia ma anche dal respiro pesante e dagli occhi. Mio padre diceva che quando una bestia soffre si può capire dai muggiti, ma soprattutto dagli occhi che ti guardano a quel modo. Molto tempo dopo (siccome io dopo ho studiato), ho capito che “guardare a quel modo” poteva voler dire tante cose. In quel caso, ma appunto l’ho capito dopo, voleva dire che ti guardava con occhi “imploranti”. Mio padre disse che la bestia poteva stare in quelle condizioni anche tutta la notte e figliare al mattino. Non si poteva sapere. Fino a un certo punto non si poteva sapere, perché l’esperienza gli diceva che quella a metà nottata l’avrebbe scodellato. Questa parola mi ricordò la pasta asciutta o la minestra perché quando mia madre ci chiamava a tavola ci gridava sempre “sto per scodellare”; che voleva dire, anche questo l’ho capito dopo, mettere una cosa nella scodella. E anche il verso della gallina quando ha fatto l’uovo, cioè lo “scoccodellare”, una via di mezzo fra il coccodè e lo scodellare, stava a significare che la gallina aveva fatto l’uovo. Cioè l’uovo era passato dal culo ed era finito nel covo a forma di scodella che stava nel pollaio. Pensieri di un ragazzino in formazione. Non era il caso di stare svegli. Allora mio padre prese una pressa di paglia pulita e la sciolse accanto al muro e lì ci sdraiammo. Ma figurati se si dormiva. C’era il respiro della vacca che ci teneva svegli e anche il fatto che se non ero io a chiedere di questo e quello, anche di cose che non c’entravano nulla, era lui a far le sue considerazioni e ripassarmi tutti i parti delle vacche che aveva visto e di come erano quelle bestie e così via. Cose comunque  che un po’ sapevo perché le raccontava spesso. E chissà perché io mi ricordavo, e ancora oggi mi ricordo, d’aver sentito da lui di quando da giovanotto era andato a una fiera che oggi da casa a quel paese ci vuole un’ora con la macchina. E a quella fiera comprò una giovenca da lavoro e la portò a casa a piedi menandosela dietro per la cavezza. E disse che gli era rimasto nella testa lo zoccolìo sulla strada, e che questa bestia doveva essere brava perché nemmeno una volta si impuntò o tentò di ruzzare. E sì che era una bestia giovane, quindi c’era da aspettarsele certe cose.

La vacca cominciò ad agitarsi verso le dieci e mezza, ad agitarsi come spingesse. Io e mio padre ci si tirò su da giacere, senza alzarci, si accese la luce e al lume fioco che faceva si stava attenti a quel che succedeva. E si cominciò a vedere che la sua parte dietro, quella che poi avrei saputo si chiamava vagina ma che allora non si chiamava così e poi non si nominava mai soprattutto in presenza dei ragazzini, piano piano si allargava a causa di qualcosa che spingeva da dentro e voleva uscire. Si stette ancora un po’ a guardare, poi ci si alzò e mio padre andò dietro alla bestia che stava sdraiata e a me disse di rimanere un po’ a distanza e che se non volevo guardare di girarmi di spalle. Io non avevo nessuna intenzione di non guardare. Mi disse che era il vitello che cominciava a uscire, aiutato dalla madre che da dentro spingeva: di conseguenza iniziò a mettere le mani sull’apertura da dove usciva e stando attento a non far movimenti azzardati la allargava, toccava leggermente la testa del vitello o le zampe davanti (che anche queste si vedevano) e le tirava, sempre molto delicatamente, per aiutare la madre. Quando il vitello ebbe messo fuori tutta la testa mio padre cominciò a tirare un po’ più decisamente, ma pareva che più che tirare lasciasse lavorare la bestia e solo desse un aiuto quando ci voleva. Il vitello intanto continuava ad uscire e finalmente fu tutto fuori. Mio padre stimolò la vacca a mettersi in piedi e poi fece alzare il figlio. Era piccolo e barcollava un po’, ma aiutato da mio padre si attaccò subito ai capezzoli mentre la vacca lo annusava nel di dietro e lo leccava. Quando ebbe finito di poppare aveva sul muso la schiuma del latte ed era un po’ buffo. Era un maschio. Aveva gli occhi scurissimi e sembrava già avere un’aria da furbo, come volesse subito correre e saltare. Mio padre lo mise su della paglia asciutta sotto il muso della vacca che continuava a leccarlo perché, diceva mio padre, doveva sentire il sapore di suo figlio per conoscerlo ma soprattutto perché lo voleva asciugare e farlo sentire tranquillo. E in seguito l’avrebbe riconosciuto sempre così: odore e sapore. Mio padre mi chiamò a dargli una mano. Si prese un po’ di paglia asciutta e si aiutò la vacca in quell’operazione sfregando il vitello. Poi mio padre prese un paio di manciate di crusca e spolverò la bestiolina perché così, disse, si asciugava meglio. Era come noi che ci si spolverava di borotalco dopo aver fatto d’inverno il bagno caldo nella tinozza. E quando si esce, anche se ci si asciuga, col freddo delle stanze, si rimane umidi. Col borotalco ci si assorbiva l’umido. Ma la crusca sul vitello serviva perché la vacca lo leccasse più volentieri e allo stesso tempo leccandolo si nutrisse un po’. Mio padre disse che ora che aveva da leccarlo non si sarebbe nutrita, qualunque cosa gli si fosse messa davanti, mentre se si usava per farla mangiare questo trucco funzionava. 

Si rimase nella stalla tutta la notte. Verso mezzanotte tornarono mia madre ed Eva. Guardarono il vitello e dissero che era bello, sembrava che non gli importasse molto. Fecero anche due o tre parole su Sanremo. Eva si lamentava ora che aveva paura ad andare a casa da sola con tutto quel buio e allora mio padre mi disse di andare ad accompagnarla. Perché? E io allora? Non avevo paura io a tornare poi da solo? Se hai paura, insistette mio padre, sciogli il cane e portalo con te. Così lo sciolsi e andai con Eva. Quando si arrivò vicino a casa sua mi disse buonanotte e io e il cane ci si mise a correre come matti sulla via del ritorno, io perché me la facevo sotto, ma anche perché volevo vedere il vitello e che cosa faceva, e il cane perché si divertiva. Finì che tornai comunque da solo perché il cane, quel bastardo, aveva capito che se tornava a casa lo rimettevo alla catena, così scappò per passare la notte dietro a qualche lepre. Quando rientrai nella stalla il vitello stava di nuovo poppando. A un certo punto mio padre mi mandò in cucina a scaldare un paiolo d’acqua sul focolare. Quando fu calda venne lui a prenderlo perché il paiolo era pesante e non ce la facevo. Lo portò nella stalla e mescolò con l’acqua un po’ di crusca e di biada, che era una farina ricavata da segale e avena macinate. Questa specie di pastone caldo molto liquido la vacca lo bevve volentieri.

La mattina dopo era domenica, dormii pesante ma alla fine mi svegliai perché il mio cervello voleva andare nella stalla a vedere ancora il vitello. Ne avevo così voglia che in quelle tre ore di sonno l’avevo anche sognato. Non andai alla messa perché era nato il vitello. Così feci come mio padre che con una scusa o con l’altra ci andava si e no due volte all’anno, a natale e a pasqua perché, diceva, in quelle due occasioni era tradizione degli antichi, non religione.

 

 

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